«Perché l’uomo non è un caso»

Benedetta CappelliniRassegna Stampa

Carlo Dignola, Avvenire, 15 gennaio 2008
Un filo tiene insieme, da milioni di anni, la storia umana: l’incontestabile progresso della specie. Yves Coppens, il più importante paleoantropolo­go vivente, guarda al nostro passato e ipotizza una terza via fra crea­zionismo e selezione cieca: «La materia vivente ha mostrato subito di essere animata da un ‘desiderio’ di complicazione e di organizzazione permanente, e di essere accompagnata da una potenza di di­versificazione meravigliosamente inventiva».
Professore, lei rifiuta la pro spettiva del Disegno intelligente: che ci sia una ‘mano invisibile’ che guida l’evoluzione. Al tempo stesso, però, ipotizza che la selezione naturale nasconda qualche meccanismo che ancora non conosciamo. Cosa ha in mente? Una ‘terza via’?
«Sì, qualcosa del genere. Io ho lavorato soprattutto nel sud del l’Etiopia, dove ho trovato Lucy, al confine tra Sudan e Kenya; tra il 1967 e il 1976 ci passavo di versi mesi tutti gli anni. Mi so no trovato davanti a una se­quenza stratigrafica formidabile, che andava da più di tre fino a un milione di anni fa. In quei terreni ho visto il clima umido divenire sempre più secco, e osservavo certi animali estinguersi: il loro si stema di adattamento, evidente mente, non aveva funzionato; ne vedevo altri andarsene, emigrare, e altri ancora sopraggiungere; e una buona quantità di specie che invece si era adattata alle nuove condizioni climatiche. Tra loro, l’essere umano. Quando osservo tante specie registrare una ‘mutazione utile’ esattamente nel momento in cui ne avevano bisogno, è difficile per me vedere l’opera del caso. D’altro canto, quando si parla con i genetisti, con i biologi molecolari, questi ti dicono: ‘Ti assicuro, la mutazione è un processo assoluta mente casuale’. Dunque, cosa bi sogna credere? Quando i colleghi mi dicono ‘Devi ascoltarci’, io non posso che essere d’accordo con loro. Quando sono io, però, che ho cinquant’anni di esperienza sul terreno, a fare delle osservazioni, allora anche loro dovrebbero ascoltare me. Una possibile soluzione è che le mutazioni siano sì eventi casuali, ma forse ne esiste uno ‘stock’: si trovano immagazzinate nella cellula in modo passivo e può essere che, nel momento in cui il cambiamento climatico ha luogo e interviene la selezione naturale, entro la gamma di mutazioni casuali che si sono conservate venga pescata quella giusta. Non so ancora cosa accada davvero, ma certo quando guardo gli elefanti, i maiali, le antilopi, i cavalli cambiare tutti le loro caratteristiche fisiche nel la direzione giusta proprio al momento giusto, mi dico: è possibile che siano tutti guidati solo dal caso? Si ha l’impressione che ci sia un trucco».
 Dove vanno cercati questi ‘stock’  che lei ipotizza? Nel Dna?
 «Forse sì. Io penso che la soluzione sia all’interno della molecola. Di più, come paleoantropologo, non posso dire. Sono i biologi che hanno in mano il metodo per valutare se si verifica o meno una cosa del genere, o per trovare altre soluzioni. Ma di sicuro il meccanismo del­l’evoluzione noi non lo abbiamo ancora colto. Siamo tutti d’accordo nel dire che essa non è più una teoria, ma un dato di fatto, però non sappiamo ancora, in realtà, come proceda davvero».
  Lei sostiene che l’uomo si è sviluppato a est della Rift Valley che dieci milioni di anni fa separò l’Africa in due. Senza quella una profonda mutazione dell’ambiente l’uomo non sarebbe mai com­parso. Oggi, secondo alcuni, è in atto uno stravolgimento del clima: avrà un effetto catastrofico sull’esistenza della nostra specie, o innescherà un nuovo salto evolutivo?
 «Anzitutto bisogna dire che i cambiamenti climatici sono un fatto as­solutamente normale: nella scala dello sviluppo dell’uomo sulla Terra avvengono costantemente. Se non ci fossero stati, in effetti non sarebbe mai avvenuta alcuna evoluzione, perché gli esseri viventi in un determinato ambiente si trovano in equilibrio: è quando questo si rompe che alcuni individui ne cercano uno nuovo, adattandosi alle mutate condizioni; in questo modo la specie si evolve. I primi uomini rappresentano la risposta in termini di adattamento a un am biente divenuto più secco: il mutamento di clima ha determinato una svolta nella storia dei primati. Poi però, divenuti coscienti, con la loro riflessio­ne, gli uomini hanno sviluppato la cultura, e questa poco a poco li ha resi capaci di non subire più passivamente l’ambiente, ma di servirsene, approfittando di esso».
 Verremo travolti dall’innalzamento delle acque?
 «Da diemila anni i ghiacciai si stanno fondendo e l’acqua sale: il livello del Mediterraneo si è sollevato di centoventi metri. Vicino a Marsiglia c’è un antro, chiamato la ‘Grotta costiera’, che oggi si trova quaranta metri sotto il livello del mare, ma le cui pareti sono dipinte: l’acqua, in quel punto, è salita dunque parecchio. Il fatto che il clima sia cambiato dal freddo intenso a livelli più temperati ha fatto in modo che graminacee come il frumento, la segale e l’avena si siano sviluppate molto di più e molto meglio; e che si sia avviata quella che chiamiamo la ‘crescita fertile’ nel Vicino Oriente. Grazie alla cultura, l’uomo invece di subire il cambia mento climatico se ne è servito. Questa è stata la seconda tappa decisiva del suo sviluppo. La terza è avvenuta solo duecento anni fa, con una rapida accelera zione dello sviluppo demografico: attorno al 1815 sulla Terra abbiamo raggiunto il primo miliardo di individui, poi in meno di duecento anni abbiamo superato i sei miliardi. Assieme allo sviluppo delle tecnologie e della produzione di massa, ciò ha causato a sua volta nuove trasformazioni nel clima, che forse sono in parte anche na turali, ma che sicuramente sono state incrementate dall’attività u­mana. Oggi questi cambiamenti ci preoccupano, perché non siamo in grado di dominare l’evoluzione del clima. L’eccesso di produzione di gas come l’anidride carbonica e il metano, però, dovremmo essere in grado di regolarlo».
 Lei ha ipotizzato un legame tra lo sviluppo dell’agricoltura e la na­scita della guerra.
 All’epoca del nomadismo non abbiamo riscontrato tracce di traumi collettivi. Invece a partire dal momento in cui s’è stabilita una proprietà – di un campo, di un raccolto, delle sementi, del bestiame – ci sono molte più tracce di aggressioni plurime. Le prime fosse comuni appaiono al momento della scoperta dei metalli. Se non ci sono giacimenti di stagno e di rame sufficienti per accontentare tutti, quando se ne possiede uno bisogna assolutamente difenderlo, perché i vicini non se ne impadroni­scano. Ed è a partire da quel momento, circa cinque-seimila anni fa, che troviamo delle fosse comuni piene di resti umani. Studiando la storia più antica si capisce bene quella attuale: la questione del petrolio in Iraq è la stessa».
 Studiando l’antichissimo passato umano, lei in realtà sta fornendo anche elementi per capire in che direzione potrà svilupparsi il futuro della nostra specie.
 «Ciò che io constato, tre milioni di anni dopo la comparsa dell’uomo sulla faccia della Terra, è che nella sua storia c’è stato indubbiamente un progresso, che ha toccato tutti i campi. L’uomo è progredito nel taglio della pietra, nelle tecnologie, ma anche nei suoi comportamenti, che sono diventati sempre più e laborati, raffinati, civili. Soprattutto, c’è stato un progresso nel ‘progetto’ che l’uomo è capace di vedere di fronte a sé: quando, ad e sempio, due milioni di anni fa l’Homo habilis tagliava la sua pietra, lo faceva per un utilizzo immediato; l’erectus che crea un attrezzo bifacciale, di forma simmetrica, è già un uomo più esperto, pronto a utilizzare quell’utensile maggiormente curato anche per qualche settimana: la sua prospettiva temporale si allunga. Gli uomini che decoravano le grotte di Lascaux, nel sud-ovest della Francia, hanno u­sato un melange d’argilla e di sangue di bisonte: il pittore aveva già ben in mente lo scopo di fissare le sue immagini perché potessero durare; viveva nella speranza che la sua opera potesse sopravvivere qualche anno, magari oltre la sua stessa vita. L’opera dell’uomo al lunga sempre più la sua prospetti va nel tempo. C’è un filo che tiene insieme tutte queste storie: un incontestabile progresso. Guardando al passato io vedo una speranza per l’avvenire. L’uomo progredirà ancora sul piano tecnologico, ma anche sul piano del comporta mento. Ciò è sempre avvenuto e io ho fiducia che continuerà ad avvenire. Quindici miliardi di anni di storia ci hanno insegnato che la materia non smette di complicarsi e di organizzarsi: questo ci fa intra vedere un destino della nostra specie ancora più complesso e più organizzato. Il domani dell’umanità sembra dover essere quello di una materia sovra-pensante o super pensante. O forse sarebbe meglio dire semplicemente: della materia pensante. Il genio dell’uomo non ha ancora finito di sorprenderci».