Ubaldo Casotto, Il Foglio, 5 Luglio 2012
Studiare serve a scoprire quanto siamo ignoranti. Per questo non bisogna smettere mai. La scoperta, che poi non di scoperta si tratta ma di conferma sperimentale, del fino a ieri inafferrabile bosone di Higgs ne è l’ennesima conferma. E non sarà l’ultima. I titoli dei giornali, giustamente euforici, parlano di “particella di Dio”. Higgs, che ne teorizzò l’esistenza, non sopporta che la chiamino così, preferisce definirla “fiocco di neve”. L’attribuzione teologica è responsabilità del premio Nobel Leo Lederman che chiamandola “particella di Dio” sperava di convincere le autorità politiche statunitensi a non revocare i finanziamenti per l’acceleratore del Fermilab di Chicago. Ora il “fiocco di neve” è stato catturato dire visto sarebbe dire troppo – perché (in questo è vero, si comporta un po’ come Dio, ma non è una sua esclusiva, tutta la realtà è “segno”) ha lasciato tracce di sé in due esperimenti che gli davano la caccia con tecnologie diverse: la sua energia si esprime tra 125 e 126 GeV (miliardi di elettronvolt). Il bosone che Higgs “vide” ne11964 (allora sì che si trattò dì visione) era il tassello mancante al cosiddetto Modello standard, la teoria che spiega l’architettura di base della natura, sarebbe lui il fornitore di massa a tutte le altre particelle subatomiche della materia. Ora, gli scienziati, almeno quelli seri, non sono mai apodittici e anche in questo caso parlano di valori che garantiscono “l’altissima probabilità” della presenza del fatidico bosone, e, soprattutto, dicono che il suo ritrovamento non chiude nessuna partita, anzi “ha aperto una nuova fisica”. E con umiltà spiegano che non tutto è andato come previsto, che la scienza, scusate il bisticcio, non è una scienza esatta, che le caratteristiche del bosone sono diverse da come la teoria l’aveva immaginato (avete letto giusto, gli scienziati, i fisici almeno, usano l’immaginazione), ma “proprio le nuove anomalie intraviste nel bosone di Higgs – ha detto Rolf Heuer, direttore generale del Cern – potrebbero costituire l’anello dì congiunzione con la realtà che ancora ignoriamo”. Nella storia della scienza c’è sempre un anello mancante. La realtà di cui ancora siamo ignoranti – va detto per completezza di informazione di fronte al successo giustamente rivendicato da Heuer (“Abbiamo raggiunto una tappa fondamentale nella conoscenza della natura”) – è quel 96 per cento di materia ed energia oscura che costituisce l’universo che oggi ci è noto e di cui non conosciamo le caratteristiche. La materia su cui siamo edotti è il 4 per cento. Dunque è vero, studiare serve a capire quanto siamo ignoranti e che la conoscenza indispensabile al vivere non sia rintracciabile in nessuna parte o particella, perché riguarda il tutto. L’uomo religioso non ha nulla da temere da alcuna scoperta scientifica, guarda con stupore nel cannocchiale di Galileo come nello schermo dell’ecografia, e si addentra volentieri nel sottosuolo del Large Hadron Collider di Ginevra come hanno fatto nel gennaio scorso alcuni cardinali ita- liani. Il matematico Francesco Severi spiegava che quanto più si addentrava nella ricerca scientifica, tanto più gli era evidente che tutto ciò che scopriva, man mano che procedeva, era “in funzione di un assoluto che si oppone come barriera elastica (…) al suo superamento con i mezzi conoscitivi. C’è un oltre cui ogni scoperta rimanda. La verifica sperimentale della validità del Modello standard delle particelle elementari è anche la conferma della presenza nel mondo di una simmetria e forse addirittura di una supersimmetria, quindi di un ordine armonico che è la condizione prima per poter parlare dell’esistenza di un’intelligenza che crea e governa il tutto. “Chi non ammette l’insondabile mistero non può essere neanche uno scienziato” non è una massima del cardinale Camillo Ruini, ma di Albert Einstein. Ed è una verità semplice, per così dire democratica, attingibile anche, a chi scienziato non è, ma di una certa “scienza”, di un sapere certo, cioè di un senso, ha assoluta necessità per vivere. Jurij Gagarin, primo uomo nello spazio, disse di non aver visto Dio lassù. Più umilmente, e più realisticamente, l’anonimo estensore dei salmo 138 descrisse così l’esperienza possibile all’uomo di ogni tempo: “Se salgo in cielo, là tu sei; I se scendo negli inferi, eccoti. (…) Quanto profondi per me i tuoi pensieri, quanto grande il loro numero, o Dio! Se volessi contarli, sono più della sabbia”. Ci son più cose in cielo e in terra di quante ne veda l’acceleratore del Cern.