L’Osservatore Romano, 12 luglio 2012, di Piero Benvenuti
Nel 1993, l’allora ministro britannico per la ricerca, William Waldgrave, promise una bottiglia di champagne a chi fosse stato in grado di spiegargli, in una singola pagina dattiloscritta, la natura del bosone di Higgs e l’importanza della sua eventuale scoperta. Nei giorni scorsi non c’erano bottiglie in palio, ma gli articoli che sui giornali facevano a gara per cercare di spiegare al lettore comune, con parole semplici e similitudini prese dalla vita quotidiana, cosa sia questo famoso bosone, si sono contati a decine.
Mettendomi dalla parte del lettore comune e immaginando i dubbi che gli possono esser sorti sulla propria capacità di comprendonio, vorrei tranquillizzarlo dicendogli che l’impresa di far capire in poche parole la natura dell’ultima particella scoperta dai fisici del Cern, è di fatto impossibile.
Sarebbe come se, consegnando a un immigrato cinese, appena approdato nel nostro Paese, una paginetta scritta in italiano che descrive succintamente il Paradiso di Dante, pretendessimo che egli riuscisse ad apprezzare la bellezza poetica e la profondità di contenuti della terza cantica dantesca. Dovrebbe innanzitutto imparare l’alfabeto occidentale (la matematica), poi la grammatica e la sintassi (la fisica classica), infine la filosofia e la teologia scolastiche (la fisica quantistica e il modello standard). A quel punto però il nostro amico cinese si sarebbe trasformato in un cultore di letteratura italiana (o in un fisico moderno) e quindi non avrebbe più bisogno di spiegazioni metaforiche.
Sforzi inutili quindi? Certamente no: gli esempi che sono stati ideati per farci almeno intravvedere la rilevanza fondamentale della scoperta, o meglio, della verifica dell’esistenza del bosone di Higgs, sono molto ingegnosi ed encomiabili. Forse però soffrono tutti di una prospettiva limitata in partenza (sempre dal punto di vista del lettore comune): tutti indistintamente si sforzano di farci comprendere solo la «fisica» del bosone, il modo con il quale il «campo» di Higgs interagisce con le altre particelle elementari determinandone la natura, in particolare la massa di ciascuna di esse.
Un aspetto sicuramente interessante e affascinante per chi abbia una minima conoscenza della fisica moderna, ma che lascerà perplessi o disinteressati tutti gli altri. Un peccato e un’ingiustizia perché — come correttamente ricordava il ministro Waldgrave nel promettere la sua bottiglia — «Gli scienziati hanno l’obbligo di spiegare al pubblico l’importanza delle loro ricerche, se pretendono di essere poi finanziati con denaro pubblico».
È evidente che un’ennesima esemplificazione, simile a quelle apparse nei giorni scorsi, non avrebbe effetto. A mio parere, è necessario sollevare lo sguardo dall’ambito puramente fisico e scientifico e, anche a costo di qualche inevitabile imprecisione e semplificazione, portarlo a un livello più “filosofico” , non in senso accademico, ché le cose peggiorerebbero, ma nel senso di riavvicinare il problema alle questioni essenziali del nostro essere nel mondo.
Infatti, al di là dei tecnicismi, la discussione sulla esistenza o meno del bosone di Higgs, ci riporta alla fondamentale e storica questione sulla natura dello spazio, in particolare dello spazio vuoto e se quest’ultimo sia identificabile con il “nulla”.
Quando io mi alzo dalla poltrona e mi avvicino alla finestra, che cosa ne è dello “spazio” che occupavo mentre ero seduto? Oggi diciamo senza esitazione (e Aristotele con noi) che esso viene subito occupato dall’aria circostante. Ma oggi sappiamo anche (questa volta con Leucippo, Democrito, Epicuro e Lucrezio) che l’aria e noi stessi siamo composti di “atomi”, particelle elementari indivisibili che “sono” e “si muovono” nello spazio.
Qual è la natura di questo spazio? È la domanda che si poneva Lucrezio nel De rerum natura: «indaghiamo dunque se il vuoto che abbiamo scoperto, luogo o spazio dove ogni evento avviene, sia nel suo insieme finito oppure s’apra sterminato e infinitamente profondo (an immensum pateat vasteque profundum)». Una visione, quella degli atomisti ionici, incredibilmente moderna, ma oscurata per secoli dall’ horror vacui aristotelico che non ammetteva in natura l’esistenza del vuoto.
Gli esperimenti di Torricelli, ma soprattutto la fisica newtoniana, riportavano sulla scena lo spazio come un concetto assoluto e inerte — per così dire — rispetto ai corpi che in esso si muovevano. Concetto comunque esistente e necessario, tanto che Kant lo definirà (unitamente al tempo) forma «pura» a-priori dell’intuizione.
È interessante ricordare, visto il nomignolo “teologico” distrattamente assegnato al bosone di Higgs, che il passaggio dello spazio vuoto dalla non-esistenza aristotelica all’entità assoluta e onnipervasiva della fisica newtoniana suscitò all’epoca un’accesa discussione teologica, testimoniata da una fitta corrispondenza tra Gottfried Leibniz e Samuel Clarke: se lo spazio era dovunque, dove si collocava Dio? Oggi saremmo tentati di giudicare ingenua una tale diatriba, ma di fatto era molto più “filosoficamente” seria di certe superficiali affermazioni lette nei giorni scorsi.
Il concetto di uno spazio vuoto assoluto cominciò a vacillare quando Einstein dimostrò come la presenza di massa gravitazionale modifichi la geometria dello spazio stesso, riportandolo quindi «dalle altezze irraggiungibili dell’a-priori» — per usare le parole di Einstein — al livello dell’esperienza empirica. Non è più possibile, dal punto di vista fisico, immaginare uno spazio che “contenga” l’universo: spazio e cosmo sono inscindibili.
L’equivalenza tra massa ed energia e la fisica quantistica hanno ulteriormente arricchito la nozione di spazio, che dobbiamo immaginare popolato di particelle e antiparticelle virtuali che emergono e si annichilano in continuazione. Il «campo di Higgs», dal quale, quando l’energia è sufficientemente alta, il bosone omonimo si materializza, rappresenta l’essenza dello spazio fisico: si avvicina, dopo secoli, a fornire la risposta che Lucrezio cercava.
La conclusione, provvisoria (o falsificabile) nei dettagli, ma difficilmente sovvertibile nella sostanza, è che lo spazio, ancorché vuoto, non coincide con il «nulla» e una fluttuazione quantistica del vuoto può sì far emergere materia-energia lì dove non c’era, ma si tratta sempre di una “trasformazione”, non di “creazione dal nulla” (creatio ex nihilo). Ecco quindi che la scoperta del bosone di Higgs offre interessanti spunti di riflessione sulla nostra stessa esistenza, sul nostro essere qui e ora e sulla nostra origine.
Naturalmente questi accenni balbettati andrebbero approfonditi in una seria discussione interdisciplinare tra fisici, filosofi e teologi, ma, guardando indietro nella storia con una certa nostalgia, ci accorgiamo improvvisamente che oggi queste discipline si sono via via arroccate dietro barriere impenetrabili, dalle quali tutt’al più si lanciano alla rinfusa strali e irridenti vituperi verso l’“avversario”. La situazione non è sempre così estrema, ma i commenti letti in questi giorni testimoniano comunque una certa incomunicabilità.
In una recente intervista pubblicata da «Avvenire», Michael Heller lanciava l’appello: «Teologi, studiate la scienza». Io aggiungerei sommessamente: «Colleghi scienziati, studiamo teologia o, quantomeno, un po’ di filosofia», le nostre ricerche risulteranno più comprensibili, soprattutto quelle che non sembrano avere applicazioni pratiche immediate. Speriamo quindi che il clamore e l’interesse generale suscitati dal successo dell’esperimento cruciale dell’Lhc, invogli tutti a riflettere, allargando i propri orizzonti culturali.
Se il bosone di Higgs, oltre ad agire sulle particelle elementari, riuscisse a far riavvicinare il pensiero scientifico a quello umanistico, si trasformerebbe davvero in “super-particella di Dio”!