Il Nobel per la fisica 2006 ha premiato una scoperta la cui portata va ben al di là dei confini del mondo scientifico. I lavori di John Mather e George Smoot ci proiettano sui primi straordinari istanti dell’universo e aiutano a capire come si sono formate le strutture materiali che sono poi evolute nell’universo che comprende anche noi. Ma hanno anche aperto una strada per andare ancor più in profondità: è quello che farà il satellite Planck, che l’Agenzia Spaziale Europea (Esa) lancerà nel 2008.
Marco Bersanelli, docente di astrofisica all’università di Milano, insieme a Reno Meldolesi guida il team che prepara lo strumento principale che viaggerà sul Planck; ma ha partecipato direttamente all’inizio di tutta l’avventura, collaborando proprio con Smoot a Berkeley e durante un’intensa campagna di misure al Polo Sud nel 1991.
Riportiamo stralci dell’intervista di Mario Gargantini apparsa su IlSussidiario.net il 14 dicembre 2006.
Qual è il valore del risultato premiato col Nobel?
Smoot e Mather hanno aperto nuove frontiere nella ricerca sulle origini e l’evoluzione dell’universo studiando la “luce fossile” (detta CMB, Cosmic Microwave Background) che proviene dalle profondità dello spazio e del tempo. Le loro ricerche, culminate con la missione COBE nel 1989, hanno mostrato per la prima volta le caratteristiche “fini” della prima luce del cosmo. Come ha osservato Smoot, paragonando la scala cosmica a quella umana l’osservazione della luce fossile equivale a studiare un embrione di pochi giorni.
Le loro scoperte riguardano due diversi fronti: da una parte l’energia luminosa primordiale ha una distribuzione “ideale”, un po’ come il suono purissimo di un diapason. Dall’altra si sono viste per la prima volta lievissime increspature (variazioni di una parte su centomila!) nel mare bollente di radiazione e materia che riempiva l’universo 14 miliardi di anni fa.
Quando Smoot ha iniziato la sua ricerca che cosa non andava nella iniziale descrizione della CMB?
“Non andava” il fatto che il fondo cosmico apparisse completamente uniforme. Negli anni ’80 gli esperimenti da terra e da pallone non misuravano nessuna deviazione dalla perfetta uniformità. Questo non andava d’accordo con il fatto che nell’universo noi osserviamo strutture, come le galassie, i cui “semi” dovevano essere presenti anche nell’universo appena nato. È stato necessario uscire dall’atmosfera con un satellite come COBE e realizzare strumenti con sensibilità superiore per scoprire queste tenui increspature; così come la rugosità di una superficie liscia si può vedere con una lente abbastanza potente.
Come si inserisce in queste ricerche la missione Planck?
La dimostrazione dell’imponenza del risultato di Smoot sta nella messe di nuove domande che ha aperto. A COBE è seguita una seconda missione spaziale della NASA, WMAP; ancora in corso. Il satellite Planck, nel quale l’Italia gioca un ruolo di leadership, ha l’obiettivo di portare a termine quello che COBE ha iniziato: misurare il CMB con una precisione senza precedenti così da poter ricavare il valore dei parametri che regolano l’evoluzione e il futuro dell’universo. Lavoriamo su Planck dal 1992 e siamo orgogliosi di avere Smoot come uno dei più stretti collaboratori!
Cosa colpisce nel modo di affrontare la scienza di Smoot?
George ha sempre avuto il fiuto sopraffino dello sperimentale, un’intuizione non comune. È un entusiasta, una forza della natura. E ha saputo perseguire caparbiamente risultati straordinari. Ricordo gli anni in cui ho lavorato con lui al Lawrence Berkeley Laboratory come decisivi per la mia formazione, pieni di sfide e di soddisfazioni. In quegli anni George lavorava su COBE e al tempo stesso guidava l’esperimento sullo spettro del fondo cosmico, che poi ci avrebbe condotto alle misure fatte al Polo Sud. George non è mai stato una persona facile per temperamento, ma ha sempre saputo dare una chance a ciascuno. Quando nel 1986 sono arrivato a Berkeley mi ero appena laureato, ero giovane e inesperto; eppure dopo poche settimane lui mi aveva già affidato la responsabilità di uno degli esperimenti. Una collaborazione che è continuata e cresciuta fino a oggi. Da lui ho imparato moltissimo, gliene sono grato.