Qualche minuto dopo mise piede sulla Luna anche Edwin Aldrin, che tutti chiamavano Buzz (al punto che Aldrin nel 1988 ha deciso di fare ufficialmente del nomignolo il suo primo nome). Michael Collins il terzo astronauta della missione Apollo 11 era in orbita intorno al pianeta a bordo del Columbia, la capsula madre, e lì sarebbe rimasto perché a lui toccava recuperare i due compagni allunati. L’unico a non vedere del tutto – neanche in tivù… – lo storico allunaggio fu proprio Collins, nato a Roma, al numero 16 di via Tevere, durante il periodo in cui il padre lavorava all’ambasciata statunitense in Italia. Insieme ad Armstrong e Aldrin era partito dalla base aerospaziale di Cape Canaveral, in Florida, il 16 luglio (lì erano le 8.32, nel nostro Paese le 15.32): alla sommità del grande razzo Saturno 5, stava il terzetto di astronauti, rinchiuso nell’astronave Columbia, che aveva un modulo agganciato anteriormente – il Lem, soprannominato Aquila – con cui sarebbe avvenuto l’allunaggio.
La prima diretta.
«Reached land» dissero gli ingegneri della Nasa che seguivano l’impresa dalla base di Houston, in Texas; «Ha toccato!» urlò Tito Stagno che da ore intratteneva i venti milioni di telespettatori italiani che, insonni, la notte del 21 luglio 1969, seguivano la prima interminabile diretta della storia della televisione. La telecronaca della missione Apollo 11 durò trenta ore: pare strano ma l’unico momento a non venire trasmesso in diretta fu proprio l’atterraggio. Cosa che provocò un incidente curioso e un litigio in diretta tra Tito Stagno, il giornalista che stava negli studi della Rai, a Roma, e Ruggero Orlando, il collega inviato a Houston. Mentre Stagno esultava – «Ha toccato!», disse quando l’Aquila allunò – Orlando lo smentì: «No, non ha toccato. Mancano ancora dieci metri». Cosa successe? Stagno non vedeva le immagini – per dodici minuti non ci fu diretta video – ma grazie alle cuffie che indossava poteva sentire tutto ciò che dicevano i tecnici nella base di Houston: appena venne annunciato l’allunaggio, tradusse immediatamente e fedelmente la frase. E il bello è che mentre i due discutevano in diretta nessuno, in Italia, sentì Armstrong che annunciava: «Houston, qui è la base della Tranquillità. L’Aquila è atterrata».
L’astronauta: bisogna sempre volare alto.
Io vorrei andare sulla luna per esplorare, per vedere se ci possiamo restare, se possiamo utilizzarla anche come base per altre esplorazioni. Il futuro va pensato ora». Il capitano Luca Parmitano, 33 anni, questo sogno potrebbe anche realizzarlo. Lui è un pilota sperimentatore, ed è stato appena scelto su diecimila candidati dall’Esa (l’ente spaziale europeo) insieme a un’altra italiana, Samantha Cristoforetti, per volare nello spazio. «Ma per arrivare a questo punto c’è voluto tanto studio e impegno» dice Parmitano che arriva da Catania, è sposato, ha una bimba di tre anni e un altro bebé in arrivo. «Già a tre anni quando vedevo un aereo dicevo che volevo volare – racconta – poi vedevo in tv gli Shuttle che partivano e ho deciso di fare l’astronauta».
Già, ma come si fa? «Sono entrato nell’Accademia aeronautica per diventare pilota di jet. Quando c’è stato il concorso dell’Esa per diventare astronauta ho fatto tante prove psicologiche, tecniche e di conoscenza di matematica, fisica, ingegneria e inglese. E poi la visita medica. Bisogna essere in forma».
A settembre Luca andrà in Germania e anche negli Stati Uniti per l’addestramento. «I tempi sono lunghi, due anni e mezzo di corso e poi si farà un addestramento specifico per partire in missione». Bisogna essere preparati bene e a tutto. «Le prove più particolari? Stare su un aereo che fa delle picchiate velocissime per simulare l’assenza di gravità oppure l’addestramento in grandissime piscine con dentro una copia della navetta spaziale. O stare dentro le grandi centrifughe che riproducono l’accelerazione dello shuttle». Poi, si è pronti per volare nello spazio e chissà, magari sulla Luna. «Per fare l’astronauta bisogna essere solo persone normali, ma con sogni molto alti».
Poi nessuno ci penso più.
Abbiamo camminato sulla Luna, ma poi che è successo? Popotus Lo abbiamo chiesto a Marco Bersanelli, che insegna Astronomia e Astrofisica al Dipartimento di Fisica della Statale di Milano.
Come mai professore non abbiamo oggi una colonia sulla Luna?
Negli anni 60 era in gioco la supremazia fra Stati Uniti e Russia, arrivare per primi sulla Luna era una questione di prestigio, un segno di supremazia. E certo anche un passo simbolico per l’umanità, per l’innata tensione a conquistare le vette più alte. In realtà dal punto di vista della conoscenza, camminare sulla Luna non ha portato granché di nuovo. Per questo, una volta piantata la bandiera americana, per anni nessuno ha più pensato di tornarci. Di sicuro il programma Apollo diede un grande slancio allo sviluppo di nuove tecnologie che poi sono state utilizzate altrove.
Ma è davvero necessario inviare l’uomo nello spazio?
Far sopravvivere l’uomo nello spazio è difficile e costosissimo, e per il momento non aggiunge molto alle nostre conoscenze. Penso che nel prossimo secolo si preferirà inviare satelliti con strumenti, anche robotizzati, che svolgono lavori al posto dell’uomo. Poi si vedrà…
Missioni come quella del lancio di Planck…
Planck è un satellite che ha richiesto 17 anni di sviluppo. Lanciato il 14 maggio, è il più potente telescopio a microonde mai concepito e guarderà ai confini estremi dello spazio e del tempo. Coglierà un’immagine nitidissima dell’universo appena nato, quando la sua età era solo lo 0,003% di quella attuale. Adesso si trova a un milione e mezzo di chilometri dalla Terra. È lì per tutti noi alla scoperta delle origini dell’universo.