Il caso Galileo ancora ostaggio dell’ideologia

Benedetta CappelliniRassegna Stampa

Avvenire, 3 giugno 2009
Nell’estate del 1938 usciva a Monaco di Baviera, per le edizioni Arbeitsgemeinschaft für Zeitgeschichte, un libro intitolato «Galilei und die Inquisition» (‘Galilei e l’Inquisizione’) a firma di Ludwig Bieberbach. L’autore (1886-1982), segretario dell’Associazione dei matematici tedeschi dal 1921 al 1935, una delle menti scientifiche più timate della Germania di allora, era diventato non di meno un entusiasta sostenitore di Hitler e leader della Deutsche Mathematik – una corrente di studiosi che teorizzava scientificamente la superiorità della mente matematica ariana su quella ebraica – fino al coinvolgimento diretto nella persecuzione dei due matematici ebrei Issai Schur (già coautore di un’opera con Bieberbach stesso) e Edmund Landau. Il suo pamphlet del 1938 aveva un destinatario polemico ben preciso, la Chiesa cattolica, che dopo un’ostilità crescente nei confronti del nazismo, con l’enciclica «Mit Brennender Sorge» del marzo 1937 e la condanna delle teorie della razza aveva arrecato un vulnus che doveva essere vendicato. Poche settimane prima della pubblicazione, Bieberbach aveva presentato il suo manoscritto al dipartimento per gli affari ecclesiali del ministero della Propaganda guidato da Joseph Goebbels, ricevendo un’ammirata accoglienza (tradottasi poco dopo in una cascata di recensioni laudatorie, fino a quella somma sull’edizione viennese del Völkischer Beobachter). L’uso del caso Galileo come esempio di una endemica ottusità del Vaticano di fronte ai progressi della modernità – della biologia nel caso della questione razziale, per cui «la Chiesa di oggi non ha più rispetto per la scienza di quanto ne abbia avuto in passato» – e di una curia romana niente affatto «interessata alla religione e alla verità, ma solo al potere» era musica per i gerarchi dei Reich. Il successo del «Galileo» di Bieberbach, ripercorso dallo storico della matematica Volker R. Remmert al convegno sullo scienziato pisano che si è tenuto nei giorni scorsi a Firenze, è solo uno degli infiniti esempi, nel corso dei secoli, di trasfigurazione mitica e strumentalizzazione ideologica dell’annosa vicenda seicentesca.

Dal fascino spesso irresistibile per anticlericali di piccolo e grande cabotaggio. Stupisce pertanto che anche un intellettuale della statura di Adriano Prosperi, in un articolo uscito sabato su «Repubblica» (Se la Chiesa processa gli eretici oggi») e nella tavola rotonda che ha chiuso i cinque giorni di lavori fiorentini, non abbia resistito dal riproporre, mutatis mutandis, pressoché tutti i luoghi comuni propagandati dal blasonato intellettuale del Reich prendendo a pretesto il caso Galileo: dalla responsabilità del Vaticano nel cronico ritardo dell’Italia rispetto alle conquiste della modernità, dall’incoercibile vizio della Chiesa ad occuparsi di potere più che di semplice e autentica fede, ai «tentativi che ancora si fanno da noi di imporre vincoli di legge a chi cura gli immigrati, i malati, i morenti», ovviamente del tutto omogenei all’affare Galileo. Il tutto, in realtà, non stupisce più di tanto. Resta tuttavia il dispiacere per come sembri ancora ostico da parte di non pochi ‘laici’ – lo si intravede anche dietro accostamenti a dir poco surreali di questioni storicamente e concettualmente del tutto estranee fra loro – prendere atto, serenamente, dello sforzo di revisione e purificazione della memoria compiuto da parte cattolica. E, trattandosi qui di uno storico accademico dei Lincei, allievo di Cantimori e Saitta, il dispiacere per come una volta di più il detto «historia magistra vitae» si riveli, più che un detto sapienziale, una consolante illusione.