Marco Bersanelli, Avvenire, 23 agosto 2012 Quando Matteo Ricci arrivò in Cina, non solo la lingua, la scrittura e le abitudini umane, ma anche la vegetazione, il territorio, l’odore dell aria, tutto doveva apparirgli molto diverso, quasi estraneo rispetto al mondo da cui proveniva; ma il cielo che trovò a Pechino era esattamente lo stesso che aveva lasciato a Macerata. La vastità del cielo è accompagnata dalla sua immutabilità nel tempo: le stelle e le costellazioni restano identiche a se stesse per migliaia di generazioni. La regolarità e l’immensità del cielo, la sublime e misteriosa lucentezza dei corpi celesti, da sempre hanno una forte presa estetica sullo spirito umano. Le diverse culture antiche hanno saputo esprimere la meraviglia, la vertigine, il fascino profondo per l’universo. Un fascino misto al timore, all’angoscia, alla speranza per il futuro, alla trepidazione per la vita. L’ambiente cosmico fu percepito dalla maggior parte delle antiche civiltà come una realtà misteriosamente e profondamente coinvolta con la concretezza della vita umana: nascita, morte, fertilità, nutrimento, destino. In questo quadro si inserisce pienamente anche la tradizione giudaico-cristiana, nella quale ritroviamo tutti gli elementi ora accennati.
Il periodo storico decisivo per l’incubazione della razionalità scientifica nell’Europa occidentale fu senza dubbio quello medievale, secondo quanto un crescente numero di studiosi riconosce e sostiene. In quella cultura il cosmo era percepito come la creazione di un Dio razionale, che liberamente crea l’universo e lo ordina verso uno scopo che coinvolge l’essere umano come protagonista della storia. Il mondo fisico non è autosufficiente e non può essere conosciuto se non osservando i fenomeni che in esso accadono. Ogni particolare aspetto della natura porta in sé, in modo più o meno decisivo, il segno del suo Creatore. L’ordine cosmico è accessibile alla conoscenza umana ed è traccia della paternità di Dio sul creato. Che ogni aspetto naturale abbia in sé un nesso che lo lega alla realtà cosmica è un’idea forte, tutt’altro che scontata, unica nel panorama culturale di allora, un’idea che fu essenziale per lo sbocciare della scienza moderna all’inizio del XVII secolo. La fede in un cosmo mosso da leggi intelligibili è ancor oggi un presupposto tacitamente assunto in ogni ricerca scientifica: quando scrutiamo gli orizzonti dell’universo lontano o indaghiamo il comportamento delle particelle sub-nucleari, con Dante ancora crediamo che «le cose tutte quante [abbiano] ordine tra loro», e crediamo che la nostra ragione sia abilitata ad accedere, in qualche misura, al segreto di quell’armonia nascosta. Un passo decisivo dal punto di vista metodologico fu introdotto all’inizio del XVII secolo, quando Galileo Galilei si rese conto che l’ordine della natura ha una forma ben precisa: «Dio ha scritto il libro della natura nella forma del linguaggio matematico». Egli inoltre perfezionò il cannocchiale, appena inventato in Olanda da Hans Lippershey, e lo utilizzò per osservare il cielo. Per la prima volta nella storia dell’umanità la luce degli astri era raccolta da un mezzo più potente dell’occhio umano.
La messe di nuove scoperte fu immediata e rivoluzionaria: i dettagli della superficie lunare indicavano che la natura fisica dei corpi celesti è analoga a quella terrestre; la scoperta dei satelliti di Giove e delle fasi di Venere davano forti indizi a favore del sistema eliocentrico proposto da Copernico; l’evidenza che la luce diffusa della Via Lattea è prodotta da una moltitudine di stelle non risolte indicava che l’universo è più vasto di quello che si pensava. Galileo pubblicò le sue scoperte nel Sidereus Nuncius nel 1610, proprio l’anno della morte di padre Matteo Ricci. I due non si conobbero, ma i loro percorsi si sfiorarono. Ricci fu introdotto all’astronomia e alla matematica da Cristoforo Clavio, gesuita del Collegio Romano autore dei Commentarii agli Elementi di Euclide, al quale nel 1611 Galileo avrebbe fatto visita per una discussione decisiva sulle sue osservazioni con il telescopio. Secondo Clavio, che apprezzò e sostenne le scoperte di Galileo, «le discipline matematiche elevano l’animo e aguzzano la mente alla contemplazione delle cose divine». Ricci e i suoi Gesuiti ebbero un contatto assai diretto con la nascente «nuova scienza». Mossi da uno straordinario ardore missionario, Ricci e i suoi compagni percepirono la ricchezza e la potenzialità dell’astronomia e delle scienze in vista dell’incontro con i popoli d’Oriente e, sorprendentemente, in pochi anni le scoperte di Galileo raggiunsero la lontanissima Cina. Nel 1618 due gesuiti (uno dei quali, padre Schreck, era stato allievo di Galileo) partirono da Lisbona e nel 1623 arrivarono a Pechino portandovi il primo cannocchiale. Nel suo trattato Yuémjing Shuo, scritto nel 1626, il gesuita Johann Adam Schall von Bell diede una descrizione accurata di tutte le principali osservazioni astronomiche galileiane ripetute con successo nel nuovo Osservatorio di Pechino.
Dai tempi di Galileo Galilei e Matteo Ricci ai nostri giorni, il progresso dell’astronomia ha permesso di indagare l’universo con crescente profondità, dalla scala stellare a quella extragalattica. Qual è dunque l’immagine di universo che la cosmologia contemporanea ci rivela? Oggi sappiamo che le innumerevoli stelle che Galileo aveva scoperto essere la fonte luminosa della Via Lattea si dispongono in una struttura ben precisa, un disco appiattito a forma di spirale, che contiene circa 200 miliardi di stelle: la nostra galassia. Il Sole è una stella di questa enorme famiglia, posta in una zona periferica, né troppo vicina né troppo lontana dal centro. La scia luminosa della Via Lattea che vediamo in cielo è un tratto di un braccio della grande spirale. Le dimensioni della nostra galassia sono enormi: circa 100 mila anni luce. Significa che un raggio di luce, che ogni secondo percorre 300 mila chilometri (circa la distanza tra la Luna e la Terra) impiegherebbe mille secoli ad attraversare la gigantesca girandola. Ma non è tutto: la nostra galassia non è sola nell’universo. Nel 1922 Edwin Hubble con il telescopio di Monte Wilson di 100 pollici (il più potente allora disponibile) riuscì a misurare la distanza di una particolare nebulosa nella costellazione di Andromeda in circa 2 milioni e mezzo di anni luce: fu chiaro che si trattava di un’altra galassia, del tutto simile alla nostra. La luce che oggi riceviamo da quella galassia ha viaggiato per 2,5 milioni di anni prima di arrivare a noi, e quindi ci porta una immagine di come la galassia di Andromeda era 2 milioni e mezzo di anni fa.
Più guardiamo lontano nello spazio cosmico, più vediamo le cose come erano indietro nel tempo. Questo fatto ha conseguenze profonde sulla nostra possibilità di conoscere l’universo. Per i cosmologi è una grande fortuna: non solo possiamo osservare il cosmo a grandi distanze, ma possiamo ricevere informazioni su come le cose stavano nel lontano passato. Lo spazio, il tempo e la velocità della luce sono intimamente intrecciati insieme quando discutiamo di fenomeni su dimensioni cosmiche: spazio, tempo e velocità della luce sono proprio gli ingredienti alla base della teoria generale della relatività di Einstein che costituisce l’ambito fisico-geometrico, di una eleganza straordinaria, nel quale possiamo descrivere in termini rigorosi l’universo fisico.