Piero Benvenuti, L’Osservatore Romano, 11 agosto 2012
Fantastica impresa quella realizzata dagli scienziati e ingegneri della Nasa che sono riusciti a depositare con precisione millimetrica il veicolo Curiosity sulla superficie di Marte. Non è il primo rover a scendere sul pianeta rosso, ma la novità, gravida di conseguenze, sta nella tecnologia adottata. Per la prima volta, dopo la consueta discesa balistica nell’atmosfera di Marte e il rallentamento della velocità di caduta per mezzo di un grande paracadute, Curiosity è stato calato dolcemente sul suolo marziano da una sorta di “gru spaziale”, capace di mantenersi stabilmente a pochi metri di altezza grazie a un sistema di razzi.
Eseguito il delicato compito, la gru si è allontanata per scendere a circa mezzo chilometro di distanza in modo da non interferire con le prossime attività del rover.
La perfetta riuscita della sequenza di ingresso nella tenue atmosfera marziana e del successivo «atterraggio» morbido e controllato di un veicolo pesante — Curiosity pesa quasi 900 chili — non è motivo d’orgoglio solo per il fatto in sé, ma perché apre la strada alla sistematica esplorazione del pianeta Marte. Forse le affermazioni entusiastiche di questi giorni — astronauti americani su Marte entro il 2030 — sono eccessivamente ottimistiche: sarà necessario risolvere prima il problema del deperimento muscolare degli astronauti conseguente a una permanenza di diversi mesi in assenza di gravità e trovare il modo di proteggerli dalla micidiale radiazione cosmica cui sarebbero inevitabilmente esposti durante il tragitto interplanetario. Sicuramente però il successo odierno permette di prevedere l’invio di complessi laboratori robotici in situ, capaci di compiere analisi sempre più approfondite e differenziate del suolo marziano. Le motivazioni scientifiche di queste missioni e delle future, che cercheranno tra l’altro di riportare a Terra dei campioni di materiale marziano, sono evidenti: si cercano le tracce di una evoluzione biologica su un pianeta che nel nostro sistema solare occupa, anche se marginalmente, la cosiddetta “fascia abitabile”, cioè quella zona, né troppo vicina né troppo lontana dalla stella centrale, che permette il mantenimento per tempi lunghi (miliardi di anni) di condizioni favorevoli allo sviluppo di strutture molecolari complesse. Un indizio anche minimo di un tale sviluppo su un pianeta diverso dalla Terra avrebbe conseguenze rivoluzionarie perché, coniugato con la scoperta che un sistema planetario attorno ad una stella è la norma più che l’eccezione – ad oggi sono stati individuati 784 pianeti extrasolari – significherebbe che l’emergere della vita nel cosmo, al pari di molte altre «emergenze», è una caratteristica globale piuttosto che una unicità terrestre.
Si tratterebbe di una rivoluzione non solo scientifica, ma che, al pari di quella “copernicana”, coinvolgerebbe appieno la filosofia e la teologia. Soprattutto quest’ultima, di fronte al clamore mediatico generato da Curiosity, dovrebbe riflettere subito sulle conseguenze di una sempre più plausibile panspermia cosmica. Non si tratta di affermare semplicemente, come già più volte è stato fatto, che eventuali esseri coscienti extraterrestri sarebbero comunque nostri fratelli (ci mancherebbe!), ma di analizzare coraggiosamente, sulla base delle conoscenze scientifiche acquisite nell’ultimo mezzo secolo sulla evoluzione globale del cosmo, se la panspermia non sia addirittura una “necessità” teologica.
In un suo recente libro, il biologo e filosofo Francisco Ayala, afferma che se il nastro dell’evoluzione biologica sulla Terra venisse riavvolto e fatto ripartire, quasi sicuramente non darebbe origine alla stessa evoluzione che oggi conosciamo attraverso la storia fossile del nostro pianeta. Molto probabilmente non farebbe emergere qui, sulla Terra, la coscienza. Un universo privo di vita è ammissibile dal punto di vista teologico? Se noi crediamo, mantenendo fede al messaggio evangelico, che la creazione sia un atto libero di amore, che attende con impazienza di essere riconosciuto come tale dal creato, allora la coscienza “deve” emergere nel cosmo.
Non importa che questo avvenga sulla Terra o su un altro pianeta o satellite, né, come afferma con misurata ironia britannica il teologo John Polkinghorne, che essa si manifesti in un essere con due mani di cinque dita ciascuna. Ciò che conta per l’economia del creato è che la coscienza cosmica emerga comunque e abbia la possibilità di intuire razionalmente il suo essere «creatura»; che possa quindi accettare (o negare) liberamente la rivelazione dell’intima natura trinitaria della creazione, quale processo attuativo di un amore libero e disinteressato.