La scintilla nascosta che muove lo scienziato nella sua ricerca

Benedetta CappelliniRassegna Stampa

Samir Suweis, Il Sussidiario, 2 settembre 2014
Quali sono le “grandi domande” nei diversi campi della scienza oggi? Che cosa giace al cuore dell’interesse per queste domande? Quale è il loro impatto culturale? E soprattutto, che cosa muove lo scienziato nella sua ricerca? Domande fondamentali e che dovrebbero essere pane quotidiano per chi come me fa della scienza il suo mestiere. Eppure, presi dall’ansia di “fare” e “pubblicare”, spesso si rischia per darle per scontate al punto che ci si dimentica di quella scintilla per cui ad un certo punto si è deciso di rischiare tutto nell’avventura della ricerca scientifica.

Tutte queste domande sono invece state al centro del Simposio Internazionale “The roots for motivation in science and knowledge”, organizzato a San Marino la scorsa settimana da Euresis in collaborazione con il Meeting di Rimini, la fondazione Ceur, l’Università degli Studi di San Marino e la Repubblica di San Marino. Qui illustri scienziati di diverse discipline – dalla fisica all’antropologia passando per la matematica e le neuroscienze – si sono confrontati a partire dalla loro particolare esperienza scientifica, ma aprendosi ad un dialogo inter-disciplinare reale che raramente si può trovare in congressi scientifici puramente tecnici in quanto necessariamente mancano di una prospettiva globale.

L’ormai abituale simposio sanmarinese (questa era l’ottava edizione) nasce invece dall’intuizione che contenuto e metodo della conoscenza scientifica hanno profondamente a che fare con il soggetto umano che ne è protagonista, e si propone quindi come il tentativo di prender atto dell’emergere di un’unità che scaturisce dal fondo di ogni singola disciplina che cerca di fare un passo in più nella conoscenza della realtà. Non è questo il luogo per una sintesi completa dei contenuti del Simposio, per la quale si rimanda al prossimo numero di Euresis Journal, ma vorrei provare a riassumere alcuni dei passaggi fondamentali che sono stati tracciati in questi giorni e che hanno anche identificato nuove questioni rilanciando e aprendo altre domande.

“L’opportunità di comprendere l’Universo è la ragione per cui è meglio essere nato che non esistere affatto”. Questa citazione di Anassagora – ripresa da Marco Bersanelli, presidente del comitato scientifico di Euresis, nella discussione finale del Simposio – riassume bene quella scintilla, evocata dalle diverse relazioni, che spinge ad esplorare e comprendere sempre nuove frontiere della conoscenza. Sicuramente il contenuto delle “grandi domande” nella scienza oggi come allora hanno a che fare con l’origine, l’evoluzione e il destino dell’Universo, della Terra, della vita e dell’uomo. Domande millenarie quali “cosa è la vita?”, “Siamo soli nell’Universo?”, “L’Universo e comprensibile attraverso alcuni principi fondamentali?” rimangono, di fatto, le questioni che spingono ricercatori di diverse discipline nella loro avventura scientifica ancora oggi.

Come emerso dalle relazioni di due illustri astrofisici quali Dan Moez (Tel-Aviv University) e Christopher Impey (University of Arizona), negli ultimi anni, grazie all’esplosione di scoperte rese possibili dalla missione “Kepler”, siamo improvvisamente stati messi di fronte all’esistenza di migliaia di pianeti extra-solari (esopianeti) e sistemi planetari con diverse proprietà, alcuni delle quali potrebbero essere potenzialmente simili a quelle della Terra e del nostro sistema solare. Le analisi per comprendere quali di questi abbiano, teoricamente, le dimensioni e la temperatura adatte per ospitare la vita sono appena iniziate, ma sicuramente stiamo attraversando una nuova “estensione Copernicana”: non solo non siamo al centro del nostro sistema solare, ma il nostro sistema planetario potrebbe avere proprietà abbastanza comuni con altri sistemi nell’universo.

Eppure è altrettanto chiaro che queste scoperte non spengono, anzi alimentano quelle domande che ci spingono a cercare di capire che cosa fa di questo pianeta la nostra casa, perché proprio la terra è riuscita ad ospitare la vita e cosa sia il mistero “dell’esser nostro”. Mistero dell’io che è stato affrontato da un’altra angolazione nella relazione di Yvens Coppens, antropologo e paleontologo di fama mondiale, che ha sottolineato l’importanza del tempo per l’emergere della vita sulla terra. Ripercorrendo brevemente la storia del nostro pianeta, dalla sua formazione fino alla comparsa dell’uomo, Coppens ha rilevato come nella storia dell’universo c’e’ stata e c’è una continua produzione di materia e oggetti, ma la trasformazione di materia vivente organica da materia non vivente è una “importante discontinuità dentro la stessa continuità”.

Un altro passaggio cruciale e misterioso è poi quello dell’emergenza dell’autocoscienza nell’uomo. Se da una parte con l’archeologia e la paleontologia possiamo individuare nell’antichità quei fenomeni culturali che sono il segno dell’esistenza di un io cosciente, dall’altra parte una comprensione scientifica di cosa sia l’autocoscienza oggi è ancora un’utopia. Come ha ricordato il Professor Mauro Ceroni (Università di Pavia), è fondamentale per la scienza essere cosciente dei propri limiti e prendere sul serio l’evidenza della nostra esperienza. “Le neuroscienze tendono spesso a pensare che la coscienza è un mero epifenomeno fisicamente determinato dall’attività neuronale, tralasciando così l’unita dell’io”. Invece “Noi pensiamo che se anche tutte le possibili domande scientifiche ricevessero una risposta, i problemi sul mistero nostra vita non verrebbero risolti” (Ludwig Wittgenstein, Tractatus Logico-Philosophicus).

Su questo punto si è aperta un’interessante discussione. Il professor Jose Latorre, fisico dell’Università di Barcellona e Singapore, rilevava come oggi per le neuroscienze è prematuro affrontare domande quali la natura dell’autocoscienza, ma aggiungeva che la complessità di certe domande non deve spaventare perché solo così in un futuro prossimo si potranno fare dei veri passi in avanti. Tutti concordavano comunque che il cammino di ricerca è inesauribile, anche se sempre di più l’uomo ha la potenzialità di manipolare la sua stessa natura umana; e in questo senso gli scienziati ma tutta la società sono chiamati ad una maggiore responsabilità e capacità di discernimento.

Un altro tema che è emerso come motore della scienza e della conoscenza è sicuramente la nostra tensione alla bellezza, all’ordine e alla simmetria che ci spingono della ricerca di leggi fondamentali e matematiche per comprendere la realtà e la complessità che ci circonda.

Il professor Amos Maritan (Università di Padova) ha illustrato come la fisica oggi abbia cominciato a cercare principi e processi fondamentali che guidano il comportamento emergente di sistemi biologici complessi. Un avventura che è al suo inizio, ma proprio per questo ha anche un suo grande fascino: “Il nostro ruolo in biologia è simile a quello di Tolomeo in astronomia prima della scoperta dei principi della dinamica. Cerchiamo di usare dei modelli relativamente semplici ed eleganti per comprendere dati che descrivono il comportamento macroscopico di sistemi biologici. Questo approccio è ragionevole in quanto il comportamento collettivo di sistemi viventi non dipende dalle forze che agiscono a livello “microscopico”, cosi come per sapere come funziona una molecola non dobbiamo conoscere la fisica dei quark”.

Latorre ha poi discusso la relazione tra leggi della fisica, determinismo e casualità mostrando come ancora molti punti cruciali, quale il ruolo degli “osservatori” nella Meccanica Quantistica, rimangano aperti e come invece collegamenti a volte fatti tra libertà umana e meccanica quantistica rimangono speculazioni filosofiche senza fondamento scientifico. Della relazione tra matematica e libertà si è occupato invece Laurent Lafforge, professore di matematica all’Università di Parigi e vincitore della Medaglia Fields nel 2002. “Esiste la libertà in matematica?”: nella sua relazione di estrema ricchezza e profondità, Lafforgue ha mostrato come la libertà in matematica si giochi nella volontà di accogliere e attraversare il grande sacrificio che la ricerca richiede, nell’obbedienza ai fatti (i numeri) e nell’accettare di mettersi in relazione (“il matematico ha bisogno di una tradizione e di una comunità con cui confrontarsi”).

Vorrei concludere con un pensiero di Platone sull’attività del vero “cercatore di verità”, segnalato dal Professor Piero Benvenuti a fine Simposio e che bene descrive le due giornate sanmarinesi. Nella sua Lettera VII (344 a.C.) Platone dice: “Dopo un’applicazione totale e dopo molto tempo, mettendo in contatto, non senza fatica, queste realtà – ossia nomi, definizioni, osservazioni e altri dati sensibili – e confrontando a fondo le une con le altre, e venendo messe a prova in confronti sereni e saggiate in discussioni fatte senza invidia e secondi fini da uomini che procedono per domande e risposte, alla fine con una improvvisa scintilla brilla la comprensione di qualunque problema e l’intuizione dell’intelletto, per chi compia il massimo sforzo possibile alla capacità umana”. Quella scintilla nascosta che ha il potere di muovere la Scienza.