Riproponiamo il testo dell’incontro tenutosi al Meeting di Rimini martedì 21 agosto 2007.
Partecipa:
Laurent Lafforgue, Docente di Matematica all’Institut des Hautes Études Scientifiques, Parigi.
Introducono:
Luca Doninelli, Giornalista e Scrittore
Davide Prosperi, Vice Presidente Associazione Euresis
Io sono molto imbarazzato a presentarvi, a dirvi chi è Laurent Laffourgue: un matematico molto importante nella grande comunità di matematici. Io non so valutare nemmeno il suo contributo, so che nel 2002 gli è stata conferita la Fields medal, che è come il premio Nobel per la matematica, e so che sono stato profondamente commosso dall’incontro con lui e da una impostazione della ragione come innanzitutto paragone della realtà, di quello che si fa, sia essa matematica, letteratura, sia il lavoro che ci tocca tutti i giorni con le domande, con le esigenze elementari della nostra vita, con la concretezza del rapporto con la realtà da cui nascono le domande che danno il via alla grande avventura della ragione. C’è stata una consonanza che è arrivata fino agli autori preferiti, per esempio Charles Peguy, che appartiene molto alla nostra tradizione ed anche uno degli autori che lui ama di più.
Io non voglio dire altro, mi faccio aiutare dal mio amico Davide Prosperi, che di scienze si intende più di me e sono qui solo per testimoniare anche la bellezza di un incontro che è avvenuto quasi casualmente, a ricordarci che il caso è per noi qualcosa di straordinario, che apre costantemente il nostro cuore alla grande avventura della verità. Lascio la parola a Davide.
Davide Prosperi: Introducendo l’intervento di Laurent Lafforgue, abbiamo pensato che potesse essere di aiuto cercare di sviscerare il titolo di questo incontro. Se avete letto i giornali questa estate, insieme ai vari gossip che come tutte le estati si succedono, si è potuto vedere un appello lanciato dal ministro dell’educazione Fioroni sul problema dell’insegnamento della matematica nelle scuole, soprattutto nelle scuole superiori. Basandosi sulle statistiche dei cosiddetti debiti formativi, sembra che gli studenti del nostro paese facciano fatica ad imparare la matematica. Questo chiaramente getta un’ombra sul futuro, sulla capacità di sviluppo non solo intellettuale di un popolo. Abbiamo visto diversi tentativi, più o meno curiosi, di indagare le cause e i possibili rimedi per questa situazione. Ora, il titolo di questo incontro è proprio invece il tentativo di gettare una luce nuova sulla questione di fondo, che nasca non tanto dall’individuazione di categorie teoriche o astratte del problema, quanto dal di dentro dell’esperienza vissuta, proprio perché, concordemente a quanto abbiamo potuto tra ieri ed oggi conoscere del nostro ospite, è proprio un’impostazione che condividiamo molto, quella di basarsi sull’esperienza per giungere ad un giudizio. Ci siamo posti e abbiamo posto alcune domande che cercano, un po’ ambiziosamente, di penetrare la radice del problema. Cosa vuol dire sviluppare, insegnare la matematica e la scienza per la formazione culturale della persona?
La matematica ha qualche rapporto – questa è la domanda – ha qualche rapporto con il tentativo irrinunciabile della ragione umana di penetrare il senso delle cose? Perché senza questo è difficile che uno si appassioni, sentirà sempre freddo l’oggetto che ha davanti.
Esiste un fattore di unità della conoscenza, quindi in che rapporto sta con il resto delle discipline della conoscenza umana?
Infine, cercando di mettere in relazione con il tema proprio del Meeting di questo anno, vorremmo domandare se è possibile, secondo la sua esperienza, in che senso parlare di verità e bellezza nella matematica? E questo è tanto più significativo perché, come possiamo osservare intorno a noi, c’è sempre più la tendenza ad identificare la scienza come alla fine l’unica sorgente possibile di certezza, ma un po’ contraddittoriamente sentendo questo come una verità sospesa cioè fino a quando succederà qualcosa che confuta o dimostra che quello che sapevamo non era vero, quindi è possibile una verità?
Laurent Lafforgue: Buongiorno a tutti, ringrazio Luca Doninelli e Davide Prosperi per le loro parole di introduzione e aggiungo che sono estremamente felice, contento di essere qui a Rimini. È veramente sorprendente per me partecipare a questo incontro, è molto emozionante.
Come è stato detto io sono un matematico, un matematico cristiano. Parallelamente al mio lavoro di ricerca, da alcuni anni a questa parte, mi sono impegnato al servizio della scuola e dell’istruzione. La attuale situazione della scuola in Francia e nell’occidente in generale, è una situazione molto grave: è il risultato di politiche educative portate avanti da molto tempo. Tuttavia le radici più profonde del disastro della scuola, le cause che hanno mosso i responsabili di questa distruzione, hanno trattenuto, hanno impedito alla collettività di reagire, hanno fatto accettare decenni proprio di inferno, di calata negli inferi e queste ragioni sono di natura filosofica. Si trovano soprattutto nella rimessa in questione intellettuale e pratica della nozione di persona umana, della sua libertà, della sua responsabilità, che è il corollario di questa libertà e della nozione di verità obbiettiva, che è lo specchio poi della nozione di soggetto, prima componente della persona. All’inverso, nell’altro senso, la distruzione della scuola, provocata da questa rimessa in questione, sfocia e colpisce le menti dei bambini che sono affidati alla scuola, impedisce loro di diventare completamente, interamente delle persone. Questa è per me la prima ragione che mi ha spinto a parlare della persona umana.
Vorrei riflettere su questo argomento nella mia veste di matematico cristiano. L’invito degli organizzatori ed il vostro ascolto in questo momento per me sono motivo e fonte di grande emozioni. Perché? Perché spesso, all’interno delle comunità cristiane, io sento una mancanza di interesse, un’ostilità nei confronti delle scienze della natura e della matematica. Non è certo la prima volta che mi esprimo in questi termini davanti a dei cristiani e ogni volta i miei interlocutori protestano e mi dimostrano con argomentazioni inconfutabili che questa ostilità, invero, non esiste. Resta un fatto ancor più illustrativo delle proteste verbali, cioè i giovani cristiani, che seguono studi brillanti, solo raramente si rivolgono alle scienze e ancora più raramente si rivolgono alla matematica. Preferiscono le carriere aziendali, addirittura la finanza, un fenomeno molto sorprendente se pensiamo che in linea di massima la loro educazione cristiana gli ha lanciato un monito contro il potere del denaro. Preciso subito che io non muovo un’accusa morale, io non taccio di ipocrita queste persone e gli ambienti che li hanno visti crescere. Penso, invece, che sia uno scrupolo morale, ancora più forte e tanto più profondo in quanto inconscio, che trattiene la maggior parte dei giovani cristiani dal rivolgersi verso le scienze.
Noi matematici non pensiamo mai che un’intuizione espressa da qualcuno non abbia senso; Pensiamo invece che qualsiasi intuizione ha un senso, è significante nella misura in cui sia approfondita e così, sarebbe contrario alle mie abitudini di matematico, rifiutare facendo semplicemente spallucce la prevenzione nei confronti delle scienze, che emerge nella maggior parte dei cristiani. Invece, io devo interessarmi a questo aspetto e affrontare senza timore la difficoltà reale, vera, di cui questa prevenzione è necessariamente il segnale. Qual é allora l’accusa, l’accusa che nella mente di molti pesa contro le scienze, madri delle tecniche, e contro la matematica, modello e linguaggio delle scienze della natura? Bene, questa accusa è fulminante, è quella di disumanizzare. L’essenza dello sviluppo delle tecniche, delle scienze e della matematica, è l’oggettivizzazione. Le tecniche sostituiscono con degli automatismi una quota sempre crescente delle attività tradizionali degli uomini. Individuano ciò che vi era di meccanico in questa attività, lo decompongono, lo formalizzano e lo imitano così bene attraverso le macchine che l’uomo viene rigettato da questa attività e obbligato a trovarne altre, sempre che lo possa fare. Ecco perchè il romanziere e saggista francese Georges Bernanos definiva il nostro mondo contemporaneo civiltà delle macchine. Ogni volta che un’azione umana viene sostituita da un dispositivo automatico o da un automatismo possiamo chiederci se la tecnica inserisce la morte laddove vi era la vita oppure se la tecnica evidenzia che la vita non era là dove noi credevamo o facevamo finta che vi fosse. Comunque sia, le tecniche spostano il campo della vita come azione: sembra che la vita come azione non abbia più alcun santuario, che sia dunque obbligata a spostarsi incessantemente.
Le scienze della natura mettono in evidenza nei fenomeni naturali, un insieme sempre più inglobante di meccanismi invariabili. Riducono, o danno l’impressione di ridurre, la moltiplicazione dei fenomeni del mondo fisico, arrivando addirittura al funzionamento dei corpi, addirittura al funzionamento del nostro corpo umano, riducendoli ad elementi semplici sottoposti a delle leggi. Ogni fenomeno regolare, tutto quello che appare, un funzionamento necessario, in breve, tutto quello che è oggetto di scienza, non è la vita. Ogni nuova scoperta delle scienze della natura, fa aumentare il campo di quello che non può più essere chiamato vita. In questo modo, il progetto della biologia, le scienze del vivente, può essere enunciato in modo molto semplice: evidenziare tutto quello che nel vivente non è la vita e, al limite, estremizzando, dimostrare che il vivente non è la vita.
Le scienze allontanano sempre di più da noi il campo della vita come fenomeno, tendono a dimostrare che la vita non potrebbe essere un fenomeno, che la vita non potrebbe essere oggettivizzabile, che la vita non potrebbe essere oggetto di scienza, che la vita non potrebbe essere vista. Ma ciò che non può essere visto, può esistere? Questa è la domanda che l’uomo contemporaneo si pone con angoscia, senza osare confessarsela. In altre parole, è un morto? La ricerca scientifica è forse la ricerca allucinata, da parte dell’uomo contemporaneo, della prova che sarebbe l’uomo un morto in un mondo morto?
Quanto alla matematica, la matematica si definisce come quello che nel linguaggio umano può reggersi da solo e non ha bisogno di rapportarsi ad un oggetto esterno. Uno sviluppo è matematico quando possiamo ritenere che era contenuto nelle definizioni delle parole che usa e che si è limitato ad esplicitare le implicazioni necessarie di queste definizioni. Questo richiede ovviamente che le definizioni di queste parole siano sprovviste di ambiguità, che il loro potere di allusione e di evocazione sia formalmente revocato e che lo sviluppo si pieghi a regole così rigorose che lo rendano in linea di massima infallibile. Naturalmente succede ai matematici di sbagliarsi, ma i loro errori sono immancabilmente elucidati nel momento stesso che vengono riconosciuti. La disciplina del ragionamento matematico vieta che due matematici possano divergere per molto tempo su quello che viene dimostrato come vero, su quello che viene dimostrato come falso e su quello che non è ancora dimostrato. Al contrario delle tecniche delle scienze della natura, la matematica non è un processo di trasformazione o di rappresentazione, bensì un processo di esplicitazione. La possibilità per le scienze della natura, in particolare per la fisica e per le tecniche correlate alle scienze, di scriversi in linguaggio matematico e di aumentare in questo modo il loro potere revisionale, è il prolungamento naturale del potere che è stato dato all’uomo di nominare le cose.
Lo sviluppo delle scienze moderne, a partire da Galileo, Cartesio e Newton, nel senso di una matematizzazione, si basa sull’intuizione che la capacità del linguaggio umano ha di coniugare le cose e che questa capacità è maggiore di tutto quello che era stato osato pensare fino a quel punto. Il progetto della scienza di Galileo e della matematica consiste quindi anche nell’esplorare, nello sviscerare la potenza del linguaggio fino ad alcuni dei suoi limiti più estremi. Se è vero che le tecniche delle scienze della natura ampliano sempre di più l’ambito di quello che non può essere considerato come vita, che la matematica si richiuda su se stessa è autoreferenziale a seguito dei suoi criteri di infallibilità e che dopo Galileo e Cartesio esercita sulle scienze e sulle tecniche una forza d’attrazione all’altezza della potenza che da loro, capiamo la reticenza di molti cristiani nei confronti delle tecniche,nei confronti delle scienze e nei confronti della matematica.
Nell’ultimo mezzo secolo, il processo della scienza di Galileo, è stato istruito con una forza di pensiero sorprendente, da parte del filosofo francese Michel Henry, che era cristiano. L’accusa di Michel Henry non riguarda tanto la scienza di Galileo di per sé, ma l’attrazione irresistibile e fatale che esercita per il suo successo e che lui definisce malattia della vita, maladie de la vie. Questa malattia, scrive fondamentalmente, impoverisce la rappresentazione che noi ci formiamo del mondo e di noi stessi, sfocia nella squalifica nella nostra mente del mondo come realtà sensibile, squalificando la vita, come prova di sé e prova di se stessa. In modo più specifico, nella sfera intellettuale e nella sfera accademica, spoglia le scienze umanistiche, la letteratura e la filosofia le spoglia della loro legittimità, a vantaggio delle scienze umane e sociali. Denunciando questa evoluzione, Michel Henry ha preso una posizione controcorrente rispetto alla maggior parte degli intellettuali cristiani o venuti dal cristianesimo nella nostra epoca. In realtà questi intellettuali si sono disinteressati rispetto alle scienze della natura e della matematica e molti si sono rivolti poi verso le scienze umane e sociali. Il mio impegno appassionato nei riguardi della scuola e dell’educazione e dell’istruzione, mi ha reso molto sensibile alla riflessione di Michel Henry. In effetti, le conoscenze che io ho acquisito sulla storia recente della scuola, in Francia e anche nei paesi occidentali, mi hanno convinto che le scienze umane e sociali, hanno giocato un ruolo importante nel loro svilimento e nel loro rapido deterioramento. È il caso delle pretese scienze dell’educazione, ma questo vale anche per la sociologia, la psicanalisi, e anche vale per discipline come la storia e la linguistica.
Ebbene, Michel Henry insiste, mette l’accento sulla filiazione di queste scienze nei confronti della scienza di Galileo, vale a dire della fisica basata sulla matematica. Una filiazione è una responsabilità che sono laceranti per me, per il matematico quale io sono. Ho capito d’altro canto che numerose personalità venute dal cristianesimo, hanno partecipato, proprio in prima fila a questa impresa, cioè la completa trasformazione dei metodi scolastici, dei contenuti e della finalità della scuola. È una nuova lacerazione per me come cristiano, una lacerazione che addirittura aumenta rispetto alla prima, in quanto l’azione di queste persone sulla scuola si è spesso basata sull’autorità delle scienze umane e sociali.
Confrontato a queste constatazioni drammatiche, io devo, sono obbligato a riprendere da zero la problematica del valore della matematica e della scienza di Galileo. Riconosco che il dominio sulle menti di una rappresentazione scientista del mondo e della condizione umana, altera profondamente la nostra civiltà. Tuttavia, il primo riflesso che per me è necessario, è quello di allontanare l’dea che noi potremmo ritrovare una saggezza allontanando dalla matematica e dalle scienze. Cristo è la verità, essere cristiano obbliga di vedere la realtà così come è e confrontarsi con essa. Ebbene, l’efficacia prodigiosa della scienza di Galileo, della scienza moderna di Galileo, fa parte della realtà. Nella storia, non si era mai vista un’impresa intellettuale avere un successo così evidente, così tangibile, così palpabile, con uno sviluppo formidabile delle tecniche che vi è correlato, la matematica, le scienze moderne pongono all’uomo una domanda immensa e temibile, a cui non deve sottrarsi. L’unico modo, autentico, per noi cristiani di affrontare questa domanda, consiste nel coltivare le scienze della natura e la matematica, basandoci sulla fede in Cristo. Ma ovviamente non dobbiamo cullarci nell’illusione che sarebbe possibile riassorbire senza conseguenze l’antagonismo e la tensione fra le scienze moderne e l’imperativo di umanizzare il nostro modo. Il cristianesimo non cerca di creare alcuna armonia facile ed artificiosa, la croce non è un segno di armonia, nella situazione in cui noi ci troviamo di lacerazione della persona umana e di rottura tra gli ambiti intellettuali e la sfera spirituale, un matematico, uno scienziato cristiano porta una croce. Non deve rifiutarla. La matematica e le scienze di Galileo fanno parte dell’umanità dell’uomo, sono sviluppi di determinate potenzialità che gli sono state concesse. Per assumere la sua umanità, messa a prova dal dominio delle tecniche delle scienze, l’uomo contemporaneo deve assumere consapevolezza della vera e propria natura della matematica e delle scienze moderne e amarle così come sono.
In che cosa può quindi consistere l’umanità della matematica? È la domanda che vorrei sviscerare. Per me questa umanità della matematica consiste innanzitutto in tre paradossi che vorrei adesso sottolineare. Primo paradosso: la matematica è umana perché l’oggetto di studio si distingue radicalmente dall’uomo che è lontano dalle nostre preoccupazioni abituali. La stessa cosa vale per le scienze della materia inerte come la fisica o la chimica, contrariamente alla biologia, alla medicina, alle scienze umane sociali, il cui oggetto di studio, l’uomo, è abitato dallo spirito e dalla vita. Queste ultime scienze come la medicina e le scienze umane sociali, richiederebbero dunque altre basi filosofiche e non dovrebbero essere quindi conglobate assieme alla fisica, alla chimica alla matematica con lo stesso nome di scienza. Il tema del rapporto fra la matematica o le scienze moderne della materia inerte e la persona umana, è il rapporto fra il processo di oggettivizzazione e la vita. Dato che una frontiera invalicabile separa dal suo oggetto il soggetto che studia e cerca di capire, questa relazione rimane invisibile nei risultati di questi studi. Questi risultati, i risultati della matematica o della fisica, sono puramente obiettivi e riguardano realtà intelligibili o sensibili estranee all’uomo. Per riflettere su questa relazione, cioè la relazione tra matematica e vita, bisogna approcciare la matematica non come un insieme di risultati, ma come una pratica, un’esperienza. Una delle caratteristiche di questa pratica, di questa esperienze, è l’allontanamento del testo scritto rispetto al processo vero della scoperta. Quando un matematico o un fisico finisce la redazione di un articolo di un libro, che è il frutto della sua ricerca, quello che appare sulla carta ha solo un rapporto molto lontano con il processo mentale che è sfociato in tutto questo. Un lavoro pubblicato di un matematico, di un fisico, di un chimico, non rende conto della quota di personalità singola che è entrata nell’elaborazione. Invece questa necessaria cancellazione di coloro che diventano i servitori della matematica contribuisce, concorre all’umanità della matematica e delle scienze. I matematici e i fisici si investono nella loro ricerca completamente per risolvere un problema, per fare una scoperta, devono lasciarsi abitare da una domanda, giorno e notte, addirittura durante il sonno, per poi arrivare a dei testi talmente impersonali che qualsiasi lettore potrà riconoscersi come se questi testi fossero i suoi, e che gli insegnassero verità da lui, da loro sempre conosciute (parlo dei lettori, ovviamente). Solo così viene mantenuta la distanza fra il soggetto che si investe nel processo di scoperta e l’oggetto di studio che la scrittura strappa al brogliaccio del non formulato. Questa distanza è costitutiva della matematica e della fisica. Se la eliminassimo, se per esempio permettessimo ai matematici di documentare nei loro lavori pubblicati le prove morali attraverso le quali hanno dovuto passare prima di arrivare ad una soluzione, sarebbe il segnale di una grande degenerazione della tradizione matematica.
Ho appena usato il termine “tradizione”, perché? Perché l’attività scientifica non è solitaria, ma comunitaria, si sviluppa e si approfondisce nel corso del tempo, la matematica, la fisica e tutte le scienze sono delle tradizioni. È ciò che illustra perfettamente la storia di determinati problemi la cui risoluzione ha richiesto secoli e secoli di sforzi collettivi. Ad esempio la quadratura del cerchio: è un problema matematico posto dai greci due millenni e mezzo fa ed è stato risolto nel diciannovesimo secolo. Oggi la soluzione è spiegata in molti manuali universitari, qualche paginetta e non usa nessuna nozione estremamente sofisticata, perché? Perché i matematici hanno tirato fuori in modo collettivo certi concetti, vale a dire certi termini che ovviamente attecchiscono che danno un potere su di un determinato problema e che consentono di risolverlo. Sono stati necessari secoli per introdurre queste parole, questi termini, e comunque una volta pronunciati e definiti questi termini, sono facili da capire sono a disposizione di tutti sembrano naturali rendono molto semplici le cose. La preoccupazione di obiettività e di cancellazione delle persone davanti alle verità di cui diventano i servitori produce grandi sacrifici a livello delle relazioni umane. Da parte mia, io sono diventato matematico un po’ per caso, senza sapere in che cosa consistesse veramente tutto questo e comunque oggi mi sento felice fra i matematici non solo perché ho imparato ad amare la matematica ma anche proprio per le qualità umane che si possono percepire nell’ambiente dei matematici soprattutto la qualità delle relazioni fra i docenti i professori e i discenti sono spesso relazioni da maestri a discepoli. Nella matematica, nelle scienze, si incontrano delle persone molto diverse, di ogni paese, di ogni cultura e si portano avanti con queste persone degli scambi approfonditi, scambi che durano ore e ore, giornate, mesi, su argomenti di riflessione che ci uniscono. Questa esperienza dell’universalità del sapere è molto molto preziosa per la nostra umanità da sempre lacerata. Per noi cristiani una lacerazione particolarmente importante è quella del popolo ebreo e della Chiesa. Ebbene la matematica e le scienze forniscono l’occasione di creare un legame che, senza essere la comunione della Chiesa, ha una vera e propria profondità, orienta in comune verso un certo tipo di verità e verso la ricerca in un amore condiviso. Il popolo ebreo, depositario di una promessa eterna del Signore, non ha raggiunto la Chiesa ma lo sviluppo delle scienze, della matematica e della razionalità negli ultimi secoli ha creato un terreno comune in cui questo popolo accetta di entrare, con una passione che non ritroviamo in nessun altro popolo allo stesso livello. L’esistenza di un simile terreno di incontro ha una grande importanze spirituale. I matematici e gli scienziati assaporano quindi il buon effetto sulle relazioni umane proprio per la preoccupazione di obiettività e di verità. Il loro ambito è scarsamente conflittuale, riconosce criteri di giudizio che consentono di arrivare ad un accordo e, soprattutto, i matematici non sono autoreferenziali, non sono gli uni contro gli altri, non si rivolgono gli uni verso gli altri, i matematici si rivolgono verso oggetti astratti, verso un altrove. Il paradosso è che questa qualità delle relazioni umane può essere ottenuta solo ad una condizione: che sia riconosciuto il valore intrinseco dell’oggetto di studio su cui tutti fanno convergere i loro sforzi; in altri termini giustificare l’interesse della matematica e della fisica attraverso la qualità delle relazioni umane che comportano, come io ho fatto prima, è insufficiente. È un’argomentazione in grado di crollare se non si basa su fondamenta più solide. È appunto quello che abbiamo visto negli ultimi decenni nei paesi occidentali con la snaturalizzazione della scuola. Le persone venute da ambienti cristiani che hanno giocato un ruolo negativo nella sua evoluzione, si interessavano solo alle relazioni umane e molto poco si interessavano al contenuto preciso dell’insegnamento, hanno imposto una nuova scuola in cui vivere insieme è più importante che imparare, ma la cosa più strana è che in questa scuola trasformata le relazioni umane sono esse stesse molto deteriorate. Invece nell’ambiente dei matematici che io conosco e che è rimasto orientato verso la ricerca della soluzione di problemi specifici e verso lo studio di oggetti matematici astratti e molto precisi, ebbene questo ambiente dei matematici ottiene come beneficio laterale ed indiretto, quindi una cosa aggiuntiva, buone relazioni fra le persone. L’esperienza della matematica e delle scienze della natura come la fisica dimostra che le persone hanno bisogno per uno sviluppo equilibrato dei loro rapporti, hanno bisogno di un oggetto esterno estraneo ad esse rispetto a cui possano manifestarsi congiuntamente come dei soggetti.
Secondo paradosso: la matematica è umana perché è di accesso difficile. Nella matematica è impossibile essere uno scienziato a metà o al 50%. Certo uno può conoscere più o meno la matematica, vale a dire conoscere le teorie o le nozioni più o meno progredite o conoscere teoremi più o meno profondi, ma se noi non conosciamo perfettamente quello che crediamo di conoscere è come se non lo conoscessimo affatto. La matematica consiste nel capire e non a far valere dei risultati magnifici, produrre dei risultati scientifici che impressionino tanto più profani che non li capiscono o per i profani lasciarsi effettivamente impressionare da simili risultati, è contrario alla razionalità. La razionalità consiste nel condividere una comprensione mediante o attraverso un linguaggio comune. Invece la comprensione di un fenomeno intelliggibile si avvicina all’amore, non all’amore sentimento ma all’amore specificatamente cristiano, la carità, il desiderio di comprensione condivisibile è alla base della matematica, l’elemento spettacolare che meraviglia le è estraneo. Invece io porto avanti l’ipotesi che le scienze umane e sociali hanno potuto esercitare sulla scuola una influenza molto nefasta innanzitutto perché sembrano avere un facile accesso: milioni di persone hanno creduto che era sufficiente avere letto alcuni libri di sociologia o di psicoanalisi per capirne l’essenzialità e poter trarne principi di intervento. La matematica è scarsamente esposta a questo tipo di deriva, proprio per la difficoltà della matematica. Questo carattere di difficoltà si aggiunge alla caratteristica degli oggetti di studio, impedendo che diventino una sfida affettiva o di potere fatta eccezione per una cerchia molto ristretta. Il muro della difficoltà di accesso rende inoffensivo il prestigio della matematica, questo muro è nella natura, nella scienza di Galileo una rappresentazione del mondo sensibile meravigliosamente efficace, ma tecnica e parziale: richiede un grande sforzo della mente su se stessa per fare astrazione delle qualità sensibili delle cose e trattenere solo ciò che è misurabile. La difficoltà di accesso della matematica porta a interrogarsi sul suo apprendimento, vale a dire sulla relazione fra la matematica e i discenti, gli allievi. L’apprendimento è il tipo di relazione con la matematica che quasi tutti qui in questa sede hanno conosciuto quando eravamo sui banchi di scuola, quando siamo andati del liceo, il rapporto dello studente con la matematica, con la fisica o con un’altra scienza è molto diverso dal rapporto che ha il ricercatore; il ricercatore ha l’obbligo di essere fecondo invece lo studente si sforza di appropriarsi delle teorie, delle nozioni o dei risultati già trovati, vale a dire completamente oggettivizzati. Queste conoscenze oggettivizzate non contengono la vita: un testo di matematica o di fisica è il punto finale di un processo attraverso il quale la mente che lo ha concepito lo butta fuori di sé per dargli la solidità della materia inerte. È possibile che questa percezione, quella che una conoscenza non sia la vita, sia all’origine della rimessa in questione della scuola tradizionale, dell’istruzione, dell’educazione e del sapere in taluni ambienti cristiani. Siccome la materia dell’insegnamento non è la vita, si è voluto trasformare la scuola, sviarla dalla sua tradizionale missione di trasmissione delle conoscenze. In particolare si è voluto rendere il bambino autonomo, chiedendogli di costruirsi il proprio sapere, si è sognato di vederlo diventare fecondo sin dalla sua più tenera età. Ma i bambini che abbiamo voluto rendere autonomi così presto non lo diventano quasi mai neanche quando arrivano all’età adulta, perché non sono stati trasmessi loro i mezzi della libertà e della fecondità. Un contenuto di conoscenza destinato ad essere insegnato e un nutrimento. Un nutrimento non è una cosa evidente ma è una cosa che però permette la vita, un nutrimento proviene da essere viventi che hanno dovuto morire perché la loro carne venga data ad altri e che la vita continui ad esprimersi e a crescere. Nell’insegnamento la vita non può stare nella materia di ciò che deve essere insegnato, la vita è presente nel maestro che impartisce l’insegnamento, è presente negli allievi che ricevono l’insegnamento. La vita non può essere oggettivizzata in conoscenza, non può essere diventare la materia dell’insegnamento e neanche l’oggetto di una scienza del modo di insegnare. Perché la vita manifestata in una tradizione intellettuale passi da una generazione alla successiva, affinché questo avvenga, bisogna passare attraverso la disappropriazione e la spogliazione della persona che rappresentano il mettere per iscritto un contenuto di conoscenze e l’insegnamento di questo contenuto specifico, così come il chicco di grano caduto per terra che deve morire per dare dei frutti. La difficoltà della matematica risalta un altro ingrediente indispensabile, non per l’apprendimento della matematica stabilita, ma per la ricerca di nuova matematica: questo ingrediente è la sofferenza. Il quotidiano del matematico è composto da lunghissimi periodi di sterilità apparente. Il matematico deve perseverare, rimanere concentrato sugli stessi punti che lo tormentano, sulle stesse domande che lo angosciano, sviluppare la sua mente, sopportare la sofferenza che questa tensione comporta, una sofferenza che il testo che poi concretizzerà la scoperta non tradurrà. La difficoltà della matematica ci fornisce la lezione che niente di creativo, dunque, nessuna manifestazione della vita si fa senza sofferenza. L’esperienza della matematica insegna che l’inumano non è nella difficoltà, nemmeno nella sofferenza nel momento in cui questa non è distruttiva, invece indica che l’inumano è nella facilità.
Terzo ed ultimo paradosso: la matematica è umana perché cerca di esplicitare la ragione stessa delle cose senza che alcuno iato insorga fra le spiegazioni che dà la matematica e il modo in cui la nostra mente si rappresenta gli oggetti che studia. Un testo matematico, una volta scritto e se è pienamente compiuto, ha la forza dell’evidenza, dà l’impressione che le spiegazioni che contiene siano talmente chiare che da sempre avrebbero dovuto esistere, che si tratti di azioni complesse astratte oppure molto semplici, non importa. L’addizione e la moltiplicazione, ad esempio, oggi ci sembrano così naturali che ci costa pensare ed immaginare che per tanto tempo sono state operazioni ignorate: ebbene nella preistoria dell’uomo e dell’umanità è stato necessario aspettare sicuramente molto tempo prima che la mente umana potesse concepire queste operazioni. Le nozioni matematiche sembrano scaturire, sorgere automaticamente una volta che sono state pensate una prima volta; se da un lato è molto difficile penetrare il velo che copre un segreto matematico che ancora non si è scoperto, una volta che questo velo è stato tirato via, non si riesce neanche più a capire perché la mente per tanto tempo ha avuto tanti problemi a scoprire questo segreto. L’evidenza dei risultati matematici dopo la loro scoperta rende la matematica molto diversa su questo punto rispetto a tutte le scienze della natura, compresa la fisica. Queste scienze della natura rappresentano gli oggetti fisici in un modo tale che attribuiscono un grande potere su questi oggetti, ma questo è strano alla nostra percezione. Il fisico che studia la luce di una bella giornata di primavera non sente la carezza del sole sulla sua cute sotto forma di un’onda. L’onda è una rappresentazione intellettuale della luce che permette di fare delle predizioni molto pertinenti ma non ha rapporto alcuno con la nostra percezione. Inoltre il chimico, che introduce la mano nell’acqua, sa che quest’acqua è H2O, ma non “sentirà” mai questa conoscenza. Invece chiunque progredisca nella scienza degli oggetti matematici, per esempio i numeri, o le figure geometriche, ha l’impressione che qualsiasi progresso delle sue conoscenze possa affinare, precisare e approfondire la percezione naturale che ne ha la sua mente. Il progresso delle conoscenze matematiche va sempre nel senso dell’immediata percezione degli oggetti matematici attraverso la mente, non si oppone a questa percezione; in altri termini i matematici cercano di mettere delle parole su quello che sentono, cercano di andare alla fine delle loro prime intuizioni, senza mai abbandonare il filo di queste intuizioni e se talvolta delle nozioni, delle teorie, dei risultati o delle dimostrazioni sembrano loro forzate, se lasciano loro un sentimento di malessere o di insoddisfazione, interpreteranno questo come un segno che non si è andati sufficientemente lontani e che manca ancora qualcosa di importante per la comprensione degli oggetti che stanno studiando. Per loro, per i matematici, il fatto che le rappresentazioni del mondo fisico che forniscono le scienze della natura siano estranee alla nostra percezione sensibile delle cose significa quindi che queste rappresentazioni sono parziali, che rendono conto solo e unicamente di una parte della realtà. E così il matematico ritrova la frase di San Paolo: “Parziale è la nostra scienza”. Un testo matematico si presenta come un seguito di affermazioni che scaturiscono le une dalle altre in modo meccanico: ogni linea sembra originare la successiva e, migliore sarà il testo, maggiore sarà il sentimento che è stato facile da concepire e in un qualche modo sarà stato come scrivere sotto dettatura. Ma più questa impressione di facilità sembra imporsi, più è lontana dalla realtà, in altri termini l’impressione del naturale, l’impressione della fonte che sorga senza sforzo è il risultato di un lavoro di elaborazione che ha richiesto sforzi immani. Ecco dunque un’altra lezione della matematica per l’essere umano: l’impossibilità di opporre il naturale o la natura e la cultura. Vediamo, in base al suo esempio, che ciò che coniuga al meglio il desiderio di comprensione della nostra mente, ciò che soddisfa maggiormente il nostro bisogno di verità in cui noi riconosciamo ciò che aspettavamo da sempre, è il frutto di un lavoro accanito. Non solo il lavoro di alcuni soggetti, bensì il lavoro di generazioni che ovviamente si susseguono di secolo in secolo. La matematica, come ho già avuto modo di dire, è una grande tradizione della mente dello spirito un insieme di conoscenze e di pratiche che gli uomini si trasmettono e continuamente approfondiscono e non di meno pretendono solo di esplicitare quello che è nella natura delle cose, ciò che non dipende dalle singole persone, ciò che aspettava una mente ed una mano per vederlo e per stenderlo sulla carta. Lo ripeto, la matematica cerca la ragione stessa delle cose, mentre le scienze di Galileo della natura, così come la fisica, costruiscono delle cose una rappresentazione particolare ed estranea all’immediata percezione, comunque un elemento meraviglioso, per l’audacia e per l’efficacia e l’efficienza. Tuttavia che si tratti della matematica o delle scienze di Galileo della natura, è impossibile capire come possano continuare a svilupparsi ulteriormente. Al di fuori del mio ambiente di matematico, ho spesso sentito persone che hanno espresso la loro sorpresa: “Ma come? Ci sono ancora delle cose da trovare e da scoprire in matematica?” Queste persone hanno ragione quando si stupiscono. O che esperienza meravigliosa che è quella della ricchezza inesauribile degli oggetti di studio della matematica e della fecondità della mente umana che si impadronisce di questi oggetti! Questa esperienza non può essere pensata razionalmente, non potremmo dimostrare che una matematica inesplorata aspetta ancora di essere scoperta, questa esperienza è l’esperienza della comunità dei matematici e quella personale di ogni ricercatore è un soggetto di stupore, di meraviglia ma non di spiegazione. La matematica e le scienze della natura sono una manifestazione della vita in un processo di oggettivizzazione ma la vita di per sé non può essere oggettivizzata. La vita può solo essere vissuta facendo della matematica, della fisica o facendo qualsiasi altra cosa, diventando servitori delle verità, servitori delle verità oggettivizzabili in termini di conoscenze, noi viviamo.
Prosperi: Volevo solo ringraziare veramente per questa testimonianza perché è tale, perché ci fa vedere come questo processo di oggettivizzazione, questo metodo che si impara nella matematica non è un procedimento freddo, questo cammino alla verità è proprio un innamoramento, e l’innamoramento può essere duro, può essere difficile, anzi è una caratteristica, come giustamente e in modo molto efficace sottolineato, perché come dice Milosz in Miguel Manara: “Può essere duro come mordere la pietra”. Quindi grazie ancora.
Doninelli: Grazie.
Appunti non rivisti dagli autori
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