“Scienza e verità, una esperienza affettiva”

Benedetta CappelliniArticoli

“Verdad y Ciencia: una Experiencia Afectiva”

Perché si può dire che il conoscere nella scienza sia un fatto affettivo? Per affrontare questo tema bisogna partire dall’esperienza del conoscere nella vita di un ricercatore.
La ricerca scientifica è, nella mia esperienza, e penso per tutti quelli che la vivono, una specie di dialogo con “il tutto”. Mi spiego: i momenti più significativi della vita di un ricercatore sono quelli in cui si capisce qualcosa di nuovo su questioni sulle quali da tempo ci si interroga e si lavora. In questi momenti succede qualcosa di speciale, perché anche se uno ci lavora da tempo, anche se è ragionevole che si riesca a trovare una risposta alle domande, quando questo avviene è sempre un avvenimento.
Innanzitutto è un momento di intensa gioia:
Quella sera, con stupore e gioia insieme, vedevo che la risposta si stava profilando estremamente interessante.  Per piu’ di due ore rimasi sveglio, pervaso da un senso di intensa euforia” (J.D. Watson, La doppia elica)
Fissai incredulo la soluzione per venti minuti. Poi, durante il giorno andai in giro per il dipartimento e continuavo a tornare alla mia scrivania per vedere se la soluzione era ancora lì. Era ancora lì. Non riuscivo a trattenermi, ero eccitatissimo. Fu il momento più importante della mia vita di lavoro. Niente di quello che potrò mai fare significherà altrettanto.” (A. Wiles, da L’ultimo teorema di Fermat, S. Singh, 1997)
Certamente l’entusiasmo per il successo scientifico ha molte origini, non tutte interessanti (la ricerca del consenso, o, peggio, il rifugio nel particolare in cui si riesce, che è una patologia abbastanza tipica nei cosiddetti scienziati). C’e’ però in questo entusiasmo, secondo me, anche una radice più profonda, più universale: l’avvenimento di incontrare la realtà. La natura svela a me di essere comprensibile. E’ qualcosa di ben oltre il possesso della nuova nozione, del nuovo concetto scientifico acquisito. E’ qualcosa che tocca tutto l’essere umano, non solo il suo intelletto.
E’ la stessa cosa che succede, secondo me, in ogni impegno serio nell’ottenere qualcosa: perché abbiamo tutti il timore che la realtà ci sia aliena. E quando invece si mostra amica, un’onda di speranza ci prende.
Una prova che l’avvenimento del comprendere riguarda tutta la vita è che viene trattenuto dalla nostra memoria in tutti i particolari, anche quelli che non c’entrano con il fatto scientifico. Il momento della comprensione di un fenomeno, nonostante sia un fatto intellettuale, viene trattenuto come un fatto che riguarda tutta la nostra persona.
Me ne sono accorto ripensando ad un episodio di qualche anno fa. Ero insieme ad un mio collega e amico americano, nella mensa dell’università e stavamo discutendo per l’ennesima volta di un problema che non riuscivamo a risolvere. Avevamo riempito alcuni tovagliolini di carta di appunti, quando ad un tratto abbiamo visto la spiegazione del fenomeno. La cosa interessante è che di quel momento ricordo bene quale fosse il tavolo a cui eravamo, che c’era bel tempo e un sacco di dettagli, mentre confondo tra di loro tutte la altre molte volte che siamo stati a quella mensa.
Noi ci ricordiamo tutti i dettagli perché quello è stato un avvenimento per tutta la persona, non un esercizio intellettuale.
La stessa esperienza si può scorgere anche nei racconti dei grandi scienziati.
Le racconto come feci la scoperta che credo sia la piu’ importante della mia carriera. Stavamo lavorando intensamente sui neutroni e i risultati che ottenevamo erano incomprensibili. Un giorno, andando al laboratorio, pensai che avrei dovuto osservare l’effetto di assorbimento dei neutroni da parte del piombo, ma invece di usare un pezzo di piombo qualunque ne feci preparare uno lavorato con precisione. Quando, finalmente, stavo per cominciare le misure, mi dissi: “no, quello che voglio non e’ un pezzo di piombo, ma uno di paraffina”. Fu proprio un’ispirazione improvvisa. Senza una ragione premeditata.” (E. Fermi a Chandrasekhar, in Note e memorie, 1934)
“Sedevo su una sedia all’ufficio brevetti di Berna, quando d’improvviso un pensiero mi colse. “Se una persona e’ in caduta libera, non avverte il suo stesso peso”. Ero esterrefatto. Questo semplice pensiero mi ha fatto una profonda impressione e mi ha sospinto verso una teoria della gravitazione” (A. Einstein, da una lezione a Kyoto, 1922)
Essendo la comprensione un avvenimento, chi la vive ne ricorda il luogo, l’ora, la forma di un inutile pezzo di piombo, la sedia su cui si sedeva. L’esperienza della conoscenza scientifica assomiglia ad ogni esperienza di conoscenza, di interazione fruttuosa con la realtà, che sempre, nonostante tutti gli sforzi e l’impegno che la precedono (sia Fermi che Einstein erano concentrati sui rispettivi problemi scientifici da mesi!), ha la forma di un fatto inaspettato.
Questi momenti poi passano. Magari, in qualche raro caso, non passa la fama acquisita o la posizione conquistata, ma passa il sentimento di apertura della realtà nei nostri confronti. Infatti, il possesso intellettuale della verità scientifica acquisita nella scoperta, piccola o grande che sia, non è capace di resuscitare la magia del momento che c’è stato. Anche richiamando alla mente la scoperta, non è più la stessa cosa. C’è, nel momento della scoperta, qualcosa che non si esaurisce nel suo contenuto intellettuale. E che reclama una presa di posizione.
L’attrazione, la realtà che si svela amica in quanto comprensibile, la speranza di bene che il capire suscita, tutto ciò reclama un nome, un volto. A che cosa sono di fronte? Per taluni è come il canto delle sirene: un richiamo verso una realtà inesistente, o peggio menzognera.
Il fenomeno per cui la realtà, fattasi amica nell’avvenimento del capire scientifico, richiede una posizione sulla natura del mistero che ci circonda, non è secondo me poi molto diverso dall’esperienza dell’innamoramento. In entrambi i casi c’è una corrispondenza innegabile, una promessa di bene, un richiamo attrattivo. E in entrambi i casi uno deve, alla resa dei conti, rispondere alla domanda: “questo bene presagito, esiste?”
Il negare una dignità, un bene, alla realtà che ci chiama porta, alla lunga, ad una grave tristezza. In ultima istanza va contro la natura stessa della ricerca scientifica. E’ così che capisco l’interessante citazione di s. Agostino nel famoso non-discorso di Benedetto XVI all’Università della Sapienza. Dice (avrebbe detto) il Papa: c’e’ “una reciprocità tra scientia e tristitia: il semplice sapere, dice [s. Agostino], rende tristi. E di fatto, chi vede e apprende soltanto tutto ciò che avviene nel mondo finisce per diventare triste.”
C’e’ una famosa frase tremenda di Steven Weinberg del 1977: “Più l’universo ci appare comprensibile, più appare senza scopo”. In una intervista successiva (1993), essendogli stato chiesto di commentare ulteriormente, aggiunse “Questa [frase era] un’osservazione nostalgica, piena di nostalgia per un mondo nel quale i cieli narrano la gloria di Dio”. Scientia e tristitia, appunto (pur nella grandissima ammirazione che ho per la sincerità e la profondità di Weinberg: ce ne fossero tanti!)
Qualche scienziato, anche non credente, ritiene che l’intelligibilità della natura sia un indizio importante sulla sua origine e rimane in un atteggiamento di domanda su quello che si cela “dietro” alla natura.
“La cosa più incomprensibile della natura è che essa sia comprensibile” (A. Einstein)
“Bisogna fermarsi a pensarci per gustare veramente questa complessità, per gustare l’inconcepibile natura della natura.” (R. Feynmann)
C’è chi si spinge più in là, in un ottimismo. “Quanto più l’uomo impara a conoscere la natura, tanto più viene preso profondamente e tenacemente dalla sua viva realtà.” “Ogni persona che si rallegra alla vista della creazione vivente e della sua bellezza è vaccinata contro il dubbio che tutto ciò possa essere privo di senso.” (Konrad Lorenz, 1949)
Certo è che per gli scienziati non vinti dalla tristizia, il richiamo della realtà attraverso la conoscenza, il chiedersi quale sia il volto del mistero è una domanda di tutta la vita, che anche una posizione non religiosa, se uno è forte e sincero, non può mai chiudere. C’e’ una frase di Feynman, che mi fa proprio pensare a questo richiamo infinito: “A una maggiore conoscenza si accompagna un più insondabile e meraviglioso mistero, che spinge a penetrare ancora più in profondità
Comunque è chiaro che questo quesito non può trovare risposta all’interno della stessa scienza.
Gli organizzatori di Encuentro Madrid che mi hanno invitato mi hanno chiesto di raccontare come è per me. Come è per me la domanda: “il Mistero è un Tu o un nessuno?”, e poi “chi sei Tu?”
Io sono cristiano. Ed essere cristiani vuol dire avere un’idea piuttosto specifica del volto del Mistero. Essere scienziati cristiani vuol dire comporre in un unico la “natura della natura” e il Volto del Padre. Ma questo potrebbe facilmente diventare astratto.
Ho la fortuna di far parte di una compagnia di amici con i quali abbiamo, da qualche anno, iniziato una associazione, che si chiama Euresis (Scoperta), composta da persone di fede cristiana che lavorano nella ricerca scientifica, in vari campi e in vari ambienti. Con essi condivido, in un certo senso, l’inizio e la fine dell’esperienza del ricercare, del mio lavoro nella scienza.
Certamente Euresis non è innanzitutto un’associazione di persone che condividono le stesse opinioni sui temi caldi della scienza, e nemmeno innanzitutto un’associazione per la produzione di iniziative (anche se, su entrambi i versanti, questi sono rischi che si corrono sempre).
Tra noi in Euresis “condividiamo l’inizio”: in Euresis condividiamo fortemente la convinzione che la ricerca scientifica prenda dignità e spinta, in ultima istanza, dal desiderio dell’uomo di rispondere ai grandi interrogativi (chi sono, quali sono la mia origine e il mio destino, qual è il significato di ciò che mi circonda). Lavorare  insieme a iniziative di tipo scientifico coscienti di questa esigenza di significato sullo sfondo di tutto, dà una dimensione più umana al nostro stesso lavoro.
Ed anche “condividiamo la fine”: l’essere affiancato da amici che stimano la bontà, l’utilità del conoscere rende il mio lavoro più importante, e mi rafforza nel considerare la sua utilità come contributo nella conoscenza del volto del Mistero. Certo che da un’opera d’arte non si può dedurre la personalità del compositore. Però è vero che se unita ad altre forme di conoscenza dell’artista, l’opera d’arte dice moltissimo. Così è un po’ per la scienza.
Faccio un esempio dalla vita di Euresis. Durante lo scorso anno, abbiamo lavorato parecchio sul tema della visione, preparando una mostra dal titolo “La luce, gli occhi, il significato: l’esperienza umana del vedere”. Abbiamo approfondito tanti aspetti del vedere, dalla natura della luce, alla struttura degli occhi, alle proprietà della retina, al percorso compiuto dal flusso di impulsi che viaggiano lungo il nervo ottico. Sulla visione si sa tantissimo. E noi, mescolando le nostre competenze e anche le nostre incompetenze, abbiamo cercato di mettere il tutto in ordine. E più approfondivamo il tema, più era chiaro che c’è qualcosa nelle nostre percezioni che sfugge alla descrizione meccanicistica. Un punto di fuga, qualcosa di inafferrabile. Il che descrive, secondo me, un carattere proprio del Mistero che ci circonda: si fa conoscere ma in un processo che non si esaurisce mai. Si va sempre più avanti nella comprensione delle strutture dell’uomo, lasciando però sempre una specie di spazio di libertà, quasi a salvaguardare la nostra dignità di uomini. Il che secondo me non è ovvio: potrebbe essere benissimo altrimenti, ma invece è così.
Quindi, perché secondo me la conoscenza è affettiva? Innanzitutto perché la conoscenza coinvolge tutta la persona, non solo la sua dimensione intellettuale. Quando si lavora insistentemente su un problema, spesso si sviluppa una specie di legame affettivo con ciò che si studia, con un presagio di bene, una aspettativa, una speranza. Ho cercato di spiegare come capisco questo aspetto di desiderio, di speranza, di corrispondenza, a partire dalla esperienza del capire. In questo senso, la conoscenza scientifica è affettiva, ma può essere anche desolata. Ovvero affettiva come dinamica, ma dolorosa, perché suscita un desiderio di bene che sfugge.
Ma soprattutto, la conoscenza scientifica è affettiva se ciò che chiama, il Mistero che ci circonda, la “stoffa” della realtà che studiamo, è in qualche modo famigliare. E in tal caso l’affetto che muove la ricerca è in gran parte legato all’affetto per ciò che rende questo Mistero più famigliare. In questo senso l’esperienza di Euresis, come quella di questo EncuentroMadrid, mi aiutano a guardare alla mia esperienza del ricercare con fatica le leggi di natura, non come ad un meccanismo vuoto e un po’ crudele di sollecitazione e negazione, ma come ad una parte di un cammino, personale e di popolo, verso il destino.