Polonia. In concomitanza con una delle periodiche grandi conferenze sul clima vengono presi d’assalto gli uffici di Washington di una delle più importanti organizzazioni ecologiste americane…
Si è svolta nei giorni scorsi a Poznan, in Polonia una delle periodiche, grandi conferenze sul clima che presero l’avvio con la Convenzione sui Cambiamenti Climatici delle Nazioni Unite di Rio de Janeiro.
I media hanno come al solito dato ampio risalto a questo evento, al quale hanno partecipato 183 nazioni, e non ci sarebbe quindi necessità di parlarne ulteriormente.
Ci ha però colpito una curiosa notizia, circolata a margine di questo evento: in concomitanza con l’apertura della conferenza, gli uffici di Washington di una delle più importanti organizzazioni ecologiste americane, la Environmental Defense Fund (EDF), sono stati invasi, per protesta, dagli attivisti di un altro gruppo ecologista, il Global Justice Ecology Project (GJEP), i quali oltre a gridare slogan e mostrare cartelli hanno anche spostato e ricollocato i mobili degli uffici della EDF. Il GJEP ha poi dichiarato di aver compiuto quest’azione simbolica per dimostrare che gli schemi di cap-and-trade della CO2 in discussione a Poznan hanno lo stesso inutile effetto che “spostare le poltrone di coperta a bordo del Titanic”.
Siamo abbastanza assuefatti alle clamorose proteste contro i governi che gruppi estremisti di varia natura compiono in occasione di importanti incontri internazionali, ma un’ azione contro un’organizzazione ambientalista ci è sembrata davvero strana. Incuriositi, abbiamo raccolto qualche informazione su queste due associazioni, scoprendo che la EDF ha una lunga tradizione, essendo stata fondata nel 1967, ed una grande influenza in America (potremmo forse paragonarla alla nostra Legambiente) avendo al suo attivo importanti risultati, quali la messa al bando del DDT. Col passare degli anni è diventata molto grande, tanto che il suo bilancio annuale è attualmente superiore agli 80 milioni di dollari.
Il GJEP è al contrario un gruppuscolo di idee piuttosto radicali e di scarse risorse finanziare, che però, guarda caso, è guidato da Rachel Smolker, figlia di uno dei fondatori del EDF. La Smolker ha dichiarato che suo padre si rivolterebbe nella tomba se vedesse quali sono oggi le posizioni assunte dalla EDF e che lo schema di commercio delle quote di CO2, al quale la EDF è molto favorevole, è “una offesa all’ambiente” e va rigettato.
Non è certo la prima volta che posizioni estreme finiscono per coincidere, ma è piuttosto curioso che il rifiuto dello schema cap-and-trade da parte del GJEP, finisca per coincidere con le posizioni degli oppositori “di destra” a qualsiasi forma di controllo delle emissioni CO2, che sono alla base del rifiuto che gli Stati Uniti hanno almeno fino ad oggi opposto all’adesione al Protocollo di Kyoto.
Ma bisogna comprendere che negli USA da un lato è ancora in pieno svolgimento una battaglia, che qui da noi in Europa sembrava conclusa da tempo (almeno prima che scoppiasse la crisi economica), per costringere una parte non indifferente dell’industria energetica, quella in particolare che utilizza il carbone, ad accettare un qualche schema di controllo delle emissioni di CO2; e cosa forse ancora più difficile da fare per costringere i contribuenti americani ad accettare tasse più alte sui loro consumi di carburante. Dall’altro lato l’ambientalismo duro e puro dei primi tempi si è trasformato esso stesso in un business di grosse dimensioni (si stima che le 11 più grandi organizzazioni ambientaliste americane abbiano un giro annuo di affari di circa 1,8 miliardi di dollari), che ha una enorme quantità di interessi comuni con l’industria montante delle energie rinnovabili. Non a caso tra i più convinti assertori della necessità di azioni di controllo sui cambiamenti climatici troviamo oggi, non solo negli USA, ma anche in Italia, le aziende legate al comparto dell’energie rinnovabili, così come le associazioni ambientaliste (da noi per esempio Legambiente, Kyotoclub, Greenpeace, eccetera) sono tra le prime a sostenere la necessità di azioni di sostegno e sussidio a favore di questo comparto industriale, che a parere di tutti a avrà bisogno ancora per molti anni di una consistente e continuativa politica di sostegno statale per consolidarsi. Un comparto, quello delle rinnovabili, che è passato in pochi mesi dagli entusiasmi e della esaltazione indotti dal caro petrolio, ai timori legati al crollo dei prezzi energetici, alla crisi economica ed, in particolare in Italia, alla decisione del governo Berlusconi di ridimensionare le detrazioni fiscali del 55% a favore di chi compiente interventi di risparmio e di rinnovo degli impianti energetici (decisioni nei confronti della quale c’è stata una immediata presa di posizione di tutto il mondo ambientalista).
Detto questo, non si può peraltro dimenticare, quali sono i problemi fondamentali dai quali tutto prende origine. Sono infatti in molti a riconoscere che il problema del riscaldamento globale, ammesso che davvero stia avvenendo per cause antropiche, proprio in quanto globale andrebbe per lo meno affrontato da tutti i paesi insieme per sperare in un qualche concreto risultato. Peraltro sono note le stime fatte da più parti che lo schema attuale del protocollo di Kyoto potrà ottenere risultati poco più che simbolici per la riduzione della CO2 atmosferica. Inoltre molti calcoli indicano che la riduzione di emissioni che sarebbe ottenibile anche con l’eventuale adesione degli USA al Protocollo di Kyoto sarebbe più che compensata dall’aumento di emissioni che la Cina sta conseguendo con la sua attuale politica di utilizzo del carbone. Non è quindi affatto detto che insistere sull’idea del contenimento delle emissioni di CO2 sia una buona idea (anche se al momento non sembrano emergere idee alternative), mentre é assodato che è molto costosa.
Bisognerebbe dunque chiedersi a chi giova, anche in Italia ed in Europa, il meccanismo di scambio delle quote di CO2: in realtà alle grosse aziende produttrici e consumatrici di energia il cap-and-trade conviene perché esse “vengono pagate per essere regolate”, e l’onere della trasformazione dei loro impianti non ricade sostanzialmente sulle loro spalle, ma su quelle dei consumatori finali. I quali nel futuro beneficeranno forse indirettamente di un sistema energetico più efficiente e meno dipendente dai combustibili fossili, ma crederanno di aver trasformato tale sistema per salvare il pianeta, in realtà forse solo per dare all’economia mondiale qualche chance in più di lavoro e di crescita altrimenti introvabile altrove.