Ai confini primi e ultimi dell’universo

Benedetta CappelliniRassegna Stampa

L’Osservatore Romano, 10 aprile 2011, di Piergiorgio Picozza
Per lo scienziato, dopo un primo momento in cui domina l’emozione della scoperta arriva il momento della riflessione sul ruolo dell’uomo in questo universo in cui noi ci sentiamo soli o solitari, guidati solo dalla nostra intelligenza.
Scriveva il grande fisico Stephen Weinberg: “La terra è solo una piccolissima parte di un universo ostile e opprimente. Più l’universo sembra comprensibile, più ancora esso sembra inutile”. Però anche per Weinberg noi uomini, sebbene insignificanti sulla scala del cosmo, siamo i veri i signori dell’universo. “Ma se non vi è alcun sollievo nei frutti della ricerca – prosegue Weinberg – vi è almeno qualche consolazione nella ricerca stessa”.
Noi uomini siamo considerevolmente privilegiati, essendo capaci di intraprendere lo studio scientifico delle leggi che governano l’universo. Ma a quale livello questa posizione speciale è rilevante o anche determinante per la comprensione dell’universo? E ancora: Cosa è la conoscenza, cosa è la verità? Come conosciamo ciò che noi conosciamo? Come comunica l’uomo con l’universo? Il poeta, l’uomo di fede, il filosofo, il teologo, lo scienziato, cercano di entrare in contatto con l’universo con l’arte, la religione, la filosofia, la scienza. Quale genere di conoscenza potranno produrre? Cosa significa il termine verità scientifica?
La ricerca scientifica procede con due strumenti fondamentali: la misura, che permette di determinare valori numerici associati a un dato fenomeno, e la teoria che formula modelli matematici del fenomeno stesso e permette di stabilire le relazioni tra i valori associati a un dato fenomeno che la misura può confermare o negare. Questo è il “metodo scientifico”. La formulazione di una teoria in forma matematica punta alla ricerca di leggi fondamentali che governano la trattazione fisica del cosmo. Anche se la realtà si trova nella descrizione fenomenologica del mondo che ci circonda, la verità si trova nelle leggi fondamentali.
Ma procedendo in questa maniera possiamo noi dire di conoscere il mondo esterno, come invece possiamo dire dei nostri pensieri, delle nostre sensazioni? Cosa ci comunica lo scienziato? La certezza, l’incertezza, procede solo per modelli sempre più raffinati, ci aiuta a scoprire la realtà? È chiaro a ogni scienziato che non vi è un rapporto diretto tra la sua mente e il mondo, che tutto viene mediato dagli strumenti e nulla lo potrà assicurare che al di là delle apparecchiature esista realmente
un mondo indipendente. Pur tuttavia, il ricercatore delle grandi leggi della natura vive la sua ricerca come metodo per conoscere il mondo. Per Einstein “senza la convinzione che con le nostre costruzioni teoriche è possibile raggiungere la realtà, senza la convinzione nell’intima armonia del nostro mondo, non potrebbe esserci scienza”.
Forse però dovremo rassegnarci a che la nostra ricerca della verità non abbia mai fine, ma con la certezza che la scienza continuerà inesorabilmente ad avanzare verso la verità.
È questa non chiara individuazione di un confine invalicabile alla conoscenza che spiega l’attendismo di molti scienziati di fronte al problema di Dio. Partendo da queste basi, cosa può dire la scienza nei riguardi della creazione?
Per le teorie più moderne nessuna legge di conservazione conosciuta impedirebbe all’universo osservato di essersi evoluto da una condizione di completa assenza di materia, cioè dal nulla. La somma dell’energia positiva dovuta alle masse di tutte le galassie uguaglia all’incirca l’energia gravitazionale negativa che si ha dalla mutua attrazione dei corpi. L’energia totale dell’Universo è nulla. Rimane, in verità, il problema della misteriosa energia del vuoto. Inoltre nella teoria del Big Bang la somma di tutte le grandezze delle particelle che caratterizzavano l’universo al suo sorgere dà il nulla come risultato.
Anche la questione del tempo prima dell’inizio dell’Universo viene privata di significato dalle moderne teorie. Nei primissimi istanti di vita del cosmo la forza di gravità è stata talmente forte da creare una distorsione del tempo tale da farlo comportare come una quarta dimensione spaziale. Questo è quanto richiede l’unificazione della relatività con la meccanica quantistica. La storia dell’Universo si svolgerebbe quindi in una superficie chiusa a quattro dimensioni, senza contorni. Come su una superficie di una sfera anche il tempo non avrebbe confini. Il concetto usuale di spazio e di tempo viene allora a perdere la sua applicabilità.
Le mie scarse competenze filosofiche mi lasciano qualche perplessità su una simile visione dell’Universo. Mi sembra che si passi dalla proposta cartesiana di identificare l’atto della creazione con le “condizioni iniziali” dell’evoluzione di un universo che manterrebbe immutate nel corso del tempo, dall’inizio a oggi, le sue strutture fondamentali spazio temporali, il demiurgo che pone ordine nel caos, che detta le sue leggi, alla legge come causa e spiegazione dell’Universo.Perché quella legge? Anche la visione dei multi-universi, ognuno guidato dalle sue leggi, non mi sembra una risposta sufficiente. Non mi sembra essere il nulla metafisico di cui parlano la teologia e la metafisica delle tre grandi religioni bibliche, la completa assenza di tutto, “materia” e “forma”.
Come si pone lo scienziato, anche credente, di fronte alla creazione? Il fisico, in quanto fisico, non incontrerà mai nel suo cammino l’atto della creazione, ma per Einstein vi è una sorta di religiosa riverenza che rende impossibile allo scienziato immaginare di essere lui il primo ad aver meditato sui fili estremamente delicati che connettono le sue percezioni.
Quale ruolo dare all’uomo? Forse non è tanto dall’accettazione del metodo scientifico come sola base della conoscenza, in assenza di altri metodi razionali, che viene l’agnosticismo di molti scienziati, in genere non portati alla filosofia. È proprio la centralità dell’uomo che viene rifiutata. D’altra parte bisogna essere uomini di fede o grandi teologi o filosofi per tentare di comprendere come il Dio dell’universo possa aver posato i suoi occhi su di un oscuro pianeta che gira intorno a una piccola stella che si trova in una posizione marginale di una insignificante galassia. La scienza afferma che l’umanità è sola, nel senso spirituale del termine, in un universo immenso e impersonale. Trovare un significato all’esistenza dell’uomo non è facile per la scienza. L’uomo è destinato a morire e l’arco della sua vita si svolge per un tempo infinitesimo rispetto alla vita dell’Universo. Che ruolo spetta all’uomo in questo Universo? Quale sarà stata la sua funzione quando sarà sparito per sempre, mentre anche l’intero Universo andrà inesorabilmente verso il freddo più assoluto? E anche se l’uomo riuscisse nel tempo finito della sua esistenza a comprendere l’intero Universo, conoscerne le leggi, e in parte dominarlo, che senso avrebbe tutto questo se poi è destinato a sparire?
Ma può allora la scienza diventare anche un’esperienza religiosa? Nel desiderio della mente di conoscere vi è una spinta a superare ogni limitazione verso l’Assoluto. E le questioni religiose nascono agli orizzonti della conoscenza o nelle situazioni limiti dell’esperienza umana. Nella vita di ogni giorno, questi limiti sono incontrati nelle esperienze di ansietà e di confronto con il dolore e con la morte, come anche nella gioia e nel sentimento di completa fiducia. Nella vita dello scienziato quando egli si imbatte nelle grandi connessioni di una teoria da lui formulata, definitivamente fissate in un sistema assiomatico e provata dall’osservazione, il suo occhio interiore vede improvvisamente una connessione che è sempre stata là, anche senza di noi, e che non è stata creata dall’uomo.
Vorrei concludere con una bella considerazione di Einstein che mette in luce, forse più di molte considerazioni filosofiche e teologiche, l’intima aspirazione dell’uomo di credere in qualcosa oltre la sua esistenza: “L’esperienza più bella che ci è dato di avere è il mistero della vita; il sentimento profondo che troviamo alla radice della vera arte e della vera scienza. Ignorarlo, perdere il senso dello stupore e della meraviglia significa quasi morire, cessare di vedere. Sapere cheesiste qualcosa che ci è impenetrabile, conoscere le manifestazioni dell’intelligenza più profonda e della bellezza più sublime, accessibili alla nostra ragione nelle loro forme più primitive, questo forma il contenuto della religiosità”.