Il dono della creatività

Benedetta CappelliniEditoriale

Dove nasce la creatività scientifica? Questa domanda inevitabile ha meritato un simposio strano e affascinante, connotato dalla imprevedibilità degli esiti. Il simposio, intitolato “Creativity and creative inspiration in mathematics, science and engineering: developing a vision for the future”, organizzato dalla Associazione Euresis e dalla John Templeton Foundation, si è tenuto a San Marino dal 29 al 31 Agosto 2008.
I suoi esiti, sorprendenti per ricchezza, hanno provocato il sorgere di un’altra domanda. Che cosa può far sì che eminenti rappresentanti del mondo della fisica, dell’ingegneria, della linguistica, della meteorologia, storici della scienza, antropologi e astronomi, convenuti da tutto il mondo proprio per interrogarsi liberamente sulla fonte della creatività nelle scienze, assistano insieme, dopo due giorni di lavoro condiviso, al comporsi dello scenario umano in cui la creatività è fiorita e può fiorire, e si salutino infine con un abbraccio e un senso di gratitudine per quello che è accaduto?
La risposta alle due domande è, in fondo, la stessa: la creatività, e non solo quella scientifica, non è innanzitutto il risultato della applicazione di opportune strategie, di una pianificazione ben riuscita, ma il frutto gratuito di una simpatia umana per la realtà, e del suo riconoscimento in sé e negli altri.
Lo hanno dimostrato i contenuti delle relazioni del simposio e, insieme, lo spessore umano che vi si è rivelato.

La creatività ha un volto.

Come emerso in modo limpido dai lavori, lungo la storia della scienza la passione per il vero e i suoi esiti creativi si sono sempre mostrati incarnati in volti concreti di persone, la cui consistenza umana era (è) una cosa sola con la creatività, e non un insieme neutro di fattori da cui quest’ultima deriva secondo una relazione causa-effetto. Per esempio, dall’affascinante racconto di Gino Segrè (fisico della University of Pennsylvania) su Niels Bohr e la scuola di Copenhagen, è emerso che la robusta fibra fisica e mentale di Bohr, la bellezza della sua famiglia, la sua modestia, il suo bisogno di connessioni (Bohr aveva idee solo discutendo con altri!), tutto questo fu parte costitutiva della sua creatività.
La creatività si comunica.
Ma l’influenza di Bohr sulla scienza andò molto oltre le sue personali scoperte, come dimostra la grandissima affezione e ammirazione che ebbero per lui generazioni di scienziati, ineguagliata, e certamente legata alla sua capacità di promuovere l’altrui creatività. Come? E’ una domanda cruciale per chiunque sia impegnato nel lavoro scientifico. Come accade che il maestro favorisca la creatività dell’allievo, che il responsabile di una struttura di ricerca ne favorisca il cammino verso vere scoperte, che i colleghi alimentino la creatività l’uno dell’altro? Innanzitutto, facendo in modo che nell’altro possa dispiegarsi in tutta la sua ampiezza quella vocazione per il vero che, dote irriducibile, forma la ricchezza ultima di ogni uomo, e quindi di ogni scienziato. Otto Frisch riferiva, di certi incontri con Bohr, che “era come essere in presenza di Socrate”. 

Riduzioni.

Irriducibile, in termini pratici, significa non assoggettabile a programmazioni. Rogers Hollingsworth, uno storico e sociologo della University of Wisconsin che ha studiato in quali contesti istituzionali si siano verificate le maggiori scoperte scientifiche in ambito bio-medico nell’ultimo secolo, ha mostrato nel suo intervento come la programmazione centralizzata e gerarchica delle linee di ricerca sia un fattore che tende a ridurre la creatività scientifica -un fatto sottolineato anche da Alan Macfarlane, antropologo della University of Cambridge. Al contrario, la creatività risulta favorita quando si punta proprio su ciò che, delle persone impegnate nella ricerca, non è riducibile a programmi, non è incasellabile in tabelle di pianificazione. Che corrispondenza fra queste conclusioni e la constatazione che la scoperta scientifica, per sua natura, sopravanza, eccede la misura delle mosse di chi la compie!
Per le stesse ragioni, la riduzione –oggi operata a molti livelli- della ricerca scientifica a mero strumento per il raggiungimento di obiettivi che vengono considerati prioritari nelle agende politiche nazionali e internazionali, produce come risultato più evidente l’abbattimento della creatività, che va di pari passo con un allontanamento della scienza proprio da ciò che la rende viva: la domanda di verità sorretta dalla certezza, o perlomeno dall’intuizione, che “la verità ci rende buoni, e la bontà è vera”. Nella percezione attuale –ha notato Richard Lindzen, meteorologo del Massachusetts Institute of Technology- la scienza è vista più come una fonte di autorità che come una modalità attraverso cui l’uomo si interroga sulla realtà. Ovvero: l’uso strumentale della scienza ne fa un mezzo efficace per imporre visioni della realtà, e nello stesso tempo ne deprime il vigore conoscitivo. A questo ha fatto eco Owen Gingerich, professore emerito di astronomia a Harvard, il quale, rievocando gli eventi memorabili del 1609, anno in cui Galileo puntò per la prima volta il telescopio verso ilcielo e Keplero pose i fondamenti dell’astrofisica, ha affermato con nettezza che il mondo scientifico oggi tende ad operare soprattutto attraverso la persuasione, e non attraverso le prove.
La trasformazione della scienza in strumento di autorità e di persuasione fa certamente aumentare il suo peso politico, ma, sradicandola dalla domanda di verità e di senso da cui essa trae vita, riduce drammaticamente la sua apertura al nuovo, alla speranza di quella novità inattesa che, irrompendo, può lasciare pieni di stupore e di gratitudine.

Creatività e pienezza umana.

Un colloquio è autenticamente interdisciplinare quando chi vi partecipa non si accorge più che lo sia; cioè, quando da esso emerge qualcosa di più unitario, di più vivo di quanto tutti gli sforzi organizzativi (prima) e di sintesi (dopo) potessero sperare di ottenere.
Questo è accaduto al colloquio di San Marino. Lì, i tanti interrogativi che sono stati posti con libertà, competenza e passione –sull’origine della vita e la sua diffusione nell’universo, sull’origine dei linguaggi e dei loro principi universali, sull’accadere misterioso e nel contempo familiare della scoperta scientifica- si sono trovati a risuonare in accordo con un’unica, semplice e cruciale domanda posta da John Wood, dell’Imperial College di Londra, a conclusione delle sue riflessioni sulla presenza sempre più imponente dell’automazione nella ricerca scientifica: “Il tuo agire è quello di una macchina, o di un essere pienamente umano?”

La pagina dedicata all’evento

Le foto del simposio (grazie a Franco Bottoni)