IlSussidiario.net, 9 gennaio 2012, di Marco Bersanelli
In queste limpide serate invernali nel cielo brillano due astri molto luminosi, uno verso Ovest al seguito del Sole già tramontato, e l’altro più alto nella volta celeste non lontano dallo Zenit: sono Venere e Giove, due dei cinque pianeti visibili ad occhio nudo. Accade talvolta, ma molto di rado, che due pianeti appaiano allineati in modo da formare ai nostri occhi quasi la luce di un’unica luminosissima stella. Ancor più raramente, circa una volta al millennio, può succedere che tre pianeti vengano a congiungersi: è quello che accadde a Giove, Saturno e Marte esattamente 2019 anni fa, ed è probabilmente questo il fenomeno astronomico cui si riferiscono i vangeli nel racconto del viaggio dei Magi d’Oriente verso Betlemme (fra l’altro la lieve discrepanza nella datazione collimerebbe con un errore, proprio di 7 anni, introdotto nel VI Secolo da Dionigi “il Piccolo”). Meno accreditate invece sono l’ipotesi della cometa, resa popolare dalla Natività di Giotto nella Cappella degli Scrovegni a Padova, e quella della Supernova: in entrambi i casi mancano sufficienti riscontri storici e astronomici.
A queste congetture ha fatto riferimento il Santo Padre nella sua omelia per la festa dell’Epifania, non senza un cenno di accurata descrizione: «Si è molto discusso su che genere di stella fosse quella che guidò i Magi. Si pensa ad una congiunzione di pianeti, ad una Supernova, cioè ad una di quelle stelle inizialmente molto deboli in cui un’esplosione interna sprigiona per un certo tempo un immenso splendore, ad una cometa, e così via. Continuino pure gli scienziati questa discussione…»
La “stella” che ha accompagnato la nascita di Gesù, qualunque fosse la sua natura fisica, identifica la partecipazione dell’universo intero a quell’avvenimento, apparentemente piccolissimo, eppure decisivo per la storia dell’umanità e della realtà tutta. Ma la cosmicità (cattolicità) dell’evento cristiano è soprattutto nel suo essere risposta al cuore di ogni uomo, qualunque sia la sua storia e la sua tradizione, «grandi e piccoli, re e servi, uomini di tutte le culture e di tutti i popoli».
Il Papa si è così immedesimato nella figura dei Magi, questo piccolo gruppo di scienziati (la tradizione dice che erano in tre, ma il vangelo non ne precisa il numero, si dice solo “alcuni Magi”), molto probabilmente astronomi, che vanno a unirsi all’altro gruppetto, quello dei semplici pastori che abitavano le terre intorno a Betlemme, nel rendere omaggio al piccolo Gesù.
Quei sapienti venuti da lontano avevano qualcosa che difficilmente troviamo negli intellettuali del nostro tempo: «Erano
persone dal cuore inquieto», ha detto il Papa. Sorprendente e magnifica questa espressione, che così bene coglie la vera natura del cuore dell’uomo, che «non si accontenta di ciò che appare ed è consueto»; che ricerca e attende un bene più grande di qualunque risposta parziale: «non si accontenta di niente che sia meno di Dio e, proprio così, diventa un cuore che ama». Un’inquietudine che quindi va difesa perché è la più preziosa vibrazione dell’umano: «Il nostro cuore è inquieto verso Dio e rimane tale, anche se oggi, con “narcotici” molto efficaci, si cerca di liberare l’uomo da questa inquietudine».
Così descrivendo i Magi Benedetto traccia una figura umana affascinante dei veri «sapienti del mondo», lontana dall’immagine presuntuosa che noi spesso ne abbiamo: «Essi erano, possiamo dire, uomini di scienza, ma non soltanto nel senso che volevano sapere molte cose: volevano di più. Volevano capire che cosa conta nell’essere uomini». Ecco che cosa manca molto spesso nel nostro modo di concepire e fare ricerca, nelle nostre aule universitarie: il desiderio di capire che cosa veramente conta, l’orizzonte ultimo nel quale anche la nostra ricerca particolare acquista il suo senso. Lo si dà per scontato, mentre loro, i Magi, «erano uomini alla ricerca della promessa, (…) erano uomini vigilanti, capaci di percepire i segni di Dio, il suo linguaggio sommesso ed insistente (…) Ma erano anche uomini coraggiosi e insieme umili», proprio come quei pastori con cui si sono trovati lì, davanti a Gesù, «tanto che possiamo immaginare che dovettero sopportare qualche derisione…»; ma per loro «contava la verità stessa, non l’opinione degli uomini».
Ma il colpo di scena finale del discorso di Benedetto XVI lascia commossi e senza parole: «Non soltanto noi esseri umani siamo inquieti in relazione a Dio. Il cuore di Dio è inquieto in relazione all’uomo. Dio attende noi. È in ricerca di noi. Anche Lui non è tranquillo, finché non ci abbia trovato. Il cuore di Dio è inquieto, e per questo si è incamminato verso di noi (…), Dio è inquieto verso di noi, è in ricerca di persone che si lasciano contagiare dalla sua inquietudine, dalla sua passione per noi. Persone che portano in sé la ricerca che è nel loro cuore e, al contempo, si lasciano toccare nel cuore dalla ricerca di Dio verso noi». Anche noi, figli della modernità, potremmo non rimanere del tutto insensibili a un Dio che è inquieto per noi.
Allora, se ci lasciamo “contagiare dall’inquietudine di Dio”, l’esperienza cristiana che tanti “sapienti” hanno ridotto a un “già saputo” o a un “devoto ricordo”, può far sussultare il nostro cuore, può generare uno sguardo diverso sulla realtà, che ama e conosce le cose in un modo più vero. «I Magi hanno seguito la stella. Attraverso il linguaggio della creazione hanno trovato il Dio della storia», ha detto il Santo Padre. Così forse anche noi, se nei prossimi giorni il cielo dopo il tramonto sarà ancora terso, potremo guardare la luce cristallina dei pianeti nella volta celeste non fermandoci alla loro bellezza, ma seguendo fino in fondo il cammino a cui ci invitano, quello di riconoscere nella loro luce il segno della Bellezza che non tramonta.