Javier Prades Lopez, L’Osservatore Romano, 23 agosto 2012
L’affermazione che siamo «uno in corpo e anima» (Gaudium et spes, 14), decisiva per formulare la verità dell’esperienza cristiana, è esposta oggi a una critica frontale. Infatti, una delle opinioni più diffuse nella mentalità comune, che si ispira a una certa lettura dei risultati delle scienze, è quella che afferma che l’uomo si spiega esaustivamente a partire dalla materia. Nessuno può negare la dimensione corporale dell’uomo, né quella spirituale, ma, invece di rispettare la dualità degli clementi in gioco e accettare la sfida che suppone l’enigma della loro unità, non mancano teorie che risolvono in falso questa «unità duale» semplicemente negando uno dei due poli. Se in altre epoche della storia si sono date riduzioni di tipo spiritualista che eliminavano il valore del corpo umano, oggi prevalgono le teorie che cercano di risolvere l’enigma prescindendo dalla dimensione spirituale. L’enigma non si risolve, semplicemente si dissolve.
Queste teorie suppongono un’obiezione radicale: il rapporto con l’infinito sarebbe il puro risultato di certi fattori di tipo psicologico, biologico, chimico o fisico, che contribuiscono a produrlo. In ultima istanza, sarebbero fenomeni d’ordine puramente materiale. L’io e la sua apertura verso l’infinito non sarebbero altro che prodotto del cervello materiale. Per questo oggi si parla di una concezione «naturalista» dell’uomo, in cui lo spirito, la mente, si riduce a cervello, inteso come organo neurobiologico. Secondo la famosa formula di Francis Crick: «Non sei altro che un mucchio di neuroni». Probabilmente il «naturalismo» è uno degli avversari più formidabili del titolo di questo Meeting.
Queste teorie devono appoggiarsi su un pregiudizio che sí potrebbe formulare così: le conquiste scientifiche «ci obbligano» a escludere l’esistenza dello spirito nell’uomo. Infatti, si dice che con il metodo di analisi scientifica non si riesce a identificare la realtà spirituale e che per tanto questa non esiste. Si tratta di una prima evidente riduzione dell’ambito della realtà e della sua conoscenza, che non si mette in discussione. La conoscenza umana sarebbe esclusivamente quella scientifica. Se non si rispettano i modi diversi di usare la ragione, si commettono gravi errori, come spiega Jurgen Habermas: «La fede scientista in una scienza che un giorno potrà non solo completare la autocoscienza personale mediante una descrizione oggettivante, ma dissolverla in essa, non è scienza, ma cattiva filosofia». Invece, se si evitano questi abusi metodologici, crediamo che, al contrario di quello che può suggerire una certa divulgazione superficiale, il mondo della scienza offra oggi alcune possibilità, non prive di difficoltà, per un dialogo fecondo. In questo senso, il punto di contatto reale tra l’uomo comune, il filosofo, lo scienziato e il teologo è l’interesse per la conoscenza dell’io e per la sua libertà.
Per questo stesso motivo sosteniamo pure che la risposta all’enigma dell’unità duale «anima-corpo» dell’uomo non verrà mai solo dalla scienza. É uno di quei terreni dove con più evidenza risulta necessario un approccio multidisciplinare.
Quando ci troviamo davanti a obiezioni di questo tipo che fanno appello alla conoscenza scientifica per dissolvere l’unità duale «anima-corpo», ed eliminare così il rapporto con l’infinito proprio della natura umana, cosa possiamo dire? Ricordiamo telegraficamente alcuni dati ben noti a tutti, che hanno effetti evidenti su quello che ci interessa oggi.
La prima sorpresa è che una posizione puramente materialista non riesce a dar ragione della singolarità del corpo umano. Le scienze antropologiche ci dimostrano che è diverso dal corpo degli animali, proprio perché è il corpo di un essere spirituale. Le teorie materialiste non riescono a dar ragione di questa serie di peculiarità del corpo stesso dell’uomo.
Invece spesso si divulgano esperimenti dove si mostra come certi animali hanno riprodotto qualche aspetto di certe attività spirituali dell’uomo. Davanti all’interrogativo se si possa, o si potrà, riprodurre tutte le caratteristiche proprie di un essere vivente spirituale, Robert Spaemann rivendica invece che la domanda decisiva sia, in cambio, quest’altra: «Cosa significa essere un pipistrello? Non lo sappiamo e non lo sapremo mai, perché non abbiamo un’anima di pipistrello, non siamo pipistrelli. Se lo fossimo, non saremmo più noi stessi ma pipistrelli, e non sapremmo cos’è essere un uomo. E neanche sapremmo cos’è essere un pipistrello, perché con ogni probabilità appartiene all’essere del pipistrello non poter riflettere su quello che è».
Lo scientismo materialista non riesce a spiegare il corpo umano, e meno ancora, ovviamente, la peculiarità dei fenomeni mentali, anche se deve riconoscere la loro esistenza. Gli scienziati più equilibrati confessano che la spiegazione di questa articolazione tra processi materiali e spirituali risulta misteriosa e che siamo molto lontani dall’avere una risposta scientifica, nel caso in cui la scienza potesse cercare di offrircerla. Invece, quello che risulta assurdo è pretendere che partendo dalla conoscenza neurobiologica del cervello si arrivi alla realtà stessa dei beni spirituali, immateriali. Spaemann segnala molto acutamente che è impossibile che in un cervello si possano leggere le note di un quartetto di archi di Mozart o il calcolo infinitesimale. Tutti capiamo che non è possibile identificare «quello che» si sta dicendo a partire dal puro esame dei meccanismi neurobiologici che si mettono in funzione quando pensiamo o parliamo. La conoscenza e la libertà umane sono fenomeni spirituali, immateriali, che non constano di parti e che risultano inaccessibili a un metodo che pretenda ridurli a pura realtà materiale. D’altra parte, privati della loro dimensione spirituale i fenomeni umani biologici non sono realmente niente. Per fare un esempio che ci può toccare da vicino, un tumore considerato esclusivamente come puro fatto biologico (in quanto è una determinata evoluzione di cellule) non è nulla. E invece è tutto, acquista tutta la sua carica di domanda, muove tutta la ragione e la libertà, in quanto è vissuto da una coscienza spirituale.
Oggi possiamo apprezzare i progressi di quelle correnti della neuroscienza che non riducono la conoscenza scientifica al risultato dell’esperimento. Secondo quest’ultima posizione, che si può chiamare la prospettiva di terza persona, lo scienziato si limita a osservare gli oggetti esterni a lui, secondo un metodo che offrirebbe la massima garanzia di oggettività e comunicabilità universale. Per questo la prospettiva di terza persona sostiene che tutto quello che non si può esaminare in questo modo, resta fuori dal metodo scientifico. Invece oggi prende piede nell’ambito neuroscientifico l’accettazione della cosiddetta prospettiva di prima persona, in cui si tiene conto di quello che il soggetto dice di se stesso, le sue percezioni, sentimenti ed emozioni. Taluni neuroscienziati considerano che sia un pregiudizio non scientifico rinunciare a questa fonte di dati che, senza dubbio, si trova davanti chi realizza un esperimento.
Si può andare oltre e sostenere che in qualsiasi osservazione scientifica quello che non è immediatamente evidente di per sé alla ragione di un uomo sono precisamente i dati dell’esperimento. Al microscopio o con il telescopio si vedono forme, macchie, colori che sono sempre interpretati dalla ragione del ricercatore che presuppone molte altre conoscenze, molte anche non scientifiche. Ciò che invece è evidente, in cambio, è la coscienza immediata del ricercatore di fronte a quello che sta facendo (sa che sta misurando, sa che sta calcolando), così come la immediatezza concomitante con cui è presente a se stesso. Come vediamo, ogni conoscenza sperimentale, di terza persona, passa inevitabilmente attraverso la mediazione di quella esperienza puramente spirituale di prima persona, che è la sua condizione di possibilità. Mentre non succede lo stesso nella conoscenza naturale, propria del mondo della vita, in cui non è necessaria la mediazione della conoscenza scientifica.
Tutto quanto abbiamo detto finora non vuole sminuire in assoluto i progressi scientifici che ci mostrano la sorprendente interazione tra processi materiali, corporali, e atti spirituali. Lo spirito dell’uomo non è il puro spirito angelico, ma opera in intima unione e distinzione con il suo corpo. È qui, dall’interno del miglior ambito scientifico e filosofico, dove vediamo rinascere le domande: come è possibile che a partire da soli elementi materiali, che non sono dotati di coscienza, possa esistere coscienza? Che cos’è allora l’uomo? Come si può conoscerlo adeguatamente?
Partendo da queste domande della scienza – in questo caso le neuroscienze – si apre la questione affascinante della capacità della scienza di raggiungere la verità reale e di interrogarsi circa il fondamento di questa conoscenza, che (come abbiamo visto prima) non è meramente scientifica. La scienza è una attività spirituale dell’uomo che non può rinunciare a interrogarsi circa il proprio fondamento, non solo perché si scontra con certi limiti, ma anche perché si interroga circa i fondamenti ultimi di quella verità che raggiunge con sicurezza. Attraverso questo cammino la scienza si apre alla collaborazione interdisciplinare con altre conoscenze di tipo filosofico e teologico, che permettono di ripren- dere quelle domande, svelando in esse una radicalítà che le converte in domande «ultime».
Dobbiamo trarre delle conseguenze da quanto detto finora. Una spiegazione dell’uomo puramente immanente, di tipo materiale, non riesce a dar conto dell’enigma dell’uomo: non spiega la dimensione mentale che inevitabilmente si sta utilizzando mentre sì cerca di negare la sua stessa esistenza, non spiega neppure la peculiarità della sua esistenza corporale. La concezione materialista dell’uomo non rende giustizia agli elementi corporali e spirituali tipici dell’uomo, così come appaiono nel suo agire. E per questo non riesce a . spiegare il significato stesso della ragione e dell’autocoscienza come fenomeni indiscutibilmente presenti nell’uomo e sui quali riposa la stessa attività scientifica.
Quando l’uomo si concepisce in termini puramente materiali, si riduce a un mero dato aleatorio e vano. Nessuno può garantire il potere della ragione di raggiungere la verità, né attestarne la necessità. Se la condizione umana perde il suo carattere spirituale, si riduce a un puro factum, a un dato neurobiologico, al modo di un sofisticato meccanismo cibernetico, o a un puro fatto sociologico, risultato dell’autoregolazione impersonale delle strutture sociali. In questo caso, partendo da se stesso, l’uomo non può assicurarsi un senso. La mera contingenza sperimentale non può dare fondamento alla ragione. A mio giudizio, questa è la diagnosi decisiva: la ragione scientista che riduce indebitamente l’uomo a pura materia, non riesce più a dar ragione del suo stesso senso e dell’agire razionale, a partire dalle premesse che essa stessa ha stabilito. L’attività razionale dell’uomo, inclusa quella dello scienziato che postula il materialismo, non sarebbe nient’altro che lo sguardo immobile di una cosa, di un «soggetto» o piuttosto di un «oggetto» che ignora se stesso.
Le conseguenze della riduzione materialista sulla concezione della libertà sono gravissime. Per non dilungarmi troppo, cito come sintesi le parole di chi ha saputo anticipare queste conseguenze in tutta la loro crudezza, ancora una volta, Nietzsche: «Si scoprì finalmente che anche questo essere non è responsabile, in quanto è completamente conseguenza necessaria, resa concreta a partire dagli elementi e dagli influssi delle cose passate e presenti: perciò l’uomo non può essere ritenuto responsabile di niente, né in merito al suo essere, né ai suoi motivi, né ai suoi atteggiamenti o comporta- menti. Così si è giunti a sapere che la storia dei sentimenti morali è la storia di un errore, l’errore della responsabilità, che in quanto tale riposa sull’errore della libertà della volontà».
Se questo è l’esito, della concezione materialista sembra giusto ritenere che si possano continuare a cercare altre risposte all’enigma dell’unità duale «anima-corpo». Tocca a ognuno di noi scoprire e approfondire lo stupore davanti a questa unità duale, dallo scienziato all’uomo comune.