Dal satellite Planck uno sguardo nuovo sull’universo

Benedetta CappelliniRassegna Stampa

Il profondo legame, naturalmente religioso, che unisce l’uomo al cielo stellato affonda le sue radici nelle origini stesse dell’umanità e da sempre l’osservazione della volta celeste ha stimolato l’uomo a riflettere sulla sua collocazione nel cosmo. Anche oggi chi ha la possibilità, allontanandosi dalle luci delle città, di ammirare il cielo così come lo vedevano tutte le notti i nostri antenati, spogliandosi di ogni orpello tecnologico e offrendosi idealmente nudo alla luce delle stelle, non può non confrontare la propria minuscola esistenza con la maestosità silenziosa dell’universo.Risuonano nella mente i versi del Salmista, “Chi è l’uomo perché qualcuno se ne ricordi? (…) eppure l’hai fatto poco meno di un dio!”.L’uomo si rende conto di avere una potenzialità che eccede ciò che osserva attorno a sé e, per uscire dal senso di angoscia che lo assale di fronte all’immensità, sin dall’antichità ha cercato di costruirsi un modello di universo pienamente soddisfacente, un modello cioè che rendesse conto dei fenomeni che osservava ripetersi in cielo con astronomica regolarità, ma contemporaneamente lo collocasse idealmente al “centro”, non lo dimenticasse come un insignificante granello di pulviscolo cosmico.

Ben presto però l’accumularsi di dati astronomici e la loro complessità (pensiamo allo strano moto dei pianeti sullo sfondo del cielo stellato) ha imposto di demandare a un piccolo gruppo di specialisti, gli astronomi, il compito di costruire e aggiornare con nuove osservazioni il modello di universo.

Come nota acutamente il filosofo della scienza Thomas S. Kuhn nel suo libro La rivoluzione copernicana, questa necessità si è rivelata un’arma a doppio taglio perché se è vero che gli astronomi, dedicandosi totalmente all’osservazione dei fenomeni celesti contribuiscono a un più rapido e coerente progresso della conoscenza, essi hanno anche il potere, sulla base di dati e ragionamenti inoppugnabili, di modificare radicalmente i precedenti modelli cosmologici, scardinando e distruggendo una rassicurante visione del mondo divenuta ormai patrimonio culturale comune.

Ciò è vero più che mai oggi, quando il progresso della cosmologia si basa su osservazioni ottenute con sofisticati strumenti spaziali che, collocati in orbita al di fuori dell’atmosfera terrestre, hanno la possibilità di osservare tutte le radiazioni emesse dai corpi celesti, dal lontano infrarosso e dalle microonde fino alle radiazioni x e Gamma.Queste nuove “finestre” hanno rivelato un universo sconosciuto, difficilmente immaginabile fino a qualche decina d’anni fa e il compito di collocare in un quadro razionale e coerente tutte le nuove osservazioni è divenuto formidabile anche per gli esperti cosmologi. Di conseguenza, ancor più formidabile è l’impresa di comunicare ai non specialisti le caratteristiche del nuovo modello di universo usando un linguaggio comprensibile, ma al tempo stesso scientificamente corretto.

Le difficoltà di comunicazione aumentano di giorno in giorno perché i fenomeni celesti osservati dai nuovi strumenti spaziali si manifestano in lunghezze d’onda lontane dalla nostra naturale capacità sensoriale, per cui è necessario, per visualizzarli, ricorrere a metafore o rappresentazioni simboliche. Inoltre i dati osservativi si accumulano con una tale vorticosa rapidità da creare molto spesso confusione o sconcerto.

Un esempio concreto è offerto dalla mappa del cielo ottenuta con il satellite Planck (riprodotta a colori in prima pagina). Essa mostra la radiazione emessa dall’universo primordiale, quando era costituito da una massa uniforme e indifferenziata di idrogeno ed elio ionizzati. Il gas in quelle condizioni, molto simili a quelle che osserviamo alla superficie del nostro Sole, è opaco alla radiazione e solo successivamente, quando il gas si sarà raffreddato per effetto dell’espansione dell’universo diventando neutro, tale radiazione può cominciare a viaggiare in tutte le direzioni nel cosmo fino a raggiungerci oggi, dopo 13,7 miliardi di anni.

A questo punto la tentazione dello scienziato divulgatore è quella di spiegare in poche righe, sperando di riuscire a mantenere l’attenzione del lettore, come sia possibile determinare con tanta precisione e sicurezza un intervallo di tempo così grande, quale sia il significato delle molteplici strutture che vediamo nella mappa e quali informazioni esse ci forniscano sull’universo. Per esempio in che modo queste osservazioni abbiano permesso di ipotizzare che ciò che vediamo sia solo il 5 per cento di tutto ciò che esiste e il rimanente 95 per cento sia costituito di materia ed energia oscura.

Il rischio, cui si è già accennato, è quello di confondere il quadro generale con dettagli sicuramente interessanti, ma il più delle volte incomprensibili per la necessaria semplificazione con la quale sono
presentati. Un’alternativa, forse più utile, potrebbe essere quella di evidenziare solo le caratteristiche essenziali del modello cosmologico emergente dai dati di Planck e degli altri strumenti spaziali e terrestri, confrontandole con le grandi categorie del pensiero filosofico classico:  essere e divenire, materia e forma, potenza e atto, esperienza sensibile e trascendenza.

Potremmo allora dire che la caratteristica principale del cosmo, scoperta all’inizio del secolo scorso e ormai consolidata, è la sua evoluzione globale. Materia ed energia, unitamente allo spazio-tempo, si
trasformano espandendosi da una situazione di estrema densità e temperatura, ma anche di grande omogeneità, fino al quadro attuale che mostra la materia differenziata e concentrata in stelle e galassie separate da distanze immense e immerse in uno spazio praticamente vuoto. Coniugando l’espansione dell’universo con la finitezza della velocità della luce, l’evoluzione del cosmo nel tempo ci appare come una sequenza di immagini separate nello spazio:  più guardiamo lontano, più risaliamo nel passato fino a giungere all’istante immortalato da Planck.

Ciò che stupisce e su cui dovremmo riflettere profondamente è il continuo emergere nel cosmo di strutture (potremmo forse chiamarle forme) di una complessità sempre crescente, ma archetipicamente simili in tutto l’universo. È come se le galassie, le stelle, le coorti di pianeti che ruotano attorno a tutte le stelle, fossero l’attuazione di una potenzialità iscritta en archè che necessariamente deve esprimersi dipanandosi nello spazio-tempo fino all’emergenza fatale della coscienza.

Considerando l’evoluzione del cosmo da questo punto di vista, ci si rende subito conto quanto la descrizione “cronologica”, pur necessaria in un modello fisico-razionale del cosmo, sia inadeguata:  periodi convulsi, durante i quali le “emergenze” si susseguono freneticamente in miliardesimi di secondo, sono seguiti da fasi desertiche lunghe centinaia di milioni di anni in cui nulla sembra accadere. Forse dovremmo riscoprire l’antica saggezza ebraica e greca che distinguevano tra zéman e eth, tra chrònos e kairòs, e rileggere la storia dell’universo come una sequenza “kairologica”, nella quale le emergenze avvengono nel “tempo opportuno”, quando i “tempi sono maturi”, come ci ricorda la sapienza di Qoelet.

Allora potremmo lasciare ai cosmologi, com’è corretto, il chrònos lineare come parametro fondamentale dei loro modelli fisici per inanellare cause ed effetti, e riconoscere invece a un livello diverso, nel kairòs, le emergenze (i primi aminoacidi, la prima cellula, il primo barlume di coscienza) che sono miracoli non per un intervento demiurgico che modifica le leggi dell’evoluzione, ma perché l’uomo li riconosce come tali nella Grazia.

Ci sono alcuni scienziati, come il fisico inglese Steven Hawking, che non ammettono questo diverso livello di interpretazione dei fatti che il metodo scientifico via via evidenzia nel divenire universale, ma ve ne sono moltissimi altri, e tra questi una gran parte dei fisici che stanno analizzando i dati di Planck, che, senza interferire con il loro rigoroso metodo, cercano in questi una coerenza olistica che eccede la sola conoscenza scientifica. Allora, mentre scoprono e caratterizzano le minime variazioni di densità e temperatura del fondo cosmico, i semi da cui nasceranno galassie, stelle, pianeti, risuona loro con rinnovata forza il Salmo 139:  “Non ti erano nascoste le mie ossa / quando venivo formato nel segreto, / ricamato nelle profondità della terra [dell’universo]. / Ancora informe mi hanno visto i tuoi occhi; / erano tutti scritti nel tuo libro i giorni che furono fissati / quando ancora non ne esisteva uno”.

Ed ecco che il ricamo arabescato dell’universo primordiale prende vita, si stacca dalla pagina e ci avvolge come un grembo materno. Davvero non esistevano giorni in quel chrònos, perché non c’era una Terra che ruotasse attorno a se stessa alternando il giorno e la notte e non c’era Uomo che li vedesse, ma nel kairòs la Potenza creativa già ci abbracciava amorevolmente dall’inizio fino alla fine dei tempi, in saecula saeculorum.
E oggi noi abbiamo la possibilità, anche grazie alle scoperte di Planck, di riconoscere liberamente il divenire dell’Atto creativo e di concludere con il Salmista:  “Io ti rendo grazie:  / hai fatto di me una meraviglia stupenda; / meravigliose sono le tue opere, / le riconosce pienamente l’anima mia”.