Il 15 gennaio 2004 avrebbe dovuto rappresentare una data storica per la Nasa. Quel giorno l’allora presidente degli Stati Uniti George W. Bush convocò una conferenza stampa per illustrare i nuovi obiettivi strategici del programma spaziale americano. Ad una Nasa ancora ferita dal recente disastro del Columbia e impegnata, nella sostanziale indifferenza del grande pubblico, a sostenere il completamento della Stazione Spaziale Internazionale (ISS) Bush indicò un ambizioso nuovo corso centrato sulla esplorazione del sistema solare, con il ritorno sulla Luna entro il 2020 e lo sviluppo di una base lunare permanente, preludio ad una successiva missione su Marte. Il programma veniva finanziato con 12 miliardi di dollari all’anno. Di questi, tuttavia, soltanto 1 miliardo era costituito da fondi freschi.
La Nasa avrebbe dovuto trovare gli altri 11 miliardi internamente, dirottando risorse e chiudendo altri programmi. La cosa suscitò qualche malumore e finì per toccarmi direttamente, dato che due giorni dopo l’amministratore della Nasa, O’Keefe, ci informò di avere cancellato la missione dello Shuttle al telescopio spaziale Hubble che avrebbe installato la Wide Field Camera 3, progetto a cui lavoravo da anni e oramai completato (la missione è stata poi eseguita con successo nel maggio 2009, con un altro amministratore). Facendo suo l’obiettivo del presidente Bush, la Nasa annunciò il pensionamento degli oramai vetusti Shuttle e il disimpegno dalla inutile stazione spaziale, che sarebbe stata completata e tenuta in vita solo per onore di firma nei confronti della comunità internazionale, Italia compresa. Sia lo Shuttle che la ISS operano in orbita bassa, a poche centinaia di chilometri dalla Terra. Secondo Bush queste cose non sono “esplorazione”, non scoprono cose nuove, non ispirano le nuove generazioni, non rappresentano sfide da cui possano davvero scaturire nuove tecnologie.
Difficile dargli torto. Allontanarsi dalla Terra, tornare sulla Luna per costruire una base permanente e mandare astronauti in giro per il sistema solare è sicuramente più ambizioso. Richiede nuovi razzi, aventi margini di sicurezza maggiori di quelli dello Shuttle e aumentata capacità di carico. Per permettere il ritorno sulla Luna la Nasa avviò quindi un nuovo programma di sviluppo di grandi vettori, chiamato Constellation.
Peccato che per fare queste grandi cose occorrono soldi, molti soldi. Con i 12 miliardi all’anno “girati” da Bush la Nasa è riuscita a malapena a impostare Constellation come qualcosa di concettualmente simile al vecchio programma Apollo, riciclando tecnologie oramai ampiamente collaudate con lo Shuttle. Pochi mesi fa c’é stato il primo lancio di prova del nuovo razzo. Un successo, certamente, ma l’impressione del deja vù ha impedito che ci fosse grande eccitazione. E per quanto riguarda la base lunare, si sono visti solo studi sulla carta.
Veniamo quindi al 1 febbraio 2010. Il nuovo presidente degli Stati Uniti Barak Obama annuncia al Congresso che il programma Constellation è cancellato e di non ritenere prioritario il ritorno sulla Luna. La Nasa, secondo Obama, deve darsi mete più ambiziose del ritorno sulla Luna 50 anni dopo Apollo 11: sbarcare su Marte o almeno sui suoi satelliti, o magari su un asteroide. Per quanto riguarda l’orbita bassa terrestre, si può lasciare che se la sbrighino i privati che recentemente sono riusciti nei primi voli suborbitali. La speranza è che la commercializzazione e l’ingresso dei privati possa avere per lo spazio lo stesso ruolo determinante che ha avuto per lo sviluppo dell’aviazione un secolo fa. Dato che al momento non siamo sicuramente in grado di andare su Marte, occorre sviluppare tecnologie e innovazione. Questo è il nuovo obiettivo strategico della Nasa.
Obama stanzia per la ricerca 6 miliardi di dollari in 5 anni, che sostanzialmente corrispondono ai soldi che aveva messo sul tavolo il suo predecessore per Constellation. Circa la metà andrà in missioni di “esplorazione” (tipo i robot su Marte) o di “osservazione” (telescopi su satellite). Non possono poi mancare corposi finanziamenti per l’osservazione del nostro pianeta, che in tempo di global warming rappresenta un tema molto caro a questa amministrazione. Va precisato che questa è la proposta di budget di Obama che il congresso dovrà approvare: sicuramente i senatori degli stati dove si trovano le industrie più penalizzate dal ribaltone daranno battaglia, soprattutto in un anno di elezioni….. staremo a vedere.
Nel frattempo, la Nasa è ripartita. Abortito Constellation da un giorno all’altro, stanno comparendo i bandi per i progetti di ricerca da finanziare secondo le nuove direttive. Ma molti restano perplessi: siamo sicuri che sia questa la strada giusta? In fondo, se quella di Bush (“sulla Luna entro il 2020”) era una visione senza risorse, questa di Obama (“da qualche parte, un giorno…”) può essere considerata risorse senza visione.
È evidente che questi cambiamenti di rotta, su programmi che hanno tempi di sviluppo dell’ordine del decennio, sono estremamente costosi. Quanti soldi sono stati sprecati per Constellation e il ritorno sulla Luna?
Alle prime basi lunari seguiranno altre più grandi e confortevoli, in grado di autosostenersi e collegate da sistemi di trasporto più o meno stravaganti, ai laboratori seguiranno alberghi….. Idem per Marte. L’idea di fondo è che l’uomo, originalmente confinato su questo anonimo puntino blu nell’immensità dell’universo, è destinato a emanciparsi. Debellate guerre e malattie e acquisite le tecnologie necessarie, l’umanità si alzerà un giorno da Terra per lanciarsi alla conquista del Sistema Solare prima, delle altre stelle poi, infine della Galassia e forse oltre. La attendono risorse illimitate e nuovi mondi da colonizzare, quei pianeti abitabili che siamo sulla soglia di scoprire attorno ad altre stelle. Mondi su cui magari dovremo trasferirci spinti proprio dalla necessità di abbandonare questo pianeta sfruttato da generazioni come la nostra.
L’universo dunque come nuova frontiera, come terra promessa.
Un’analogia frequentemente ripetuta assimila l’esplorazione dello spazio alle epoche delle grandi esplorazioni, le epopee della scoperta delle Indie, delle Americhe, delle isole dei mari del Sud. Come un moderno Cristoforo Colombo, Gagarin ci ha aperto la via verso terre benedette da cui abbiamo portato tesori, fiori, frutti, su cui abbiamo costruito capanne prima, poi fortini e infine metropoli. Ma se tutte le analogie sono pericolose, questa lo è particolarmente perché ignora un fattore fondamentale: contrariamente alle coste del Madagascar o del Maryland, lo spazio è mostruosamente inospitale.
Non c’è nulla che possa permettere alla vita di sostenersi: manca l’aria, l’acqua, il cibo, le escursioni termiche sono estreme, nelle astronavi manca la gravità, il flusso di raggi cosmici costituisce un danno sicuro alla salute, eccetera. Esiste qualcosa di simile sulla Terra? Ovviamente no, ma ci possiamo avvicinare se consideriamo all’Antartide. Il continente antartico è sufficientemente ostile da permettere un legittimo paragone con lo spazio .
Che ne è dell’Antartide? Venne “intuito” da Cook nel 1772.
Il primo vero avvistamento da parte delle spedizioni di Smith e Bransfield avvenne quasi 50 anni più tardi. Segue un’epoca di esplorazione che culmina nel 1911 quando Amundsen raggiunge il Polo Sud. La storia più recente vede un intreccio di politica e ricerca scientifica. La mappa politica dell’Antartide è piena di linee meridiane centrate sul polo che demarcano settori rivendicati da varie nazioni, dall’Australia alla Norvegia.
Il Cile, che raggiunge con la sua mainland le latitudini più australi avrebbe forse qualche titolo in più per rivendicare il Polo. Ma se si adottasse lo stesso criterio per la Luna sarebbe allora l’Ecuador ad avanzare pretese, dato che il punto più lontano dal centro della terra si trova in Ecuador (la vetta del Chimborazo). Nel dubbio, notiamo che al Polo Sud si trova una grande base americana.
Sono curiosità da settimana enigmistica. Più interessante notare che la stessa carta mostra decine di basi costruite dalle varie nazioni. Qualcuna abitata in permanenza, qualcuna sporadicamente, la maggior parte probabilmente abbandonate. In generale hanno, almeno ufficialmente, scopo di ricerca scientifica (anche per via di trattati internazionali): ricerca di vario tipo, dalla geofisica, alla geologica, dalla formazione del sistema solare tramite lo studio dei meteoriti alla cosmologia.
Queste ricerche hanno anche portato a brillanti risultati, vedi l’esperimento Boomerang, in cui l’Italia ha giocato un ruolo fondamentale. Esiste poi un marginale turismo di elite: pagando il giusto si può mettere piede in Antartide al termine di un estenuante volo cargo dalla Terra del Fuoco.
Tutto qua. Questo è l’Antartide, un mondo lontano, inospitale, sicuramente affascinante. Nessuno si sogna migrazioni di massa. Anzi, la tendenza più recente è verso la conservazione integrale: chi è socialmente evoluto e cosciente dei problemi dell’ambiente non va a ficcare il naso in Antartide. Perché dovrebbe essere diverso per lo spazio, che ha costi enormemente più grandi e condizioni enormemente più inospitali? Infatti non c’è differenza. Lo spazio è e resterà un luogo per pochi.
Impostare i programmi spaziali su una prospettiva utopica è dannoso e le incertezze della Nasa lo dimostrano. Anche se altre nazioni svilupperanno capacità di lancio per motivi di prestigio e per interesse militare, una presenza umana semi-permanente avrà senso solo se strettamente legata a quei tipi di ricerca scientifica resi possibili dalla peculiarità dell’ambiente spaziale, e di rilevanza tale da giustificarne i costi.
Quali sono queste ricerche? Dobbiamo guardare alle due caratteristiche fondamentali dello spazio: mancanza di atmosfera e di gravità effettiva, che rende possibile costruire megastrutture con relativa facilità. L’esperienza della ISS insegna che sistemi modulari possono essere assemblati nello spazio senza troppi problemi, grazie anche alla perizia degli astronauti che in questi anni hanno dimostrato di poter fare cose straordinarie durante le uscite extra-veicolari, vedi ad esempio le spettacolari missioni di servizio al telescopio Hubble.
Potremmo quindi avere bisogno della ISS, o di qualcosa di simile, intesa però come base di assemblaggio di megastrutture robotiche, magari da lanciare verso lo spazio più profondo, piuttosto che come macrostruttura essa stessa, costosissimo laboratorio multinazionale per far crescere fagioli in assenza di gravità. Cosa costruire ?
La prima cosa che viene in mente sono telescopi giganti, migliaia di volte più potenti di Hubble. Sono oramai in costruzione progetti faraonici da terra. Realizzarne di simili nello spazio, al di fuori dell’atmosfera , sarebbe fattibile con le tecnologie attuali e porterebbe un incomparabile aumento di conoscenza su aspetti fondamentali della conoscenza: come è nato e si è strutturato l’universo? Esistono pianeti simili al nostro?
Quindi, abbandonare l’utopia della colonizzazione e partire da quello che c’è: decenni di esperienza di volo umano , uno straordinario corpo di astronauti in grado di assemblare nello spazio strutture inconcepibili a terra, una comunità scientifica vivace: questa è davvero l’epoca delle grandi scoperte. Alcuni mesi fa a un incontro di Crossroads a Houston il comandante Mark Kelly, parlando dei suoi cinque voli sullo Shuttle, disse simpaticamente «io sono solo l’autista del bus».
Mettere questa esperienza di navigazione al servizio della scienza, dei nuovi “scopritori”, può risolvere il dilemma della Nasa e riaccendere il nostro entusiasmo.
* Full Scientist allo Space Telescope Science Institute (STScI)
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