L’Osservatore Romano, 17 ottobre 2009, di Angelo Comastri
Nell’Angelus del 21 dicembre scorso, Sua Santità volle fare esplicito riferimento alla ricorrenza galileiana e all’Anno Internazionale dell’Astronomia. Ricordò che, tra i successori di san Pietro, ve ne sono stati alcuni appassionati e anche esperti della scienza degli astri, menzionando Silvestro ii, Gregorio XIII e san Pio X. Fece poi riferimento al salmo 19 (o 18), che è un inno alla legge del Signore, ma si apre con una meravigliosa immagine cosmica (2-3).
Il Papa osservò che “anche le leggi della natura, che nel corso dei secoli tanti uomini e donne di scienza ci hanno fatto capire sempre meglio, sono un grande aiuto per contemplare le opere del Signore”. E aggiunse un particolare che molti pellegrini e turisti – ma anche non pochi romani – non conoscono: il fatto, cioè, che nella parte destra di Piazza San Pietro è collocata una grande meridiana.
È evidente come l’armonia tra la fede e la scienza costituisca uno degli aspetti caratterizzanti del magistero di Benedetto XVI, in continuità con l’enciclica Fides et ratio del servo di Dio Giovanni Paolo II. Tale impostazione, che ha alle spalle due millenni di filosofia e di teologia, ma anche di teoria e pratica della scienza – come dimostrano anche proprio la vita e le opere dello stesso Galileo – questa impostazione – dicevo – è quella che sta alla base di “Astrum 2009”. Come ho già avuto modo di osservare, siamo particolarmente soddisfatti di ospitare questa mostra in Vaticano. Sicuramente per il suo valore storico e scientifico, per la ricchezza e l’originalità del patrimonio che essa presenta ai visitatori; ma, al tempo stesso, perché essa rappresenta, più di qualunque discorso, una prova inconfutabile della ritrovata serenità su una questione, quella di Galileo, che ha a lungo segnato i rapporti tra la Chiesa e il mondo scientifico. Non solo. L’astronomia, tra tutte le scienze, è forse quella che possiede la più forte carica simbolica per alludere all’orizzonte dell’infinito, del mistero, a quello spazio, cioè, in cui l’uomo, con la sua fragilità e la sua grandezza, è immerso; in cui, come disse san Paolo all’Areopago di Atene, noi tutti “viviamo, ci muoviamo ed esistiamo” (Atti, 17, 28).
Il cielo, le stelle, gli astri, occupano nella Bibbia un posto rilevante. E, a partire dal “grande codice” biblico, questa simbologia ha trovato innumerevoli espressioni nelle arti e nelle lettere. Abbiamo già ricordato un salmo, ma molti sono i testi che, dalla Genesi all’Apocalisse, si potrebbero citare. Io mi limiterò a un solo passo di Dante: quattro versi, che, per la loro collocazione e per il loro significato, esprimono tutto ciò che intendo dire. Si tratta degli ultimi versi del Paradiso, e dunque dell’intera Divina Commedia.
Eccoli: “All’alta fantasia qui mancò possa;/ ma già volgeva il mio disiro e il velle, /sì come rota ch’egualmente è mossa,/ l’amor che move il sole e l’altre stelle” (Paradiso, 142-145).
Abbiamo qui l’esperienza dell’uomo che, arrivato al termine di un lungo cammino spirituale, si trova pienamente inserito in Dio stesso, nel moto del suo essere che è amore. Questo moto è lo stesso che governa il firmamento. Ora, questo testo appartiene ad un certo contesto culturale, ma credo di poter dire che la visione di Dio e dell’uomo che esso contiene – cioè la visione biblica – attinge all’universale e conserva tutto il suo valore anche nei nostri tempi. Anzi, possiamo dire senza dubbio che l’antropologia e la cosmologia cristiane, che raggiunsero un vertice straordinario ai tempi di Dante, rappresentano per la nostra epoca un messaggio quanto mai attuale. Oggi, infatti, la scienza rischia di essere ridotta a strumento della tecnica. Ecco perché il simbolo del Cielo e delle stelle è il più adatto a richiamare l’orizzonte ampio, infinito della razionalità umana, che certamente ha bisogno di strumenti, come il telescopio, per indagare e misurare, ma soprattutto ha bisogno di mantenersi aperta, di non appiattirsi, di non chiudersi. In questo non c’è differenza tra gli spazi immensi che ci circondano e quelli microscopici delle particelle elementari. È la stessa ragione umana che li attraversa. E il cielo – simbolo per eccellenza di Dio – non è solo sopra di noi, è anche dentro, dentro l’uomo e nel tessuto di ogni creatura. Il cielo è anche lo spazio tra gli atomi, e l'”amor che move il sole e l’altre stelle” muove anche l’infinitamente piccolo. L’importante, direi in conclusione, è che l’uomo non perda la capacità di guardare il cielo, di sentirsi parte di un movimento che lo supera e al tempo stesso lo attraversa, ma che lo fa, con il Creatore, protagonista.
Il Papa osservò che “anche le leggi della natura, che nel corso dei secoli tanti uomini e donne di scienza ci hanno fatto capire sempre meglio, sono un grande aiuto per contemplare le opere del Signore”. E aggiunse un particolare che molti pellegrini e turisti – ma anche non pochi romani – non conoscono: il fatto, cioè, che nella parte destra di Piazza San Pietro è collocata una grande meridiana.
È evidente come l’armonia tra la fede e la scienza costituisca uno degli aspetti caratterizzanti del magistero di Benedetto XVI, in continuità con l’enciclica Fides et ratio del servo di Dio Giovanni Paolo II. Tale impostazione, che ha alle spalle due millenni di filosofia e di teologia, ma anche di teoria e pratica della scienza – come dimostrano anche proprio la vita e le opere dello stesso Galileo – questa impostazione – dicevo – è quella che sta alla base di “Astrum 2009”. Come ho già avuto modo di osservare, siamo particolarmente soddisfatti di ospitare questa mostra in Vaticano. Sicuramente per il suo valore storico e scientifico, per la ricchezza e l’originalità del patrimonio che essa presenta ai visitatori; ma, al tempo stesso, perché essa rappresenta, più di qualunque discorso, una prova inconfutabile della ritrovata serenità su una questione, quella di Galileo, che ha a lungo segnato i rapporti tra la Chiesa e il mondo scientifico. Non solo. L’astronomia, tra tutte le scienze, è forse quella che possiede la più forte carica simbolica per alludere all’orizzonte dell’infinito, del mistero, a quello spazio, cioè, in cui l’uomo, con la sua fragilità e la sua grandezza, è immerso; in cui, come disse san Paolo all’Areopago di Atene, noi tutti “viviamo, ci muoviamo ed esistiamo” (Atti, 17, 28).
Il cielo, le stelle, gli astri, occupano nella Bibbia un posto rilevante. E, a partire dal “grande codice” biblico, questa simbologia ha trovato innumerevoli espressioni nelle arti e nelle lettere. Abbiamo già ricordato un salmo, ma molti sono i testi che, dalla Genesi all’Apocalisse, si potrebbero citare. Io mi limiterò a un solo passo di Dante: quattro versi, che, per la loro collocazione e per il loro significato, esprimono tutto ciò che intendo dire. Si tratta degli ultimi versi del Paradiso, e dunque dell’intera Divina Commedia.
Eccoli: “All’alta fantasia qui mancò possa;/ ma già volgeva il mio disiro e il velle, /sì come rota ch’egualmente è mossa,/ l’amor che move il sole e l’altre stelle” (Paradiso, 142-145).
Abbiamo qui l’esperienza dell’uomo che, arrivato al termine di un lungo cammino spirituale, si trova pienamente inserito in Dio stesso, nel moto del suo essere che è amore. Questo moto è lo stesso che governa il firmamento. Ora, questo testo appartiene ad un certo contesto culturale, ma credo di poter dire che la visione di Dio e dell’uomo che esso contiene – cioè la visione biblica – attinge all’universale e conserva tutto il suo valore anche nei nostri tempi. Anzi, possiamo dire senza dubbio che l’antropologia e la cosmologia cristiane, che raggiunsero un vertice straordinario ai tempi di Dante, rappresentano per la nostra epoca un messaggio quanto mai attuale. Oggi, infatti, la scienza rischia di essere ridotta a strumento della tecnica. Ecco perché il simbolo del Cielo e delle stelle è il più adatto a richiamare l’orizzonte ampio, infinito della razionalità umana, che certamente ha bisogno di strumenti, come il telescopio, per indagare e misurare, ma soprattutto ha bisogno di mantenersi aperta, di non appiattirsi, di non chiudersi. In questo non c’è differenza tra gli spazi immensi che ci circondano e quelli microscopici delle particelle elementari. È la stessa ragione umana che li attraversa. E il cielo – simbolo per eccellenza di Dio – non è solo sopra di noi, è anche dentro, dentro l’uomo e nel tessuto di ogni creatura. Il cielo è anche lo spazio tra gli atomi, e l'”amor che move il sole e l’altre stelle” muove anche l’infinitamente piccolo. L’importante, direi in conclusione, è che l’uomo non perda la capacità di guardare il cielo, di sentirsi parte di un movimento che lo supera e al tempo stesso lo attraversa, ma che lo fa, con il Creatore, protagonista.