Giovanni Caprara, Corriere della Sera Su «Science», 17 ottobre 2008
È una magnifica storia, umana e scientifica, di studenti eccellenti. E riguarda il tema più appassionante (e irrisolto) dell’origine della vita. Oltre cinquant’anni fa, nel 1953, Stanley Miller, timido allievo all’Università di Chicago del premio Nobel Harold Hurey, proponeva al maestro uno strano esperimento: riprodurre in laboratorio le condizioni che sulla Terra primordiale avrebbero generato la vita.
La sfida era così ardua che lo stesso Miller ci credeva poco, ma Hurey lo incoraggiava. E l’allievo costruiva tubicini e palle di vetro dentro le quali faceva circolare metano, ammoniaca, vapore acqueo e idrogeno, cioè i gas ritenuti espulsi dai vulcani nella Terra primitiva. Su di essi faceva scoccare una scintilla per riprodurre il fulmine che doveva servire, a suo modo di vedere, da innesco di reazioni chimiche tanto formidabili da generare ciò che serviva per la vita. Dopo alcuni giorni controllava gli alambicchi e con soddisfazione vedeva che dagli ingredienti utilizzati si erano formati dei composti organici: era il brodo primordiale e dimostrava come l’atmosfera del nostro pianeta nelle remote poche potesse aver generato la vita.
La scoperta pubblicata nel maggio 1953 sulla rivista scientifica americana Science faceva scalpore e finiva su tutti i libri di scuola come riferimento di base per tentare di spiegare il mistero della nostra esistenza. Non era ancora la soluzione perché tra gli aminoacidi e le proteine di cui sono i componenti essenziali rimaneva un vuoto di spiegazione incolmabile; ma intanto i «mattoni» di base c’erano. Miller l’anno scorso moriva per un attacco cardiaco e Jeffrey Bada, ora ricercatore alla Scripps Institutions of Oceanography a San Diego (California) e ultimo studente di Miller, nei mesi scorsi ripensava agli esperimenti del maestro al quale era sempre legatissimo tanto da conservare ancora le 11 provette rimaste dal famoso esperimento di oltre cinquant’anni fa. Anzi decide di analizzare di nuovo i vecchi campioni associando altri scienziati impegnati sull’interessante frontiera. Inoltre, tra le carte lasciate dal maestro, trovava i risultati di altri due esperimenti mai pubblicati perché Miller aveva preferito raccontare soltanto la scoperta del primo, giudicata più chiara e netta.
La sorpresa è stata grande nelle ultime settimane quando dai nuovi strumenti impiegati per le analisi sono emersi dati molto più ricchi rispetto al passato e oggi pubblicati dalla rivista Science. «Abbiamo trovato 22 aminoacidi — precisa Antonio Lazcano dell’Università del Messico e coautore della ricerca — dieci dei quali non erano stati stati individuati da Miller e ciò è stato possibile grazie alla potenza ora ben superiore degli strumenti d’indagine». «C’è ancora molto da imparare dai vecchi esperimenti — aggiunge Jeffrey Bada soddisfatto —. Intanto abbiamo raccolto la conferma che i vulcani producono un’ampia varietà di composti». «I vulcani, quindi — nota Antonio Lazcano — hanno generato elementi essenziali dai quali si è poi sviluppata la vita e gli ambienti vulcanici sono stati una delle varie nicchie, tra le più importanti, in cui la biologia si è potuta sviluppare». Ma il nuovo risultato quanto aiuta a decifrare il mistero della vita? «Abbiamo compiuto un passo avanti notevole — conclude Lazcano — che si aggiunge ad altri ottenuti in passato. Sono tutti tasselli preziosi. Però anche se arriveremo a fabbricare in laboratorio una cellula vivente non potremo mai dire con certezza che sia frutto dello stesso metodo seguito dalla natura». Il mistero, insomma, è destinato (forse) a rimanere per sempre.
È una magnifica storia, umana e scientifica, di studenti eccellenti. E riguarda il tema più appassionante (e irrisolto) dell’origine della vita. Oltre cinquant’anni fa, nel 1953, Stanley Miller, timido allievo all’Università di Chicago del premio Nobel Harold Hurey, proponeva al maestro uno strano esperimento: riprodurre in laboratorio le condizioni che sulla Terra primordiale avrebbero generato la vita.
La sfida era così ardua che lo stesso Miller ci credeva poco, ma Hurey lo incoraggiava. E l’allievo costruiva tubicini e palle di vetro dentro le quali faceva circolare metano, ammoniaca, vapore acqueo e idrogeno, cioè i gas ritenuti espulsi dai vulcani nella Terra primitiva. Su di essi faceva scoccare una scintilla per riprodurre il fulmine che doveva servire, a suo modo di vedere, da innesco di reazioni chimiche tanto formidabili da generare ciò che serviva per la vita. Dopo alcuni giorni controllava gli alambicchi e con soddisfazione vedeva che dagli ingredienti utilizzati si erano formati dei composti organici: era il brodo primordiale e dimostrava come l’atmosfera del nostro pianeta nelle remote poche potesse aver generato la vita.
La scoperta pubblicata nel maggio 1953 sulla rivista scientifica americana Science faceva scalpore e finiva su tutti i libri di scuola come riferimento di base per tentare di spiegare il mistero della nostra esistenza. Non era ancora la soluzione perché tra gli aminoacidi e le proteine di cui sono i componenti essenziali rimaneva un vuoto di spiegazione incolmabile; ma intanto i «mattoni» di base c’erano. Miller l’anno scorso moriva per un attacco cardiaco e Jeffrey Bada, ora ricercatore alla Scripps Institutions of Oceanography a San Diego (California) e ultimo studente di Miller, nei mesi scorsi ripensava agli esperimenti del maestro al quale era sempre legatissimo tanto da conservare ancora le 11 provette rimaste dal famoso esperimento di oltre cinquant’anni fa. Anzi decide di analizzare di nuovo i vecchi campioni associando altri scienziati impegnati sull’interessante frontiera. Inoltre, tra le carte lasciate dal maestro, trovava i risultati di altri due esperimenti mai pubblicati perché Miller aveva preferito raccontare soltanto la scoperta del primo, giudicata più chiara e netta.
La sorpresa è stata grande nelle ultime settimane quando dai nuovi strumenti impiegati per le analisi sono emersi dati molto più ricchi rispetto al passato e oggi pubblicati dalla rivista Science. «Abbiamo trovato 22 aminoacidi — precisa Antonio Lazcano dell’Università del Messico e coautore della ricerca — dieci dei quali non erano stati stati individuati da Miller e ciò è stato possibile grazie alla potenza ora ben superiore degli strumenti d’indagine». «C’è ancora molto da imparare dai vecchi esperimenti — aggiunge Jeffrey Bada soddisfatto —. Intanto abbiamo raccolto la conferma che i vulcani producono un’ampia varietà di composti». «I vulcani, quindi — nota Antonio Lazcano — hanno generato elementi essenziali dai quali si è poi sviluppata la vita e gli ambienti vulcanici sono stati una delle varie nicchie, tra le più importanti, in cui la biologia si è potuta sviluppare». Ma il nuovo risultato quanto aiuta a decifrare il mistero della vita? «Abbiamo compiuto un passo avanti notevole — conclude Lazcano — che si aggiunge ad altri ottenuti in passato. Sono tutti tasselli preziosi. Però anche se arriveremo a fabbricare in laboratorio una cellula vivente non potremo mai dire con certezza che sia frutto dello stesso metodo seguito dalla natura». Il mistero, insomma, è destinato (forse) a rimanere per sempre.