Scienziati

Benedetta CappelliniRassegna Stampa

Di Niccolò, nella storia della scienza, non c’è solo Copernico. C’è anche Niccolò Stenone, il fondatore della geologia, della paleontologia e della cristallografia. Finalmente un bellissimo libro di Alan Cutler, geologo e divulgatore scientifico di fama, intitolato “La conchiglia del diluvio. Niccolò Stenone e la nascita della scienza della Terra” (Il Saggiatore), rende giustizia a questo gigante del pensiero. Stenone nasce il primo gennaio 1638 in Danimarca, da genitori orafi, luterani. La sua passione, ancora giovane, è l’anatomia. La sua mano, abile, delicata, disseziona incessantemente, manovra il bisturi con una sapienza infinita: “Non una farfalla, non una mosca riescono a sfuggire alla sua abilità. Riuscirebbe a contare le ossa di una pulce, se le pulci avessero le ossa”.
Ancora giovane, affida i suoi pensieri ad un diario, “Chaos”, che porta il motto “In Nomine Jesu”. Come Copernico, come Boyle, che aveva addirittura fatto voto di castità per essere scampato a un pericolo, come il suo amico Jan Swammerdam, fondatore dell’entomologia, che intende “scrivere un libro sulle api per dimostrare la saggezza del Creatore”, così anche Stenone unisce una curiosità incredibile, a un profondo senso religioso. Tramite la dissezione Stenone fa alcune scoperte interessanti, come il dotto della ghiandola parotidea e le ghiandole lacrimali. Gira l’Europa, ma l’approdo della sua vita è la corte di Firenze, l’Accademia del Cimento, all’epoca il più prestigioso cenacolo scientifico del mondo. Qui conosce Viviani, ultimo discepolo e biografo di Galilei, Lorenzo Magalotti, e il mitico Francesco Redi, medico galileiano, colui che aveva confutato per primo la generazione spontanea. Firenze è un paradiso, il granduca sostiene i suoi scienziati, e Stenone scopre che “in contrasto con gli stereotipi sui cattolici con cui era stato cresciuto nella Danimarca luterana, i suoi nuovi amici erano cristiani devoti con uno spiccato senso morale”, Viviani e Redi compresi. Galilei è il loro nume tutelare, ed essi ritengono che la sua sfortuna sia stata dovuta alla “gelosia personale e all’indole vendicativa di nemici schierati tra gli studiosi aristotelici conservatori”, perché in verità “la sua scienza non offendeva la fede in alcun modo”. In questo ambiente lo studioso danese concentra i suoi interessi sulle conchiglie e sui fossili, fondando così la geologia in un breve e immortale trattato di 68 pagine, il “De solido” (1669).
Stenone parte dall’osservazione delle conchiglie, dei fossili e dei denti di uno squalo. Come per Galilei l’ostacolo principale erano state le dottrine pagane di Aristotele, così la domanda di Stenone sul perché si trovino conchiglie sulle montagne o nei terreni o nelle rocce, trova l’opposizione di “alcune correnti mistiche del Rinascimento”: “I filosofi neoplatonici ed ermetici, insegnavano che ogni cosa sulla terra era plasmata da forze plastiche e da invisibili emanazioni delle stelle”. Secondo tale visione animista, pagana, le conchiglie fossili non sono vere conchiglie, ma entità che sbocciano dal suolo, come le piante, per generazione spontanea, per riverberi di stelle e di pianeti, per forze magiche, per virtù dell’Anima Mundi. Queste dunque sono le idee che Stenone deve demolire, per dimostrare che i fossili altro non sono che creature viventi “il cui corpo è stato ricoperto lentamente dalla stratificazione dei sedimenti”. Così analizzando fossili, conchiglie, stratificazioni varie, dischiude lo studio della terra, del suo passato, della sua storia, creando la geologia e definendo alcuni principi basilari, detti ancor oggi “principi di Stenone”.    “Bellissime le cose che si ignorano”
In mezzo alle ricerche Stenone approda dal luteranesimo al cattolicesimo: rimane colpito, soprattutto, da una processione del Corpus Domini, dalla devozione allegra degli italiani, dalla figura ascetica del gesuita Paolo Segneri, e soprattutto dal dialogo con alcune donne di fede. Il giorno stesso della conversione Stenone viene convocato dal re di Danimarca. Egli però non vuole tornare nel suo paese, là dove il cattolicesimo è proibito e celebrare la messa può costare la vita. Tornerà in patria solo per un breve periodo, ma sarà maltrattato, per la sua adesione al cattolicesimo, e gli sarà precluso l’insegnamento in università.
A parte questa parentesi, Stenone vive per lo più a Firenze, dove compone il già citato “De solido”. In esso affronta anche questioni bibliche e di fede. Il trattato viene esaminato dal Santo Ufficio, che ne affida il controllo a Redi e al Viviani, i quali evidentemente godono di ottima fama nel mondo ecclesiastico. Il nulla osta alla pubblicazione arriva subito. Mentre le sue affermazioni vengono smentite o lodate dai più famosi naturalisti dell’epoca, Stenone si occupa sempre più di teologia e deve difendersi dall’accusa di alcuni compatrioti che lo accusano di “resa al papismo”. Risponde sempre con garbo, con dolcezza, per non esacerbare gli animi. Conia, in questi anni, un celebre aforisma, che dice della sua consapevolezza di quanto le scoperte umane non siano nulla rispetto alla misteriosa grandezza dell’Essere: “Belle sono le cose che si vedono, ancor più belle quelle che si conoscono, bellissime quelle che si ignorano”.
Nell’aprile del 1675 diviene prete e poco dopo vescovo. Va a Roma, per l’ordinazione, nel 1677, a piedi, “vivendo di carità nel corso del viaggio”. Il Papa lo invia in Germania, tra i protestanti, dove vivrà in condizioni estreme, arrivando a vendere l’anello e la croce d’argento, per aiutare i poveri. Dorme poco, digiuna, lavora, prega… Morirà il 25 novembre 1686 e nel 1988 verrà proclamato beato dalla chiesa.