Intervento del Cardinale Angelo Scola
Aula De Carli Via Durando, 10 – Milano Bovisa
IL POLITECNICO PER UN PAESE SOSTENIBILE
Inaugurazione dell’A.A. 2011-2012
Magnifico Rettore,
Autorità civili e militari,
Chiarissimi Professori,
Cari Studenti,
Personale addetto,
Signore e Signori,
vorrei, in particolar modo, ringraziare per l’occasione che mi è offerta di intervenire all’inaugurazione del nuovo Anno Accademico del Politecnico – del quale sono stato anch’io studente prima di approdare ai lidi della Filosofia – in un tempo della nostra storia culturale, civica, ma anche nazionale e mondiale (oggi il “villaggio” è divenuto ormai globale) tanto difficile quanto decisivo per il presente di tutti noi. Come ben sappiamo, dal modo in cui impostiamo il presente, dalle nostre scelte culturali – prima ancora di quelle sociali e politiche, che sono quasi delle conseguenze di una cultura – dipenderà soprattutto il futuro nostro e di coloro che ci seguiranno negli anni a venire.
Ogni momento delicato della storia è, in certo modo, anche un momento promettente, in quanto offre l’opportunità di compiere delle scelte che non si fermano alla superficie della vicenda umana, ma vanno alla sua radice.
Non a caso Giovanni Paolo II scriveva nella Fides et ratio: «Una grande sfida che ci aspetta al termine di questo millennio è quella di saper compiere il passaggio, tanto necessario quanto urgente, dal fenomeno al fondamento» (n. 83).
Oggi siamo quasi “costretti dagli eventi”, dall’esperienza che viviamo, da talune evidenze quotidiane che tocchiamo con mano, a prendere atto di alcuni “dati sperimentali” – per dirla con un’espressione cara agli uomini di scienza – sull’uomo e sulla società che, volenti o nolenti, finiscono per rimandare al necessario riconoscimento di alcuni “principi oggettivi”, cioè uguali per tutti, perché indipendenti dalle ideologie, dalle appartenenze religiose, dalle idee politiche, in quanto, in realtà, le precedono. Essi sono come un alfabeto e una grammatica universale dalla quale non si può prescindere proprio per avere una base per il dialogo e la traduzione da una cultura ad un’altra. Se un tempo essi si potevano dare per scontati e sottintesi, oggi non è più così ed occorre esplicitarli.
Il pensiero filosofico e umanistico fatica ancora, ai nostri giorni, a darne una formulazione sistematica e più di una volta è tentato di rinunciare all’impresa, o di teorizzarne l’impossibilità. Il pensiero scientifico è in certo modo, invece, favorito da una sua propria forma mentis.
Chi opera in una Università tecnico-scientifica come un Politecnico sa bene come le leggi scientifiche abbiano un grado di oggettività che va rispettato nel costruire impianti, macchinari o edifici. Diversamente le cose non funzionano correttamente o non funzionano del tutto. La mentalità dell’operatore tecnico-scientifico è, più facilmente di altre, orientata a questo “realismo”, al rispetto della “natura” delle cose, di leggi e regole dettate dai fatti. Non che queste leggi e regole siano sempre di immediata comprensione, ma si sa che esistono e sono, in una misura significativa, afferrabili e concretamente vengono afferrate dalla nostra conoscenza.
Ciò non risparmia a nessuno la tentazione di cedere a insidiosi deliri di onnipotenza alla quale una “tecnoscienza” sempre più efficiente e perfezionata può indurre colui che ne è artefice. Tuttavia l’esperienza insegna che se si cede troppo spesso e a lungo a tale tentazione, la realtà, l’oggettività delle leggi che la governano, si prende la rivalsa rivolgendosi contro l’uomo, sfuggendogli di mano e generando conseguenze anche disastrose .
Ai nostri giorni le grandi sfide culturali della tecno-politica, della bio-politica, della neuro-politica che sempre e di nuovo mettono in causa quelle dell’etica e del diritto, si giocano tutte a questo livello. Sembra di poter dire che oggi occorre esportare questo atteggiamento positivo proprio della mentalità “realista” tipica dell’operatore tecnico-scientifico, anche nell’ambito antropologico e sociale, cioè quello del “mondo della vita” reale dell’uomo. Sempre infatti, alla fine, una antropologia, mediata da un’etica, è implicata in ogni atto scientifico e tecnologico.
La cultura che non sa riconoscere i “principi” che governano la vita della persona e rendono possibile una convivenza civile fruibile da tutti i membri della famiglia umana rischia di diventare materialmente e spiritualmente insopportabile. E il mondo rischia di diventare sempre meno “vivibile”.
Molte sono le persone che oggi faticano a “reggere” il peso materiale, ma anche psicologico, affettivo, spirituale dell’esistenza; o sperimentano l’insicurezza, la durezza, l’indifferenza, nelle relazioni sociali. Il sintomo della “perdita di vivibilità” dell’esistenza e della società si presenta oggi a noi come a degli “sperimentatori” del “laboratorio sociale” chiamati a prendere atto della inadeguatezza di certe ipotesi e teorie sull’uomo e sulla società. Onestà intellettuale e rigore critico domandano allora di saperle correggere a partire dal dato della comune, integrale ed elementare esperienza umana.
Se la storia deve poter essere anche per noi magistra vitae non possiamo non domandarci se nell’epoca contemporanea non siano stati persi di vista – con l’intenzione di favorire il progresso, ma anche cedendo a qualche delirio di onnipotenza o di potere – alcuni “fondamentali” che regolano il buon “funzionamento” della vita dell’uomo. Essa si realizza quotidianamente attraverso le dimensioni del conoscere e dell’agire, costitutive di un io che è sempre in relazione con gli altri e con Dio. Sono queste le tre relazioni costitutive, come ci ricorda il comandamento dell’amore.
Mi limito a citare due di questi fondamentali:
– quello dell’esistenza e conoscibilità di alcune “verità” comuni a tutti
– e quello dell’esistenza e conoscibilità di alcuni principi dell’etica e del diritto.
Non entro in questa sede nella delicata questione – della cui importanza sono ben consapevole – del come si possa realizzare, in una società plurale come la nostra, il comune riconoscimento di questi “fondamentali”. Tuttavia è ragionevole affermare che senza di essi la vivibilità della società è gravemente compromessa. Ricostruire una “razionalità”, e quindi un “sapere” e una “cultura”, che rendano “scienza” e “sapienza” questi fondamenti imprescindibili per il vivere umano è da sempre, ed è ancor più oggi, un compito prioritario dell’Università, il più importante servizio che essa può rendere alla società.
Permettetemi di dire che il Magistero della Chiesa, di questi princìpi, è stato e rimane custode anche per quanti non sono credenti. Il discorso di Papa Benedetto XVI al Parlamento federale della Germania è un esempio recente che «una delle funzioni della fede, e non tra le più irrilevanti, è quella di offrire un risanamento alla ragione come ragione, di non usarle violenza, di non rimanerle estranea, ma di ricondurla appunto nuovamente a se stessa» .
Come uomo di Chiesa ed Arcivescovo di questa città, cui questo Ateneo dà assai lustro, rinnovo la mia gratitudine per la possibilità che mi è stata offerta di prendere la parola in questa Cerimonia di inaugurazione del 149° Anno accademico.
Sono convinto infatti che Chiesa e Università possano e debbano collaborare nel presente e nel futuro affinché «la verità possa tornare ad essere “scientifica”» e la razionalità umana possa godere di tutta l’ampiezza e il respiro di cui ha bisogno e diritto per potersi esercitare in pienezza.
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