Piero Benvenuti, L’Osservatore Romano, 10 febbraio 2013
Tommaso d’Aquino, nella Summa contra gentiles, dimostra, con la chiarezza che sempre lo contraddistingue, come le verità di fede non possano mai essere in contrasto con la ragione. Ben sapendo che a volte nascono dei conflitti tra ciò che apprendiamo razionalmente riguardo la natura e le verità di fede, o forse prevedendone di ancor più gravi nel futuro, egli insiste in modo particolare sulla possibilità di risolverli sempre, in quanto ogni eventuale contrasto è per necessità solo apparente. Purtroppo, tale chiaro e convincente ragionamento sulla necessaria concordanza tra le conoscenze scientifiche e le verità di fede, o meglio, il supporto teologico alle stesse, venne per molto tempo dimenticato, generando a volte vere e proprie battaglie, e soprattutto diffondendo l’opinione comune che la scienza e la fede fossero in ultima analisi incompatibili.
Non solo gli insegnamenti di Tommaso vennero dimenticati, ma anche quelli di uno dei fondatori del metodo scientifico moderno, Galileo Galilei. Ragionando sul nuovo approccio alla conoscenza della natura che egli stesso stava inaugurando, scriveva con altrettanta chiarezza all’amico Marco Welser: «Perché, o noi vogliamo specolando tentar di penetrar l’essenza vera ed intrinseca delle sustanze naturali; o noi vogliamo contentarci di venir in notizia d’alcune loro affezioni. Il tentar l’essenza, l’ho per impresa non meno impossibile, e per fatica non men vana, nelle prossime sustanze elementari che nelle remotissime e celesti. Ma se vorremo fermarci nell’apprensione di alcune affezioni, non mi par che sia da desperar di poter conseguirle anco nei corpi lontanissimi da noi, non meno che ne i prossimi».
Galileo indica chiaramente i limiti del metodo scientifico moderno che, tralasciando l’«essenza» delle cose naturali, si occupa unicamente delle relazioni («affezioni») tra fenomeni misurabili, che verranno poi rappresentate in forma matematica. Con spirito profetico egli prevede che tale metodo servirà non solo per conoscere ciò che avviene vicino a noi (oggi diremmo nel nostro “lab oratorio”), ma anche per estendere la nostra conoscenza fino agli estremi limiti dell’universo. La divisione “sostanziale” tra mondo sub-lunare e quintessenza, propria della fisica aristotelica, era definitivamente infranta.
Gli entusiasmanti successi della fisica newtoniana e della meccanica celeste che seguiranno di lì a breve, tanto inorgogliranno gli scienziati da far loro ben presto dimenticare che le «affezioni» e le loro precise trascritture in formule non sono mai l’«essenza» delle cose. Pertanto il metodo scientifico, potentissimo e insostituibile nel suo ambito, non potrà mai offrire una conoscenza completa e definitiva di tutta la realtà.
È sintomatico che il giovane Max Planck venisse scoraggiato a interessarsi di fisica teorica perché, come suggeriva uno dei suoi professori, ormai tutto era chiaro, le possibili novità si sarebbero limitate a qualche insignificante dettaglio. Di lì a qualche anno, Planck, introducendo il nuovo concetto di «quanto» di energia, avrebbe dato inizio alla rivoluzione della fisica quantistica, svelando aspetti del tutto inattesi della realtà fenomenica. In particolare il principio di indeterminazione di Heisenberg avrebbe infranto la certezza illuministica di poter misurare in modo indipendente ogni grandezza fisica con un errore piccolo a piacere, legato solo alla capacità tecnica dello sperimentatore. Gli esperimenti, le «sensate esperienze» di Galilei, quando riguardano situazioni spazio-temporali o energetiche estreme si dimostrano dei cavalli indomabili, insofferenti, per così dire, della presenza dello sperimentatore e la certezza di poter indagare senza limiti la natura deve umilmente arrestarsi. C’è del sacro in questo necessario riconoscimento del limite e lo stesso Planck scriveva: «Scienza e religione non sono in contrasto, ma hanno bisogno una dell’altra per completarsi nella mente di un uomo che riflette seriamente».
Fino a un secolo fa nessuno, nemmeno un genio della fisica come Albert Einstein, immaginava che l’universo fosse caratterizzato da una continua evoluzione che si manifesta come una espansione dello spaziotempo unitamente alla materia-energia. Oggi, grazie soprattutto ai dati osservativi provenienti dagli strumenti spaziali che operano al di fuori dell’atmosfera terrestre, è stato possibile ricostruire in dettaglio la storia evolutiva dell’universo. Infatti, avendo la luce velocità finita, le immagini che provengono dal cosmo si riferiscono sempre a epoche passate, posticipate del tempo impiegato dalla luce, a 300.000 chilometri al secondo, a raggiungere l’osservatore . Inoltre, l’espansione dello spaziotempo modifica la lunghezza d’onda — volgarmente il “colore ” — della luce e quindi è possibile datare le immagini ricevute, collocandole correttamente nella sequenza fotografica della storia del cosmo. L’espansione — dal passato al futuro — “raffredda” la materia-energia cosmica e quindi, ripercorrendo a ritroso la storia evolutiva — dal presente al passato — incontriamo un universo mediamente sempre più “caldo”, tanto da divenire — o meglio essere stato — un fluido uniforme di gas “incandescente” (più tecnicamente “ionizzato”), ciò che i fisici chiamano “plasma”. Il plasma ha la caratteristica di essere opaco alla radiazione elettromagnetica, alla luce, quindi quando raggiungiamo a ritroso nel tempo quella fase, l’universo diventa opaco, impenetrabile alla vista. Il “sipario cosmico” è collocato, sulla base dei dati sempre più dettagliati ottenuti dai satelliti astronomici, a 13,725 miliardi di anni fa. Per oltrepassare all’indietro lo “schermo”, chiamato Cosmic Microwave Background (Fondo cosmico di microonde), i cosmologi devono affidarsi a modelli matematici basati sulla fisica oggi nota. Le condizioni in cui si trovava la materia-energia in quelle epoche remote sono estreme, impossibili da riprodurre in un laboratorio terrestre oltre un certo limite: gli esperimenti condotti al Cern di Ginevra con il Large Hadron Collider, riescono a simulare le condizioni dell’universo com’era circa 10-15 secondi dopo l’“istante iniziale”, ma sarà molto difficile risalire ulteriormente. L’“istante iniziale” rimarrà quindi sempre precluso all’indagine sperimentale e potrà essere trattato solo ipoteticamente, estrapolando al limite le conoscenze scientifiche conseguite. Quell’intervallo infinitesimo dopo l’inizio potrebbe sembrare un’inezia, ma non dobbiamo dimenticare che il “secondo” è un’unità di misura locale, tipicamente terrestre e umana e inoltre lo scorrere lineare del tempo, cui siamo abituati dalla nostra vita quotidiana, non corrisponde alla scansione degli eventi cosmici che, nelle fasi iniziali, si susseguono con ritmi incredibilmente rapidi. Nonostante le difficoltà nell’avvicinarsi all’ipotetico “inizio”, la domanda se vi sia realmente un “istante zero”, un inizio del tempo e, nel caso, se abbia senso scientifico, oltre che filosofico, porre il problema di cosa vi fosse “prima”, si presenta oggi ancor più imperiosa che nel passato.
È logico quindi che, una volta scoperta l’evoluzione del cosmo, l’“istante zero” da cui essa sembra avere inizio, abbia da subito richiamato il concetto ebraico-cristiano di creazione dell’universo come atto divino, identificando il biblico Fiat lux con il Big Bang e i sei giorni di Genesi 1, come la susseguente evoluzione. Questo affrettato quanto ingenuo concordismo conduce però a un’idea di Creatore che la teologia ha da tempo superato, quella del “Dio orologiaio”, che mette in moto il meccanismo dell’universo in un tempo remoto e si disinteressa poi del mondo e dell’uomo, per riapparire sulla scena solo alla fine dei tempi per il giudizio universale. Dal punto di vista filosofico-teologico, uno dei problemi di questa visione risiede nel concepire l’atto creativo come un “evento” che avviene nel tempo, presupponendo l’esistenza di quest’ultimo. Già sant’Agostino aveva affrontato il problema, ulteriormente chiarito successivamente da san Tommaso d’Aquino che scrive: «Si dice che le cose furono create all’inizio del tempo non perché l’inizio del tempo sia la misura dell’atto creativo medesimo, ma perché il cielo e la terra sono stati creati insieme con il tempo».
Oggi, tale affermazione è rafforzata anche dalla fisica posteinsteiniana che, abbandonando il concetto newtoniano di spazio e tempo assoluti, non li può concepire se non indissolubilmente legati alla materia-energia dell’universo.
Di fronte all’evidenza scientifica dell’evoluzione del cosmo, il concetto di creazione maggiormente compatibile è quello della creatio continua, a-temporale, che abbraccia anche il tempo e il suo scorrere. San Tommaso si rende ben conto quanto per l’uomo sia difficile immaginare alcunché fuori dal tempo, ma non ha tentennamenti filosofici nell’esprimere il concetto che la creazione non può essere un mutamento in senso proprio, ma solo in senso metaforico: «in ogni mutamento da un soggetto a un altro, c’è bisogno che entrambi abbiano qualcosa in comune, perché se non ce l’hanno, ciò che avviene non può essere definito come cambiamento. (…) A volte può sembrare che non vi sia nulla in comune tra ciò che è prima e ciò che è dopo il mutamento, ma c’è comunque un solo tempo che scorre continuo e nel quale troviamo “prima” ciò che “dopo” diventa qualcos’altro , (…) come quando diciamo che dopo il mattino viene il mezzogiorno. (…) Ora, nella creazione, non si verifica nessuna delle situazioni sopra descritte: infatti non c’è nulla in comune [tra non-essere ed essere] e non c’è continuità di tempo perché il tempo non esisteva quando il mondo non c’era. Eppure possiamo trovare qualcosa in comune, ma puramente immaginario, se ci figuriamo una sorta di successione tra quando il mondo non esisteva e quando è stato tratto all’esistenza.
Analogamente, anche se al di fuori dell’universo non esiste lo spazio, noi possiamo nondimeno immaginarne uno: così, anche se prima dell’inizio del mondo non esiste il tempo, noi possiamo immaginarlo. Concludendo, la creazione non può rientrare a rigore nella categoria della mutazione e l’uomo la può immaginare come tale solo come metafora, ma non in realtà».
Quindi, se fino a un secolo fa interpretazioni alternative di Genesi 1 erano ugualmente possibili, oggi la scienza ci aiuta a scegliere quelle compatibili con quanto essa va scoprendo della realtà fenomenologica. L’obiettivo dell’esegesi, che vuole estrarre dalla parola scritta il senso dell’ispirazione che l’ha originata nostrae salutis causa è così più vicino all’uomo di oggi anche grazie alla scienza.