Franco Prodi, L’Osservatore Romano, 8 maggio 2010
I commenti del dopo Copenaghen sono in generale di profonda delusione. Alcuni parlano di insuccesso e addirittura di fallimento. Altri ammettono che il mini-accordo raggiunto, oltretutto non vincolante, è un passo indietro rispetto a precedenti incontri internazionali, ma pur dichiarandosi delusi, cercano di salvare qualche aspetto del summit, come la condivisione dell’obiettivo di limitare a due gradi l’innalzamento della temperatura globale in questo secolo. Non mancano poi atteggiamenti giustificativi basati su valutazioni di politica internazionale. Come ad esempio il fatto che il discorso deludente di Obama non sia stato dovuto alla sua insensibilità verso il problema, ma alla necessità di mantenere una maggioranza alla Camera e al Senato per i provvedimenti che premono di più all’amministrazione.
È forse utile riesaminare l’intera questione, in particolare l’obiettivo della guerra ai cambiamenti climatici, cercando di comprendere quale sia davvero il ruolo della scienza nell’impostare questa strategia, e se questa sia la migliore per il destino a lungo termine dell’umanità. Il problema nodale è valutare il livello attuale della conoscenza scientifica sul sistema clima e accettare la grande difficoltà di pesare l’effetto antropico – cioè causato dall’uomo – nel cambiamento del clima stesso. Questo deve portare a suggerire obiettivi e strategie completamente diversi, mettendo in primo piano l’assoluta necessità del rispetto dell’ambiente planetario o, per usare il linguaggio di Benedetto XVI, la salvaguardia del creato.
Le cause antropiche dei cambiamenti vanno individuate nella immissione di gas serra in atmosfera per l’uso di combustibili fossili e per incendi di biomasse, negli allevamenti animali, nel traffico veicolare, nella deforestazione di ampie aree del pianeta, nel diverso uso dei suoli e, soprattutto, nella immissione di gas e particelle in atmosfera. Quest’ultimo fattore è molto importante per il fondamentale ruolo di aerosol e nubi e del ciclo dell’acqua nel sistema clima.
Quale sia la parte della variazione climatica ascrivibile all’uomo sarà chiaro solo dopo che tutti questi aspetti saranno conosciuti. Le cause naturali sono astrofisiche (il comportamento del sole), astronomiche, ma anche sono individuabili nella stessa variazione della composizione dell’atmosfera (l’eruzione del vulcano islandese è qui a ricordarlo). È quindi un compito davvero difficile separare l’effetto antropico – che c’è sicuramente – da un ciclo naturale che la paleoclimatologia mostra essere sempre esistito.
Questa è l’essenza del problema. Bisogna pertanto fare luce sulla situazione che si è venuta attualmente a creare fra scienza e politica, e soprattutto stabilire un rapporto corretto fra le due, perché questa relazione è cruciale in questo momento. L’Ipcc (Intergovernmental Panel of Climate Change) non rappresenta il luogo di crescita della scienza mondiale sul clima. L’Ipcc nasce alla fine degli anni settanta con l’Organizzazione meteorologica mondiale, che pensa al riscaldamento globale come pericolo imminente e costituisce un canale di scambio di opinioni tra la politica internazionale e le Nazioni Unite da un lato e la scienza dall’altro. Questa opportunità di scambio è però da troppi interpretata come il momento stesso in cui si fa la scienza del clima. E siccome il riscaldamento globale è dato per scontato, molti pensano sia giunto il momento di passare il testimone agli esperti di adattamento e di contenimento (adaptation and remediation).
Ma non è così. Ci sono le conferenze, le associazioni scientifiche e le riviste internazionali con revisori che indicano le corrette modalità di operare della scienza. Poi naturalmente ci sono le occasioni, come il summit di Copenaghen, in cui si cerca di fare il punto per dare alla politica internazionale delle indicazioni. Questo percorso ha preso la mano, per cui si è venuta a creare una grande ondata di attenzione verso il riscaldamento globale riconosciuto in anticipo come catastrofico.
Ma si tratta di un’attenzione eccessiva, non proporzionata al livello vero della conoscenza scientifica, visto che lo stesso rapporto dell’Ipcc ammette il basso grado di conoscenza su tanti processi fondamentali. Per arrivare a una conoscenza del clima pari a quella che oggi si ha della meteorologia occorreranno almeno quarant’anni. La previsione climatologica affidabile è insomma una meta non ancora all’orizzonte.
È la politica internazionale – o forse altri interessi nascosti – che accelera questa sensazione di conoscenza già acquisita, fa credere che la scienza sia arrivata a livelli in realtà non raggiunti e genera false partenze. Ma questo fa male alla scienza perché impedisce che si dispieghi lo sforzo adeguato alla sfida.
Il quadro realistico del livello attuale della conoscenza del sistema climatico non deve portare a divisioni fra catastrofisti e negazionisti come se si trattasse di una partita di calcio. Il clima è un sistema non lineare: può quindi verificarsi una transizione forte in un breve periodo, e nel passato ci sono stati cambiamenti totali vissuti dalla Terra in periodi brevissimi. Ma si deve essere anche realisti e ammettere che l’aumento accertato della concentrazione di anidride carbonica non autorizza a dire che il sistema va in una direzione certa. Bisogna quindi affermare che la scienza deve accelerare il proprio percorso ed essere messa in condizioni di fornire al più presto alla politica previsioni affidabili.
Il pianeta non può sostenere un corso come quello attuale, con una crescita costante nel consumo di energia. È necessario riflettere sull’utilizzo delle risorse, sul rispetto dovuto agli esseri viventi, sulle possibilità che si aprono in un arco temporale che non è quello della politica, ma quello dei prossimi tre o quattro secoli. Non è possibile avere uno sviluppo legato alle sole fonti energetiche utilizzate oggi. Tutti gli abitanti della Terra vogliono usare la stessa quantità di energia di quelli che abitano i Paesi sviluppati.
L’effetto sul pianeta è disastroso ed è già sotto gli occhi di tutti: fiumi e acque sotterranee inquinati, metalli pesanti nei pesci che popolano anche gli oceani più remoti. La catastrofe della piattaforma petrolifera nel Golfo del Messico lo ricorda drammaticamente. Un ambientalismo serio e planetario deve portare a summit preparati e basati sul rispetto del pianeta, incontri nei quali si cerchi l’unanimità sulla salvaguardia ambientale: un accordo che i Governi del mondo non riescono a trovare sul pericolo del surriscaldamento globale. Solo così si potrà apportare al mercato quella correzione necessaria al futuro del genere umano.
È forse utile riesaminare l’intera questione, in particolare l’obiettivo della guerra ai cambiamenti climatici, cercando di comprendere quale sia davvero il ruolo della scienza nell’impostare questa strategia, e se questa sia la migliore per il destino a lungo termine dell’umanità. Il problema nodale è valutare il livello attuale della conoscenza scientifica sul sistema clima e accettare la grande difficoltà di pesare l’effetto antropico – cioè causato dall’uomo – nel cambiamento del clima stesso. Questo deve portare a suggerire obiettivi e strategie completamente diversi, mettendo in primo piano l’assoluta necessità del rispetto dell’ambiente planetario o, per usare il linguaggio di Benedetto XVI, la salvaguardia del creato.
Le cause antropiche dei cambiamenti vanno individuate nella immissione di gas serra in atmosfera per l’uso di combustibili fossili e per incendi di biomasse, negli allevamenti animali, nel traffico veicolare, nella deforestazione di ampie aree del pianeta, nel diverso uso dei suoli e, soprattutto, nella immissione di gas e particelle in atmosfera. Quest’ultimo fattore è molto importante per il fondamentale ruolo di aerosol e nubi e del ciclo dell’acqua nel sistema clima.
Quale sia la parte della variazione climatica ascrivibile all’uomo sarà chiaro solo dopo che tutti questi aspetti saranno conosciuti. Le cause naturali sono astrofisiche (il comportamento del sole), astronomiche, ma anche sono individuabili nella stessa variazione della composizione dell’atmosfera (l’eruzione del vulcano islandese è qui a ricordarlo). È quindi un compito davvero difficile separare l’effetto antropico – che c’è sicuramente – da un ciclo naturale che la paleoclimatologia mostra essere sempre esistito.
Questa è l’essenza del problema. Bisogna pertanto fare luce sulla situazione che si è venuta attualmente a creare fra scienza e politica, e soprattutto stabilire un rapporto corretto fra le due, perché questa relazione è cruciale in questo momento. L’Ipcc (Intergovernmental Panel of Climate Change) non rappresenta il luogo di crescita della scienza mondiale sul clima. L’Ipcc nasce alla fine degli anni settanta con l’Organizzazione meteorologica mondiale, che pensa al riscaldamento globale come pericolo imminente e costituisce un canale di scambio di opinioni tra la politica internazionale e le Nazioni Unite da un lato e la scienza dall’altro. Questa opportunità di scambio è però da troppi interpretata come il momento stesso in cui si fa la scienza del clima. E siccome il riscaldamento globale è dato per scontato, molti pensano sia giunto il momento di passare il testimone agli esperti di adattamento e di contenimento (adaptation and remediation).
Ma non è così. Ci sono le conferenze, le associazioni scientifiche e le riviste internazionali con revisori che indicano le corrette modalità di operare della scienza. Poi naturalmente ci sono le occasioni, come il summit di Copenaghen, in cui si cerca di fare il punto per dare alla politica internazionale delle indicazioni. Questo percorso ha preso la mano, per cui si è venuta a creare una grande ondata di attenzione verso il riscaldamento globale riconosciuto in anticipo come catastrofico.
Ma si tratta di un’attenzione eccessiva, non proporzionata al livello vero della conoscenza scientifica, visto che lo stesso rapporto dell’Ipcc ammette il basso grado di conoscenza su tanti processi fondamentali. Per arrivare a una conoscenza del clima pari a quella che oggi si ha della meteorologia occorreranno almeno quarant’anni. La previsione climatologica affidabile è insomma una meta non ancora all’orizzonte.
È la politica internazionale – o forse altri interessi nascosti – che accelera questa sensazione di conoscenza già acquisita, fa credere che la scienza sia arrivata a livelli in realtà non raggiunti e genera false partenze. Ma questo fa male alla scienza perché impedisce che si dispieghi lo sforzo adeguato alla sfida.
Il quadro realistico del livello attuale della conoscenza del sistema climatico non deve portare a divisioni fra catastrofisti e negazionisti come se si trattasse di una partita di calcio. Il clima è un sistema non lineare: può quindi verificarsi una transizione forte in un breve periodo, e nel passato ci sono stati cambiamenti totali vissuti dalla Terra in periodi brevissimi. Ma si deve essere anche realisti e ammettere che l’aumento accertato della concentrazione di anidride carbonica non autorizza a dire che il sistema va in una direzione certa. Bisogna quindi affermare che la scienza deve accelerare il proprio percorso ed essere messa in condizioni di fornire al più presto alla politica previsioni affidabili.
Il pianeta non può sostenere un corso come quello attuale, con una crescita costante nel consumo di energia. È necessario riflettere sull’utilizzo delle risorse, sul rispetto dovuto agli esseri viventi, sulle possibilità che si aprono in un arco temporale che non è quello della politica, ma quello dei prossimi tre o quattro secoli. Non è possibile avere uno sviluppo legato alle sole fonti energetiche utilizzate oggi. Tutti gli abitanti della Terra vogliono usare la stessa quantità di energia di quelli che abitano i Paesi sviluppati.
L’effetto sul pianeta è disastroso ed è già sotto gli occhi di tutti: fiumi e acque sotterranee inquinati, metalli pesanti nei pesci che popolano anche gli oceani più remoti. La catastrofe della piattaforma petrolifera nel Golfo del Messico lo ricorda drammaticamente. Un ambientalismo serio e planetario deve portare a summit preparati e basati sul rispetto del pianeta, incontri nei quali si cerchi l’unanimità sulla salvaguardia ambientale: un accordo che i Governi del mondo non riescono a trovare sul pericolo del surriscaldamento globale. Solo così si potrà apportare al mercato quella correzione necessaria al futuro del genere umano.