Ecco l’Universo da bambino

Benedetta CappelliniRassegna Stampa

Il Sole 24 ore, 16 gennaio 2011, di Paola Antolini
Le prime scoperte appena fornite da Planck e i suoi strumenti rivolti verso l’aurora del Mondo, ci permettono di risalire a soli 380mila anni dopo l’esplosione che ha fatto nascere l’Universo e intravedere i resti fossili della prima luce, quella che è seguita al Big Bang o «grande esplosione». Ma come è nato l’Universo? Da dove proviene? E verso dove evolve? Sono queste le domande della scienza cosmologica più attuale, ma anche le più antiche e le più frequenti domande dell’umanità. Le prospettive che ci offre la cosmologia moderna sono più vertiginose di quelle che i miti di fondazione ci propongono. E non mancano inattesi punti di contatto tra la varietà e la ricchezza delle cosmogonie che raccontano le origini o la fine del Mondo e dell’Universo negli angoli più remoti del nostro pianeta e i risultati della cosmologia moderna.

Stephen Hawking considera la scoperta della radiazione cosmica di fondo (Cosmic Microwave Background, CBM) cioé dei resti della prima luce emessa dal Big Bang «come la scoperta più straordinaria del secolo, o se non di tutti i tempi». Un viaggiatore straordinario dello Spazio-Tempo è George Smoot, dell’Università di Berkeley in California, inspiratore del satellite Planck. Dopo aver svolto dagli anni settanta esperimenti a terra, nell’atmosfera e nello spazio per ritrovare l’eco del Big Bang, le sue ricerche sono state ricompensate nel 2006 con il Nobel per la fisica. Vedere affiorare l’Universo delle origini, quello di 13,7 miliardi d’anni fa, è il compito di Planck. Qual è il senso dei nuovi dati presentati martedì scorso a Parigi, per chi ha dedicato e dedica la vita alla ricerca delle vestigia dell’Universo primordiale, della radiazione cosmica di fondo? «La complessità della Natura continua a sorprenderci – come dice il collega Stephen Hawking, «ma stiamo facendo progressi notevoli nello sforzo di comprenderla», risponde Smoot. «Il Catalogo delle fonti compatte dell’Universo di Planck presentato l’11 gennaio scorso è ottenuto dall’osservazione continua del cielo a lunghezze d’onda millimetriche e submillimetriche. È una raccolta di 15mila sorgenti estremamente fredde. Questi risultati sono solo i primi prodotti ma ce ne saranno molti di più nei prossimi due anni. Ciò dimostra che si sta lavorando bene».

«È impressionante come in pochi anni la cosmologia sia cresciuta in Europa, soprattutto in Italia e in Francia – continua il premio Nobel –. Questa è anche una prova di come progredisca l’internazionalizzazione della scienza. Ci sono quasi mille persone che lavorano oggi insieme su questi dati. In questi venti anni di lavoro tutta la comunità scientifica internazionale ha prodotto ben oltre 5mila anni umani di lavoro di ricerca. È proprio ciò che avevo sperato un decennio e mezzo fa quando insieme ai colleghi Reno Mandolesi e Marco Bersanelli, tra gli altri, abbiamo iniziato a lavorare al progetto Cobra (la radiazione cosmica di fondo anisotropica), proposta che è diventata poi Planck e che raggiunge adesso la sua realizzazione».

Che è uno straodinario viaggio indietro nel tempo delle origini. «I risultati presentati martedi 11 gennaio riguardano il tempo in cui le galassie si stavano ancora formando. Si è rivelata l’esistenza di una popolazione di galassie, altrimenti invisibili, miliardi di anni indietro nel tempo: avvolte nella polvere, in esse si formavano stelle a un ritmo vorticoso, da 10 a 1.000 volte più rapido di quello che possiamo osservare oggi nella nostra galassia. Si tratta di misure inedite, mai effettuate prima a queste lunghezze d’onda».

Qual è dunque la sfida essenziale della missione Planck? «La sensibilità molto superiore, che si consegue raffreddando gli strumenti a temperature vicine allo zero assoluto: 250 gradi sottozero, è un’innovazione rilevante. L’altra caratteristica è che Planck osserva la luce fossile in un intervallo di lunghezze d’onda assai più ampio di quanto avvenuto finora». Cosa e quanto conosciamo dell’Universo che ci circonda? «La nostra conoscenza si limita al 4% della materia che compone l’Universo in cui viviamo: è per questo che le aspettative per questa missione sono importanti per tutta la comunità scientifica. Si pongono qui le grandi domande della cosmologia sull’età dell’Universo, sul ritmo della sua espansione, sulla materia oscura e sull’energia oscura». È un impulso innato dell’essere umano quello di esplorare e di conoscere? «Sembrerebbe questa curiosità a condurci a sfide a sempre più audaci – risponde Smoot –. Così stiamo studiando la struttura dell’Universo e la sua relazione con gli esseri umani. Pascal diceva che l’essere umano si trova a metà strada tra l’infinitamente piccolo e l’infinitamente grande: sembrerebbe questa l’unica posizione possibile per comprendere l’Universo». Esplorare e imparare sono sinonimi?

«L’esplorazione dell’Universo è la frontiera estrema per rivelare nuovi scenari. Certo, ce ne sono anche altre, come le indagini sui meccanismi che regolano le interazioni ad altissima energia in scale infinitesime, ma queste appartengono a una realtà più vasta. L’obiettivo dovrebbe essere riuscire a studiare i modelli cosmologici legati alle leggi della microfisica nell’Universo primordiale». Esisterà anche una fine del Mondo o dell’Universo in cui viviamo? «Non amo più parlare della fine dell’Universo – risponde Smoot –, né tantomeno dare alcun credito alla manipolazione fuorviante degli antichi testi Maya per asserire una presunta fine del mondo nel 2012. Sono d’accordo con Stephen Hawking quando afferma che ancora ignoriamo se l’Universo finirà in un Big Crunch, o “grande collasso”. Quello che possiamo affermare con sicurezza è che ciò non accadrà, almeno per i prossimi 15 miliardi di anni».