Motivo: l’International Year of Astronomy, l’anno dell’astronomia, quattrocento anni dopo l’invenzione del cannocchiale, o meglio, dell’uso che ne fece Galileo puntandolo verso il cielo. È immediato, allora, ripensare all’opera che diede chiara fama in tutta l’Europa di inizio XVII secolo a questo scienziato: proprio nel Sidereus nuncius, infatti, lo studioso pisano, che amava definirsi fiorentino per via dei suoi avi, consegnò al grande pubblico i risultati delle sue prime osservazioni, fatte con il perspicillum, il cannocchiale.Ci sono testi, nella storia del pensiero, che possono essere considerati emblematici, come atti ufficiali per segnare la nascita o almeno l’adeguata identificazione di una disciplina: l’Organon di Aristotele per la logica, gli Elementi di Euclide per la geometria dello spazio, i Principia di Isaac Newton per la meccanica, The sceptical chymist di Robert Boyle per la moderna chimica, Una teoria matematica della comunicazione di Claude Shannon per la teoria dell’informazione, The realm of the nebulae di Edwin P. Hubble per la cosmologia osservativa e così via. Il Sidereus nuncius, l’atto ufficiale di nascita dell’astronomia in senso moderno, poiché documenta i risultati acquisiti mediante l’uso di uno strumento quale il telescopio. Non che prima non si facessero osservazioni, anzi: la trigonometria tolemaica è ispirata alle osservazioni celesti. Ma il telescopio permise a Galileo di andare oltre, di vedere cose non visibili a occhio nudo e non comprensibili entro quadri teorici classici di riferimento.Il dibattito su tematiche cosmologiche era già stato avviato nel secolo precedente, soprattutto in relazione al problema della natura delle comete e della fluidità dei cieli. Le osservazioni delle comete del 1577, del 1585 e delle novae del 1572 e ancora nel 1604 avevano riacceso le discussioni. Si può dire che tra il Cinquecento e il Seicento si fossero avanzate ipotesi cosmologiche di vario tipo, cercando di ridefinire concetti come lo spazio, la materia, il mondo e i mondi. Il cielo era investito di tanti significati, e di diverso segno era lo sguardo a esso rivolto da Ficino, Brahe, Rothmann, Palingenio, Patrizi, Bruno.La partita, insomma, tra modelli alternativi di universo era ancora tutta da giocare. E un protagonista indiscutibile di questa partita fu senz’altro il cannocchiale, il perspicillum. È questo il termine che Galileo fa comparire nel frontespizio del Sidereus nuncius: perspicillum,a indicare ciò che noi, impropriamente, traduciamo con “cannocchiale”, e che invece, nella dizione originale, reca in sé un’abbondanza semantica sulla quale conviene soffermarsi brevemente.Perspicillum, da perspicio, che indica un guardare in profondità, penetrando con lo sguardo la realtà, senza che essa si sottragga a noi ma, anzi, ci si consegni in un atto di prodiga fiducia. Il termine “cannocchiale” non trattiene questa sensibilità semiologica: cannocchiale rimanda proprio ai tratti esteriori di questo oggetto – una canna, un tubo, una lente, un occhiale – come se in esso ci fosse la capacità di rappresentazione del solo aspetto esteriore delle cose. Ma con il perspicillum la pretesa è di fare qualcosa di più, probabilmente: probabilmente ci si vuole assicurare la capacità di conquistare l’intimità degli oggetti celesti.Vorrei allora ripercorrere brevemente i contenuti del volume al centro dell’evento che oggi ci trova riuniti in questa prestigiosa sede, per consentire a tutti noi – in primis a chi questo testo non lo avesse ancora letto – un’occasione di incontro con le pagine di uno scienziato di fama indiscutibile. Non si può che iniziare dal profondo sentimento di meraviglia provato da Galileo di fronte alle straordinarie cose svelate dal perspicillum, meraviglia consegnata già al frontespizio del volume (pp. 78-79):Sidereus nuncius, magna, longeque admirabilia spectacula pandens, suspiciendaque proponens unicuique, praesertim vero Philosophis, atque Astronomis, que a Galileo Galileo.Dunque un annuncio, un messaggio – non un messaggero – un nuncius sidereus, ovvero celeste, ma anche lucente, scintillante, di bellezza divina. E tutta questa bellezza Galileo vuol mostrare ad astronomi e filosofi, suspicienda, nella doppia valenza, in italiano non percepibile, di un guardare che racchiude un contemplare, ma anche un ipotizzare, un supporre.E dalle prime alle ultime pagine – ventinove carte, per la precisione – lo stupore emerge da sé: se pur si potrebbero scorgere motivi barocchi tipici del tempo, tutta la meraviglia che emerge fin dal frontespizio non sembra motivata da artifici retorici, bensì generata dai contenuti che fanno traboccare oltre i confini consentiti dalla scrittura questa magnificenza. Ciò non stona affatto con l’immagine del Galileo poeta, data già nel Settecento da Antonio Conti, e poi ripresa; immagine che trova conferma in altri scritti di Galileo quali ad esempio il Dialogo.
Ma le sorprese contenute nel Sidereus sono tutte anticipate già nel frontespizio che abbiamo cominciato a leggere: la faccia della Luna, non più liscia e levigata ma inaequalem, asperam, cavitatibus tumoribusque confertam (pp. 96-97) e che Galileo riproduce nelle prime “carte” lunari; il moltiplicarsi delle stelle fisse e lo svelarsi della Via Lattea, ora con certezza e senza alcun dubbio, come una congerie di stelle invisibili a occhio nudo; e infine, appunto, la scoperta più sorprendente: l’osservazione di stelle ruotanti attorno al pianeta Giove. Buona parte del Sidereus è dedicata a descrivere le posizioni di queste stelline, con precisione, con premura, e con delusione quando dichiara di aver dovuto rinunciare alle osservazioni a causa di condizioni meteorologiche non idonee.
Già dal 1592 Galileo lavorava presso l’università di Padova, ma sperava di potersi fermare, e dedicarsi a quell’otium necessario per concludere tanti lavori avviati. L’occasione non tardò a giungere proprio in seguito al suo Sidereus: Cosimo ii de’ Medici, del quale era stato precettore, lo chiamò a Firenze a ricoprire il ruolo di “primario filosofo e matematico del Granduca”. D’altra parte è a Cosimo, nome latino Cosmo, che aveva dedicato l’opera. In questa dedica, contrariamente allo stile dominante, emerge l’adulazione, forse l’artificio: Galileo paragona il nome del Mecenate ai grandi divini dell’antichità che hanno riempito il cielo con i loro nomi. A fianco di Marte e di Ercole, accanto all’astro Giulio al cielo sarà aggiunta una trama: quella intessuta dai nuovi astri, quattro stelle che Galileo aveva scoperto esserci intorno a Giove, apparse proprio quando – cito – “sulla Terra hanno incominciato a risplendere le bellezze immortali dell’animo suo” (pp. 82-83).
Soffermiamoci su qualche celebre e suggestivo passaggio: il Sidereus nuncius è, per eccellenza, il libro della Luna. Galileo vi riporta alcuni dei suoi disegni della faccia lunare: ancora non possiamo parlare di vere e proprie “mappe”, ma certamente prepararono la strada alla selenografia poiché sapevano interpretare correttamente le configurazioni presenti sulla superficie lunare. Prima di leggere Galileo, vorrei far notare che tre anni dopo la pubblicazione del Sidereus, era ancora accreditata la teoria di Aguilon, che riprendeva Clearco dicendo che la Luna era una specie di specchio e le sue macchie oggetti esterni da essa riflessi. Galileo descrive i movimenti della luce e dell’ombra sul disco lunare, e li confronta con quanto avviene sullaTerra al sorgere del Sole (p. 99).
“Ma un aspetto simile abbiamo sulla Terra verso il sorgere /
del Sole quando, non essendo ancora le valli inondate di luce, /
vediamo quei monti che le circondano dalla parte opposta al /
Sole ormai splendenti di luce: e come le ombre delle cavità terrestri, /
man mano che il Sole si innalza, diminuiscono, così anche /
queste macchie lunari, con il crescere della parte luminosa perdono /
le tenebre”.
È lo stesso paragone che faceva già Dante nel i canto dell’Inferno:
“Ma poi ch’i’ fui al piè d’un colle giunto, /
là dove terminava quella valle / che m’avea di paura il cor compunto, /
guardai in alto e vidi le sue spalle / vestite già de’ raggi del pianeta /
che mena dritto altrui per ogne calle”.
Quei chiaroscuri sono dunque monti e valli, cavità e anfratti. In via definitiva Galileo chiudeva la strada a quanti ritenevano la Luna un oggetto celeste dotato di luce propria. Molti secoli prima era stato Parmenide a esprimere questa idea ricorrendo a una immagine plastica affascinante (Poema, fr. 14 e 15 ):
“Luce allotria, splendente di notte, vagante intorno alla terra /
Sempre occhieggiante ai raggi del sole”.
Ora Galileo lasciava che questo “occhieggiare” della Luna fosse sorretto da prove comprensibili a tutti. Il raffronto della Luna con la Terra continua:
“Anche un’altra cosa, che non senza una certa meraviglia ho /
notato, non voglio tralasciare: che il luogo quasi centrale della /
Luna è occupato da una cavità maggiore di tutte le altre e di figura /
perfettamente rotonda: scorsi questa vicina ad entrambe /
le quadrature e per quanto mi fu possibile cercai di riprodurla /
nelle seconde figure: essa presenta, per quanto riguarda l’adombramento /
e l’illuminazione, lo stesso aspetto che sulla Terra la /
regione consimile della Boemia offrirebbe, se fosse chiusa da /
ogni parte da monti altissimi e disposti perfettamente in circolo; /
nella Luna infatti è circondata da così alte cime che la regione /
esterna, confinante con la parte
tenebrosa della Luna, si scorge /
illuminata dalla luce del Sole, prima che il limite tra la luce e /
l’ombra raggiunga la linea mediana della stessa figura”. (p.109)
Colpisce il paragone con la Boemia, probabilmente esibito dopo aver sfogliato l’edizione Ruscellai della Geografia di Tolomeo, in un’epoca nella quale l’interesse per la cartografia era forte, in seguito alle nuove scoperte geografiche. Ma Galileo pretende di misurare le altezze dei monti.
Galileo aveva già dimostrato la sua abilità a gestire altezze e profondità nella celebre lezione sull’Inferno dantesco, tenuta all’Accademia Fiorentina nel 1588, occasione in cui andava a calcolare dimensioni esatte e profondità dell’Altromondo dimostrando di conoscere assai bene la geometria solida archimedea. Poteva dunque pensare di riguadagnarsi il favore dei lettori proponendo analoghe misurazioni.
E ancora, Galileo rende esplicita la ragione di quel fenomeno oggi conosciuto come “luce cinerea”:
“questa, seconda /
(per così dire) luminosità della Luna è tanto più grande /
quanto meno questa dista dal Sole; con l’allontanarsi da esso /
diminuisce sempre più” (pp. 120-121).
Dopo aver descritto la Luna, Galileo passa alle nebulose e soprattutto a quella che considera la scoperta più grande: i satelliti di Giove. (…) Sembra che voglia rassicurare il lettore, poiché tutto è (e deve essere) chiaro e comprensibile, non solo sotto l’occhio del telescopio ma anche agli occhi della mente. Rievocano, questi paragoni, l’uso che, agli esordi del ragionamento scientifico, il Milesio Anassimene faceva delle metafore, come quando per rappresentare il movimento delle stelle in cielo confrontava quest’ultimo ad un berretto, che si fa girare sulla testa.
È diretto, chiaro, immediato Galileo; e questo ovviamente piacque molto sulle prime. Appena il volumetto fu stampato a Venezia presso Tommaso Baglioni in sole 550 copie, ci fu una vera e propria “corsa all’acquisto”: e dal 13 marzo, data di pubblicazione, alla fine di quello stesso mese di copie in vendita non se ne trovavano più. Inutile sottolineare l’impatto e la provocazione che questi risultati di Galileo esercitarono sugli intellettuali del suo tempo. Se è credibile l’idea che nelle sue osservazioni celesti Galileo si sia avvalso di modelli già disponibili – la psicologia della Gestalt porterebbe a dire, per esempio, che la Luna che Galileo vide fu precompresa grazie alla descrizione che Plutarco stilò nel De Facie in orbe Lunae – d’altra parte il cielo era reputato “altro” dalla Terra. Non serve arrivare a citare le reazioni degli aristotelici e di quanti rifiutarono anche di porre l’occhio al perspicillum: basti pensare al carico emotivo riversato nei cieli, tanto più in epoca rinascimentale quando agli astri veniva vincolato il destino degli uomini.
Galileo sapeva che avrebbe suscitato clamore, se non vero e proprio scalpore. Fino a quel momento aveva lavorato principalmente come matematico, e la sua stessa Cosmografia era un’esposizione convenzionale del geocentrismo tolemaico. Con quest’opera lo scienziato pisano usciva allo scoperto. Così Galileo fu interpellato da tanti intellettuali, e iniziò a volte un vero e proprio confronto – ad esempio con Keplero, che si produsse nella celebre Narratio de observatis a se quatuor Iovis satellibus dichiarando coerenti le nuove scoperte con la nuova astronomia copernicana – altre volte una vera e propria battaglia, come con un allievo del Magini, Martino Horky, autore di una Brevissima peregrinatio contra Nuncium Sydereum.
Ed ancora Roffeni, i Padri del Collegio Romano, Sizzi e Lagalla. Ci fu persino un tentativo di plagio, da parte di Mayr con il suo Mundus Juvialis.
Mentre ancora infuriava la polemica, le scoperte di Galileo non erano destinate a finire: le macchie del Sole, gli anelli di Saturno – che inizialmente pensò tricorporeo – le fasi di Venere. E ancora, le osservazioni di Marte e Mercurio, e la composizione della prima tavola dei moti medi di Giove. Intanto, però, il clamore era stato sollevato.
La querelle strettamente scientifica continuerà a lungo, se pensiamo che, ancora nella sua tarda età, Galileo si confrontava circa la luminosità della Luna con Fortunio Liceti, il quale riteneva che fosse una sorta di fluorescenza.