“Ogni nuova scoperta delle scienze della natura, fa aumentare il campo di quello che non può più essere chiamato vita. In questo modo, il progetto della biologia, le scienze del vivente, può essere enunciato in modo molto semplice: evidenziare tutto quello che nel vivente non è la vita e, al limite, estremizzando, dimostrare che il vivente non è la vita.
Le scienze allontanano sempre di più da noi il campo della vita come fenomeno, tendono a dimostrare che la vita non potrebbe essere un fenomeno, che la vita non potrebbe essere oggettivizzabile, che la vita non potrebbe essere oggetto di scienza, che la vita non potrebbe essere vista. Ma ciò che non può essere visto, può esistere? Questa è la domanda che l’uomo contemporaneo si pone con angoscia, senza osare confessarsela. In altre parole, è un morto? La ricerca scientifica è forse la ricerca allucinata, da parte dell’uomo contemporaneo, della prova che sarebbe l’uomo un morto in un mondo morto?”Lo schema pervasivo di cui consciamente o inconsciamente siamo oggetto, è proprio quello della riduzione a macchinario, meraviglioso e complesso quanto si vuole, ma pur sempre nulla più che meccanismo. D’altronde se la vita non si sa più dove è e tutto è ridotto ad “oggetto” è altrettanto facile manipolarlo ed usarlo. L’alternativa al più si pone tra lo sfruttare o l’essere sfruttati, ultimamente in balia del potere di turno.Una seconda provocazione Lafforgue la suggerisce riferendosi alla progressiva automatizzazione di molti aspetti pratici della vita e del lavoro: “Ogni volta che un’azione umana viene sostituita da un dispositivo automatico o da un automatismo possiamo chiederci se la tecnica inserisce la morte laddove vi era la vita oppure se la tecnica evidenzia che la vita non era là dove noi credevamo o facevamo finta che vi fosse. Comunque sia, le tecniche spostano il campo della vita come azione: sembra che la vita come azione non abbia più alcun santuario, che sia dunque obbligata a spostarsi incessantemente.”
È dunque la scienza nemica della vita? O forse la scienza, strumento della ragione e della umana curiosità semplicemente evidenzia inesorabilmente il limite della propria azione, occasione di conoscenza ma non di salvezza? Di potere sulla realtà, ma non di liberazione? Quale costrutto possiamo trarre dall’impresa scientifica che non sia relegabile in un avanzamento della tecnica o della “tecno-scienza” (e quindi in una retrocessione della vita)?
Eppure il quotidiano di chi si occupa di scienza riserva talvolta l’occasione di sorprendere un segno, una circostanza, una scoperta che inequivocabilmente indica come la ricerca scientifica sia un’avventura integralmente umana non coercibile nello schema del puro utilitarismo, così come non lo è il soggetto che tale avventura la vive senza censura.
Accanto a molti esempi reperibili tra le pagine lasciateci da illustri scienziati, uno piccolo ma significativo l’abbiamo avuto nel realizzare la mostra LA LUCE, GLI OCCHI, IL SIGNIFICATO, e nel dialogo con le migliaia di persone che l’hanno visitata al Meeting di Rimini. E’ stato affascinante scoprire come il “vedere” non sia solamente l’esito di passaggi biologici e chimici complicatissimi bensì come al fondo questa esperienza, nella sua totalità, sia qualcosa di estremamente e totalmente personale.
È stata una scoperta nella scoperta: non solo che non siamo riducibili a pura biochimica, ma ancor più che è possibile studiare la realtà senza paura di rimanere delusi dai meccanismi che la compongono.