Cinque medaglioni di scienziati che hanno lasciato una originale eredità come comunicatori. Cinque modi diversi di presentare la scienza e l’opera degli scienziati, con finalità e in contesti molto diversi tra loro, ma tutti accomunati dal desiderio di non smarrire, dietro l’ansia comunicativa, i contenuti e gli apporti conoscitivi fondamentali. Un primo contributo per una riflessione sul valore e sui modi della comunicazione scientifica, che chiama in causa direttamente chi è impegnato quotidianamente a comunicare la scienza all’interno di un cammino educativo.
Evangelista Torricelli
Il 10 settembre 1642 il segretario dell’Accademia della Crusca annotava nel suo diario: «l’innominato Torricelli parlò proponendo una dotta lezione paradossale del grave e dei leggieri sopra la quale si fecero lunghi discorsi».
Era la Lezione V o della Leggerezza, che il successore di Galileo come Matematico del Granduca di Toscana, Evangelista Torricelli(1608-1647) teneva alla illustre società, dopo essere stato nominato membro della Accademia della Crusca il 25 novembre 1640. Le Lezioni Accademiche restarono a lungo inedite e vennero pubblicate per la prima volta solo nel 1715, quando ormai rappresentavano un reperto di archeologia linguistica. Erano stati gli Accademici a richiedergli una serie di conferenze allo scopo di aggiornarsi sulla nuova terminologia introdotta nella scienza «dei moti».
In quella lezione sulla leggerezza, Torricelli prendeva di mira la teoria aristotelica dei «luoghi naturali», secondo la quale i quattro elementi primordiali (terra, acqua, aria, e fuoco) sono «naturalmente» disposti in sfere concentriche in base a un ordinamento che non aveva nulla a che vedere con l’idrostatica di Archimede. Nella visione degli aristotelici, per esempio, non avrebbe dovuto esserci nessuna pressione atmosferica, in quanto l’aria occupa nell’atmosfera il suo «luogo naturale», quindi non avrebbe dovuto avere «inclinazione» ad andare da un’altra parte e non avrebbe dovuto premere o spingere da nessuna parte. L’aria era qualcosa di «relativamente» leggero e non c’era nessuna ragione per cui dovesse avere un peso. La nozione aristotelica di «leggero» poi non aveva nessuna relazione con la densità di un oggetto o del mezzo circostante.
Torricelli volle dimostrare con un discorso «paradossale» che la disposizione degli elementi nella «sfera» terrestre era regolata appunto dalla idrostatica di Archimede, e scrisse: «Le Nereidi stabilirono un giorno di voler comporre una somma di Filosofia. Aprirono la loro Accademia colà ne i profondissimi fondi dell’Oceano del Sur. Cominciarono poi a scrivere i dogmi della fisica, conforme facciamo ancor noi abitatori dell’aria nelle scuole nostre. Vedevano queste Ninfe curiose che parte delle materie praticate scendevano nell’acqua abitata da loro, e parte ascendevano. Però subito senza stare a pensare ciò che potesse seguire negli altri elementi conclusero che delle cose, alcune sono gravi, cioè terra, pietre, metalli e simili, poi che nel mare discendono; ma alcune son leggere come aria, suveri, cera, olio ed una gran parte dei legnami, perché salgono dentro l’acqua. Se elle procedessero temerariamene, o no, seguitando la semplice scorta del senso, senza correggerla con l’uso della ragione, io non lo so: so bene, che potrebbero difendere la causa loro, con l’esempio reverito di Filosofi venerabili. Io fabbricando poi chimere fra me stesso mi accorsi, che era comportabile l’errore di inconsiderazione commesso da quelle fanciulle marine, le quali pronunziarono per leggere molte cose da noi tenute per gravi. Fantasticavo con l’immaginazione, e mi dipingevo sopra la testa un altissimo pelago di argento vivo. Ecco che io sono nato e allevato nel fondo di questo fluido metallo. Convienmi ora scrivere un trattato sopra la leggerezza e la gravità. Subito fatta un tantino di reflessione, discorro così. Sono tanti anni che io pratico in questo gorgo dove per esperienza continua ho veduto sempre, che bisogna tenere legate tutte le sorti di roba, fuor che l’oro, acciò elle non sormontino, e se ne fugghino verso l’alto. Dunque senza dubbio tutte le cose son leggere, e hanno inclinazione per natura di andare all’insù, tanto l’acqua, quanto la terra, come anco le pietre, i metalli, e in somma ogni altra cosa corporea fuor che l’oro, il quale solo si trova descendente nell’argento vivo. Al contrario poi penserei che la filosofia delle Salamandre (supposto che elle abitino nel fuoco) fusse per stabilir ogni cosa per grave, compresavi ancor l’aria […]».
La battaglia culturale di Torricelli in favore della nozione della pesantezza dell’aria, con la connessa scoperta del vuoto barometrico, si svolse dunque nell’alto consesso dell’Accademia della Crusca, ma come detto le relative Lezioni vennero pubblicate solo nel 1715, quando il loro eventuale interesse era ormai scemato.
Eulero
Leonhard Euler (1707-1783) discendeva da una schiatta di fabbricanti di pettini e di ecclesiastici. Era figlio del ministro calvinista di una cittadina a valle del Reno rispetto a Basilea. Nel 1725 venne chiamato a far parte dell’Accademia delle Scienze di San Pietroburgo da Caterina I, imperatrice di tutte le Russie. Era appena rimasta vedova di Pietro il Grande, che aveva voluto una Accademia delle Scienze nella sua nuova capitale, che aveva fatto costruire da architetti italiani ed olandesi alla foce del fiume Neva. Pietro il Grande aveva voluto l’Accademia pensandola come l’istituzione che l’avrebbe coadiuvato nell’opera di modernizzazione dell’immenso paese. Voleva importare in Russia tutte le novità della scienza e della tecnologia europee e l’Accademia sarebbe stata molto utile per sottrarre la cultura russa alla ipnosi bizantina che a suo parere regnava nella vecchia capitale, cioè a Mosca. Eulero fu una delle stelle di prima grandezza, anzi la personalità scientifica più prominente dei relativamente tanti savants europei che si trasferirono in Russia. I suoi interventi a livello culturale sono contenuti in un capolavoro della letteratura divulgativa di tutti i tempi, le Lettere ad una principessa tedesca, che furono originariamente pubblicate nel 1768 a spese dell’Accademia Imperiale delle Scienze di San Pietroburgo. La Lettera 52, «a proposito della scoperta della gravitazione universale fatta dal grande Newton», presenta e consacra il mito della mela.
«La pesantezza o gravità è dunque una proprietà di tutti i corpi terrestri e anche della luna. La gravità che la spinge verso la terra rallenta il movimento della luna, allo stesso modo che la gravità rallenta il movimento di un proiettile di cannone o di una pietra scagliata con la mano. Dobbiamo questa importante scoperta a Newton. Questo grande filosofo e matematico inglese si trovava un giorno in un giardino, sdraiato sotto un melo, quando un frutto gli cadde sulla testa, offrendogli l’occasione di fare molte riflessioni. Comprese subito che era stata la pesantezza a far cadere la mela dal ramo, dopo che il vento o qualche altra causa l’aveva staccata. Questa idea sembra del tutto naturale, e qualsiasi contadino avrebbe potuto fare la stessa riflessione. Ma il filosofo inglese non si fermò qui. Pensò subito che l’albero era molto alto ; e questa osservazione lo portò a domandarsi ulteriormente se la mela sarebbe caduta se l’albero fosse stato ancora più alto; ed anche di ciò non poteva avere nessun dubbio. Ma immaginando che l’albero fosse tanto alto da arrivare fino alla luna, si trovò incerto sulla risposta da dare. Nel caso, per lui molto probabile, che cadesse (dato che non sarebbe possibile concepire un punto, nell’altezza dell’albero, dove la mela cessasse di cadere), questo frutto dovrebbe necessariamente conservare ancora una certa pesantezza capace di spingerlo verso la terra. Ma allora anche la luna, trovandosi in quel luogo, avrebbe dovuto essere sospinta verso la terra da una forza simile a quella della mela. Ma poiché la luna non cadeva affatto sulla sua testa, pensò che la ragione di ciò avrebbe potuto essere il movimento di quell’astro, allo stesso modo che una bomba può passare sopra di noi senza cadere giù verticalmente. Questo paragone del movimento della luna con quello di una bomba, lo spinse ad esaminare più attentamente le cose e aiutato dal soccorso della più sublime geometria, scoprì che la luna seguiva nel suo movimento le stesse regole che si osservano nel movimento di una bomba; di modo che se fosse possibile gettare una bomba all’altezza della luna e con la stessa velocità, tale bomba avrebbe un movimento identico a quello della luna, con la sola differenza che a quell’altezza la pesantezza della bomba sarebbe stata minore che non alla superficie della Terra… E’ quindi proprietà importantissima della Terra che tutti i corpi, non soltanto quelli che si trovano sulla sua superficie, ma anche quelli che ne sono molto lontani, almeno fino alla distanza della luna, siano dotati di una forza, la gravità, che li spinge verso il centro della Terra, forza che diminuisce via via che i corpi si allontanano dalla sua superficie. E il filosofo inglese non si fermò qui, ma, sapendo che i corpi dei pianeti sono perfettamente simili alla Terra, ne trasse la conclusione che anche i corpi posti nelle loro vicinanze sono pesanti e che la direzione di questa pesantezza tende verso il centro di ciascuno di essi. Tale forza potrà essere più o meno grande che sulla Terra, tanto che un corpo avente da noi un determinato peso potrà, trasportato sulla superficie di un altro pianeta, esservi più o meno pesante […]».
Questa Lettera datata 3 settembre 1760 presenta un discorso sulla pesantezza che, a differenza di quello di Torricelli, evidenzia il passo in avanti compiuto con la gravitazione di Newton. Torricelli era infatti ancora fermo ad una teoria primitiva, che non andava al di là della idrostatica di Archimede, utilizzata dal discepolo di Galileo come la base della «sua» teoria della pesantezza e della leggerezza.
Eulero peraltro non fu soltanto un semplice commentatore di Newton, in quanto chiarì il pensiero del suo sommo predecessore, estendendolo alla trattazione dei corpi solidi e liquidi. Inoltre rielaborò la fisica newtoniana presentandola nei termini con i quali viene presentato ancora oggi. La famosissima formula F = ma non si trova infatti nelle opere di Newton, che usava ancora la geometria dei greci antichi e la sua formulazione (sempre geometrica) del calcolo delle flussioni. Come ha recentemente mostrato Giulio Maltese3, la famosa formula è stata ricavata da Eulero, il quale, da svizzero che era, nella sua nuova patria era diventato anche ufficiale della marina russa. Si era occupato dei moti oscillatori, di rollio e di beccheggio delle navi, e studiando i relativi problemi tecnici era giunto alla formulazione che generalmente viene attribuita a Newton.
Emilio Segrè
Il premio Nobel del 1959 Emilio Segrè (1905-1989) diceva di capire benissimo i motivi in base ai quali i Presidenti degli Stati Uniti scelgono i loro consiglieri per gli affari scientifici. Secondo il parere da lui espresso, li scelgono in modo tale da ricevere i consigli che preferiscono farsi dare. Ronald Reagan scelse come suo consigliere il «falco» Edward Teller (nato a Budapest nel 1908), perché sapeva benissimo che Teller gli avrebbe dato proprio i consigli che voleva sentire, come quello di lanciare il progetto delle cosiddette «guerre stellari» nel marzo del 1983. I presidenti democratici invece scelgono di regola i loro consiglieri nelle fila delle cosiddette «colombe», fra le quali non mancano personalità di livello paragonabile a quello di Teller, come Richard Garwin (già fisico numero uno dell’IBM e noto come il miglior allievo di Fermi a Chicago), Sidney Drell (il teorico dello SLAC di Stanford particolarmente ascoltato da Bill Clinton) o Wolfgang Panovsky, sempre di Stanford.
Sia Teller che i suoi antagonisti dell’opposto partito delle «colombe» sono stati fra i maggiori protagonisti della «comunicazione» scientifica USA in termini di problematiche legate alla geopolitica degli arsenali nucleari e delle fonti energetiche. Hanno però svolto questo genere di attività rivolta al pubblico, trattando di temi di interesse generale e di portata planetaria, solo quando non erano ufficialmente impegnati come consulenti del presidente o di qualche dipartimento di Stato. Di regola infatti, un personaggio che svolge un ruolo di consulente per l’Amministrazione USA, cessa immediatamente di «comunicare» alcunché a giornali, radio o televisione (diversamente da quello che si verifica per i consulenti del governo italiano, che invece si espongono continuamente e pericolosamente, come è successo al compianto professor Marco Biagi).
Naturalmente nel periodo di black-out coincidente con la durata degli impegni presi, gli esperti scelti da Washington fanno per così dire il pieno di informazioni e di conoscenze, che poi riversano in libri, articoli, saggi, interviste o interventi televisivi non appena scade il loro incarico ufficiale.
Emilio Segrè non ha mai avuto incarichi del tipo di consigliere della Casa Bianca, perché compiti del genere sono appannaggio degli americani DOC e difficilmente vanno a personaggi emigrati ovvero diventati cittadini USA a una certa età (a meno che non si tratti di esperti di politica estera, come il notissimo Edward Luttwak, che compare svariate volte in TV da quando appunto ha cessato di lavorare come consulente dell’Ammini-strazione USA). In effetti sotto questo aspetto risalta ancora di più l’eccezione rappresentata da Teller, del quale Segrè aveva una altissima considerazione sotto il profilo scientifico, pur definendolo «un filibustiere». Teller infatti emigrò negli Stati Uniti negli anni Trenta con la diaspora degli scienziati e intellettuali europei in fuga dall’Europa (continente civilissimo quanto incline a totalitarismi vari). Teller inoltre riuscì addirittura a far prevalere la sua «linea» politica, per così dire, facendola preferire a quella di americani DOC come Julius Robert Oppenheimer (1904-1967) o il premio Nobel del 1944, Isidor Rabi (1898-1988).
All’epoca di Segrè, l’uomo di Washington a Berkeley era Glenn Seaborg(1912-1999), il chimico nucleare anch’egli premio Nobel (del 1951), che fu alla guida della Atomic Energy Commission sotto le presidenze di Kennedy, Johnson e Nixon, e fu consigliere di una schiera di presidenti, incluso Ronald Reagan.
Fra Segrè e Seaborg, che furono co-scopritori del plutonio nel 1941, vi fu sempre una cordiale antipatia, come del resto risulta dalla autobiografia di Segrè, pubblicata anche in italiano. Per gli amanti dei pettegolezzi, va aggiunto che al contrario vi fu sempre una grande simpatia reciproca fra Seaborg e Edoardo Amaldi (1908-1989).
Segrè svolse comunque una intensa attività di «comunicatore», sia pure iniziandola in tarda età, e senza potersi basare sulle esperienze accumulate con il mondo politico, ma utilizzando per così dire le sue esperienze decennali di fisico attivo prima a Roma e poi a Los Alamos e a Berkeley. Aveva infatti attraversato, nel percorso della sua vita, il periodo che aveva coinciso con l’apice della fisica europea prima della guerra, per poi passare a essere testimone e protagonista dell’emergere della scienza americana.
I libri di carattere storico scritti da Segrè nei suoi ultimi anni sono stati tradotti in italiano e riflettono tutta la ricchezza delle sue conoscenze personali. Dovendosi rivolgere a un pubblico vasto, Segrè non dimenticò peraltro quella che doveva essere la dote principale dei consiglieri dei potenti di Washington, cioè la capacità di dare proprio i consigli che i potenti si aspettano di ricevere. In effetti l’idea che sta alla base dei vari ritratti di scienziati del passato recente e di quello remoto, delineati da Segrè nei suoi libri, si trova in consonanza con una immagine degli scienziati che è abbastanza diffusa nei milieu americani e che viene presentata come una epigrafe o un motto proprio nel sito dell’American Institute of Physics, nella sezione dedicata all’Emilo Segrè Visual Archive (che contiene le numerosissime fotografie di grandi personaggi scattate nel corso di svariati decenni). Vi si legge infatti una delle massime preferite dal Nostro: «While the scientist has the specialized knowledge of his discipline, on other subjects he is pretty much prey to the same dark forces as is anybody else. His training and education may help him to overcome some of his irrational urges, but the idea that the objective, cool scientist is above the crowd is fallacious. This should be recognized by the scientists and by the public at large. Scientists are not priests of a magic religion».
Una raccomandazione del genere infatti ha ogni probabilità di essere raccolta e condivisa se viene rivolta a un mondo come quello degli USA, già di per sé caratterizzato da una mentalità pragmatica e avvezzo ad apprezzare i risultati pratici e le ricadute della scienza in direzione della tecnologia.
Una predica siffatta avrebbe invece qualche difficoltà a essere ascoltata e condivisa da intellettuali di stampo illuministico-europeo o da scienziati abituati a sottolineare il valore intrinseco e culturale dell’impresa scientifica (come per esempio il sopra ricordato Edoardo Amaldi). Bisogna poi aggiungere che Segrè ha messo in pratica la sua idea con i suoi due libri sui personaggi della storia della fisica classica e quantistica, come pure nella sua torrenziale autobiografia, descrivendo persone e situazioni con un tratto decisamente tagliente. Non per nulla era noto in vita come «il basilisco» ed è rimasto fedele alla sua fama anche in veste di memorialista e saggista. Non vi è infatti nessuna reverenza nei vari ritratti contenuti nei libri di Segrè, che indichi una qualche considerazione di tipo illuministico o razionalistico, legata al ruolo dei vari personaggi in relazione al progresso dei lumi o al dispiegamento della razionalità nella storia. Vi si trovano invece caratterizzazioni schiette, per non dire crude, di persone che forse non avrebbero gradito che la loro memoria fosse tramandata nei termini usati appunto da Segrè. Ma questa è sempre stata una caratteristica dell’autore, che si riflette inevitabilmente anche nei suoi scritti.
Piotr Kapitsa
Il massimo «comunicatore» della scienza in epoca sovietica è stato il premio Nobel del 1978 Piotr Kapitsa (1894-1984). Ha scritto diversi volumi di saggi su argomenti relativi alle fonti di energia e alla questione degli armamenti nucleari, che sono stati tradotti in moltissime lingue fra le quali anche l’italiano. Non fece mai parte del partito comunista né delle istituzioni dell’ex-URSS, ma esercitò una strenua azione politica, scrivendo un’impressionante serie di lettere ai potenti dell’URSS, incominciando da Stalin e finendo con Brezhnev.
L’ambizione di Kapitsa era che il partito riconoscesse un ruolo nella gestione della società socialista anche alla comunità scientifica. Soleva fare un paragone che era storicamente sbagliato, ma dava comunque l’idea. Paragonava infatti il nuovo zar, cioè il partito, a Pietro il Grande, il quale a suo parere aveva associato nella gestione dello stato, anche i massimi pope della Chiesa ortodossa. Kapitsa suggeriva appunto che il nuovo zar si servisse delle idee e delle proposte degli scienziati, che avrebbero dovuto così ricoprire il ruolo che un tempo avevano i pope. Storicamente si sbagliava perché furono gli zar moscoviti dell’epoca precedente a Pietro il Grande ad appoggiarsi all’alto clero. Mentre Pietro si costruì una nuova capitale come San Pietroburgo, sulle rive della Neva, proprio per liberarsi della influenza dei pope della Chiesa ortodossa, il cui centro nevralgico stava appunto a Mosca.
In ogni caso il partito non riconobbe mai un ruolo specifico alla comunità scientifica, e neppure riconobbe alcuna specificità particolare alla cultura scientifica.
L’interpretazione della realtà e della storia, delle leggi del progresso e della società restavano infatti rigorosamente una esclusiva degli ideologi interpreti ufficiali dei «classici» del marxismo (Marx, Engels, Lenin e Stalin) e ispiratori della politica culturale del partito stesso. Il PCUS non ammise mai l’esistenza di una «razionalità scientifica», o di criteri «scientifici» ai quali dovesse uniformarsi la sua azione al di fuori delle linee stabilite dal Politburo (e dal KGB). L’illusione di Kapitsa, secondo la quale sarebbe stato possibile un compromesso fra la «razionalità» della scienza e le ragioni del partito, era destinata a rimanere tale.
Del resto, durante tutta l’epoca sovietica non vi fu mai in URSS nulla di simile alla philosophy of science di tipo occidentale, vista come un tentativo di distillare i criteri della razionalità scientifica e di applicarli a settori anche più vasti. Secondo l’orientamento della ideologia ufficiale, non vi era in realtà nessuna razionalità intrinseca alla scienza e, ammesso che vi fosse, non vi era la minima intenzione di valorizzarla.
Compito della comunità scientifica era di spingere soprattutto verso le applicazioni tecnologiche, in modo da coadiuvare efficacemente l’azione volta alla costruzione della società socialista. Venivano quindi scoraggiate le speculazioni sui cosiddetti fondamenti della scienza, che evidentemente venivano visti come un lusso e un gioco intellettuale superfluo. Le iniziative sul piano intellettuale portate avanti dai filosofi di partito, armati del cosiddetto «materialismo dialettico» di staliniana memoria, erano funzionali a questo tipo di politica. Gli ideologi del diamat (il materialismo dialettico) scendevano infatti in campo ogni volta che i potenti del complesso militare industriale volevano richiamare gli scienziati a una maggiore attenzione ai problemi dell’industria e della produzione socialista. Questa fu sempre la funzione «culturale» svolta dai filosofi del diamat, quando attaccavano gli scienziati servendosi di formulette filosofiche elementari tratte da uno dei classici del marxismo, il sodale di Marx, Friedrich Engels. Alcuni decenni fa un gruppo di intellettuali prestigiosi, sotto la guida di Ludovico Geymonat, ha proposto una rilettura e una rivalutazione dei filosofi del materialismo dialettico, dando vita a un’operazione «culturale» che oggi appare grottesca e ridicola alla luce di quanto gli storici russi di oggi hanno messo e stanno mettendo abbondantemente in evidenza. Ma non tutto era male nel cosiddetto «impero del male»: basti pensare all’altissimo livello raggiunto dalla divulgazione scientifica. Nell’era sovietica vi fu un’impressionante produzione di saggi storici e divulgativi, che realizzarono una eccellente «comunicazione» fra la comunità scientifica e il grande pubblico. Incidentalmente, è singolare notare come la grande letteratura divulgativa sovietica sia stata abbondantemente ignorata dalla intelligentsiia editoriale italiana, che pure era ed è politicamente schierata a sinistra.
Nella realtà concreta, la comunità scientifica sovietica aveva a che fare con una classe dirigente politica durissima, ambiziosissima ed esigentissima, alla quale doveva rendere conto delle sue azioni, dei suoi fini, dei suoi progetti e soprattutto delle sue realizzazioni pratiche. Ogni direttore di ricerca o di istituto era di fatto in balia degli organi direttivi del partito e del KGB, delle cellule regionali e cittadine, delle cellule di quartiere e di istituto. Era giocoforza dunque spiegare in modo chiaro e comprensibile anche al più decerebrato membro del partito, le attività e i risultati dell’impresa scientifica. Sottoposti a una fortissima pressione di questo tipo, gli scienziati dell’era sovietica hanno sviluppato l’arte della divulgazione a livelli semplicemente eccelsi. Era poi consigliabile agli scienziati che si dedicavano (e dovevano dedicarsi) alla divulgazione, spiegare al popolo quello che il loro gruppo o il loro dipartimento stava facendo, evitando di divagare su temi troppo astratti e «culturali». Per esempio, un professore universitario di calcolo delle probabilità era tenuto a spiegare al popolo l’utilità della «sua» matematica ai fini della edificazione della società socialista. Se avesse cercato di divagare su argomenti di storia della matematica greco-antica, sarebbe stato immediatamente spedito in qualche angolo dell’immenso paese a rinfrescarsi le idee; peraltro negli anni Trenta il KGB maltrattò, mise in prigione e mandò alla fucilazione matematici ben più illustri di Lucio Russo. Per fare un altro esempio, il responsabile di un centro di ricerca per le applicazioni industriali della fisica del plasma avrebbe fatto bene a spiegare al popolo appunto le applicazioni industriali del plasma. Se avesse cercato di divagare, spostando il discorso sugli extra-terrestri o altre vaghezze prive di concretezza pratica ai fini dell’industria, sarebbe stato immediatamente spedito in qualche lontano villaggio a insegnare l’ABC, con la chiusura del centro di ricerca da lui diretto. Era però interesse dello stato sovietico dotarsi di un armamento nucleare e missilistico, basato sull’alta tecnologia ed era quindi necessario attirare i giovani a questo genere di studi, che peraltro aprivano le porte ai privilegi della nomenklatura. Negli anni Settanta Piotr Kapitsa e l’illustre matematico Andrej Kolmogorov ebbero via libera dando vita alla rivista Kvant, dedicata alla pedagogia delle scienze esatte. La rivista era (ed è) di eccelsa fattura e ai tempi d’oro vendeva sulle 700mila copie.
Presentava articoli e zadaci o problemini di grande originalità e ingegnosità. La parte della fisica venne curata in particolare da Isaak Kikoin (1908-1984), che era un fisico dei solidi e un uomo di fiducia di Igor Kurciatov (1903-1960), cioè del responsabile scientifico dei programmi nucleari dell’URSS.
Oggi la rivista sopravvive vendendo sulle 25mila copie, pur mantenendo un invidiabile livello di eccellenza. L’editore tedesco Springer curava fino a poco tempo fa la versione inglese della rivista medesima, ma le vicissitudini dell’editoria tedesca (evidenziate nella recente crisi di Leo Kirch) hanno indotto Springer a cessare le pubblicazioni della traduzione inglese di Kvant l’estate scorsa.
Andrei Varlamov è un fisico specialista delle bassissime temperature, allievo di Abrikosov della scuola di Mosca. Ha lasciato la cattedra che ricopriva all’Istituto dei metalli e delle leghe di Mosca e recentemente è emigrato, come tanti altri, diventando Primo Ricercatore alla sezione dell’Istituto di Fisica della Materia di Roma-Tor Vergata. Varlamov in precedenza era stato vice-direttore per la parte fisica della rivista Kvant, quando la dirigeva Osipian. Ha quindi sempre avuto interesse per la divulgazione e la didattica, testimoniata anche dal suo libro Fisica, che meraviglia, pubblicato in italiano dalla Goliardica Pavese.
Varlamov si mantiene in contatto con i numerosi membri della diaspora tecnico-scientifica russa ed è intenzionato a rilanciare sul piano europeo la rivista Kvant proponendone la traduzione in qualcuna delle lingue europee.
L’eccellenza della «comunicazione» della scienza in versione sovietica si limitava a chiarissime spiegazioni dei principi e delle leggi fondamentali, nonché all’impegno in senso didattico di scienziati prestigiosi, protagonisti di primo piano della ricerca come appunto Kapitsa e Kolmogorov. Non vi era invece alcuna «comunicazione» per quanto riguardava le applicazioni tecnologiche, le quali, essendo in maggior parte di natura militare, erano coperte dal segreto. Nella nuova situazione che si è venuta a creare dopo la caduta dell’URSS, rimangono sempre limitazioni legate al segreto militare, ma la «comunicazione» ha cambiato registro, diventando molto meno «pedagogica» e molto più tecnologica e orientata al business. Si è quindi avuto un adeguamento agli standard occidentali, dove prevale l’aspetto per così dire pubblicitario e promozionale legato alla ricerca dei finanziamenti. Per rendersene conto basta cliccare sul sito della agenzia InformNauka, che peraltro è legata a una delle più prestigiose riviste di informazione e divulgazione scientifica. La rivista mensile Priroda, curata direttamente dall’Accademia delle Scienze, mantiene tuttora standard elevatissimi nonostante le difficoltà.
Richard Feynman
Il premio Nobel del 1965, Richard Feynman (1918-1988) fa pure parte della ristretta élite dei comunicatori famosi. Va però ricordato che pur essendo il personaggio che era, esuberante e anti-conformista, era sempre rimasto quello che gli americani chiamano a physicists’ physicist, cioè uno scienziato la cui fama era per lo più diffusa nell’ambiente degli addetti ai lavori e a una cerchia di amici e ammiratori decisamente ristretta.
Il suo famosissimo trattato, noto appunto come La fisica di Feynman lo aveva reso una celebrità a livello nazionale e internazionale nel mondo della fisica. In realtà poi le sue lezioni, tenute al mitico Caltech di Pasadena, erano frequentate più da colleghi e da insegnanti che dagli studenti dei primi anni ai quali erano rivolte. Non per nulla Segrè diceva che la fisica di Feynman era un «libro per professori». Gli studenti dei primi anni, i cosiddetti undergraduate, infatti trovavano le sue lezioni molto brillanti, ma anche piuttosto faticose da seguire. Al di là del tono scherzoso, infatti, la sostanza dei discorsi svolti da Feynman anche su argomenti di fisica, per così dire, da primo biennio, era ed è piuttosto impegnativa. Come detto, quelli che più apprezzavano le lezioni di Feynman erano gli studenti avanzati o degli ultimi anni, gli insegnanti e i colleghi di Feynman stesso, cioè i professori del Caltech, i quali, caso più unico che raro, non si perdevano una lezione.
In altri termini, la sua capacità di comunicatore era apprezzata sì, ma non certo a livello di grande pubblico. Neanche le raccolte di aneddoti e di episodi divertenti, veri o inventati, della avventurosa vita dello scienziato, riuscirono a dilatare la fama del Nostro al di là dei confini dei campus. In realtà Feynman divenne anch’egli un personaggio pubblico solo grazie alla politica e a Washington, quando venne chiamato a far parte della commissione incaricata di indagare le cause del disastro del Challenger del 1986. Il suo racconto dell’esperienza nella capitale è rimasto negli annali della storia della «comunicazione» fra due mondi lontani e soggetti a dettami e leggi non sempre compatibili fra di loro. Da un lato vi è infatti il mondo della scienza e dell’istruzione, abituato ad approfondire e a meditare i problemi e le loro soluzioni, con i tempi necessari e i criteri che vengono ritenuti i più adatti. Dall’altro lato, il mondo della politica è da sempre abituato a tenere conto dei riflessi immediati sull’opinione pubblica ed è perennemente condizionato dall’eterno gioco di strumentalizzazione reciproca con stampa e TV. Il racconto fatto da Feynman della sua esperienza nella capitale rimane un documento se non unico, certo molto significativo della incomunicabilità e della estraneità che spesso si manifesta nelle relazioni fra il mondo della scienza e quello della politica e della comunicazione.
© Pubblicato sul n° 14 di EMMECIquadro