Einstein 1905. Il genio all’opera

Benedetta CappelliniArticoli

Proponiamo la presentazione della mostra ‘Eintein 1905. Il genio all’opera’ allestita in occasione del Meeting di Rimini, il 22 agosto 2004.
Domenica, 22 agosto 2004, ore 19.00, Sala Neri
Relatore: Fortunato Tito Arecchi, Professore Ordinario di Fisica presso l’Università degli Studi di Firenze e Responsabile scientifico Istituto Nazionale di Ottica Applicata.
Moderatore: Mario Gargantini, direttore della Rivista Emmeciquadro.

Mario Gargantini: Questo incontro fa anche da presentazione alla mostra con lo stesso titolo “Einstein 1905. Il genio all’opera”, mostra dedicata all’annus mirabilis di Albert Einstein, appunto il 1905, e all’opera, al lavoro che in quell’ anno il giovane Einstein aveva prodotto.
Voglio innanzitutto ringraziare il Professor Tito Arecchi che ritorna al Meeting dopo un po’ di anni. Prima di dargli la parola volevo riprendere quella che è stata l’esperienza fatta insieme agli altri amici che hanno collaborato a curare la mostra, quello che abbiamo un po’ forse intuito e comunque quello che ci ha arricchito nel lavoro di preparazione della mostra che abbiamo appunto dedicato a: “Il genio all’opera”.
Abbiamo voluto usare questo titolo che indica il termine del “genio” con cui Einstein è notoriamente e solitamente identificato. Eravamo incerti sull’uso di questo termine, ma, effettivamente, nel suo caso, se ben capito, può essere utile. Innanzitutto il genio è qualche cosa che accade, come lui stesso dice: ”Da giovane non volevo e non mi aspettavo altro dalla vita che starmene tranquillamente seduto in un angolo a fare il mio lavoro senza che la gente mi badasse, e guardate invece cosa mi è successo”. Quindi è quello che è accaduto, in particolare in quell’ anno e poi dopo in tutto il resto della sua vita, ma quell’anno è stato particolarmente significativo perché, nel giro di pochi mesi, da marzo a dicembre, ha pubblicato cinque articoli sulla rivista Physik, la più importante rivista scientifica dell’epoca (aveva 26 anni, uno sconosciuto giovane impiegato all’ufficio brevetti di Berna), in particolare su tre argomenti che poi sono stati decisivi per lo sviluppo ed il rinnovamento della fisica nel ‘900.
Einstein in quel anno: quella figura diversa dalla solita che siamo abituati a conoscere – normalmente la faccia di Einstein è conosciuta nella sua visione da anziano, un po’ ironico, distaccato, un po’ sulle nuvole – insomma, però invece in quell’ anno questa è l’immagine del giovane Einstein che è visto, ripreso nel suo lavoro, al suo leggio nell’ufficio brevetti o nel suo studio di Berna. Ma ci sembra che per poter cogliere qualcosa, per poter intuire qualcosa della singolare esperienza del genio scientifico bisogna proprio vederlo all’opera, bisogna vederlo mentre lavora sul contenuto della sua ricerca in questo che si può definire un dialogo tra l’uomo e la natura, per capirne a poco a poco i significati e le leggi, le regole; dialogo che può trasformarsi in lotta quando la ricerca diventa difficile e faticosa come purtroppo al grande pubblico non appare perché, appunto, il grande pubblico viene sempre a contatto con i risultati, con i grandi successi, invece il lavoro della ricerca è un lavoro di lotta quotidiana per progredire passo dopo passo verso la meta, per cercare di rivelare quella che Einstein ha definito a volte come la stupenda struttura della realtà. Un genio quindi inimitabile come tale: l’esperienza del genio è qualcosa di unico, accade; ma accade qualche volta, accade a qualcuno, non accade sempre, e da questo punto di vista è irriproducibile, in un certo senso inimitabile; è una dote, potremmo dire, è un dono, è un dono che a qualcuno è data, ad Einstein sicuramente è stato dato il dono di intuire qualcosa in più, di cogliere qualcosa in più dei segreti della natura. Ma il genio è anche uno che riesce a vedere, ma a vedere meglio ciò che tutti hanno sotto gli occhi, il genio è colui che di fronte alla realtà così come tutti la accostano riesce proprio a gettare uno sguardo più profondo e più penetrante, più adeguato, che riesce a rivelarne a poco a poco i caratteri. E allora, da questo punto di vista si può imparare, perché dopo, quando si rivela il risultato del suo lavoro, allora è possibile imparare da come lui ha affrontato il problema, imparare da come ha fatto i vari passi verso la soluzione, da come ha interpretato i risultati sperimentali, da come ha lavorato sui dati, da come ha combinato logicamente tutto l’insieme delle riflessioni che il lavoro sperimentale comporta. Quindi ha questi due aspetti apparentemente contraddittori: è inimitabile ma è imitabile, è distaccato, è lontano da noi, inarrivabile, ma, in un certo senso, è vicino; quindi, in Einstein convivono, come per altro nella sua stessa scienza, alcuni paradossi di questo tipo.
D’altra parte è interessante vedere come, in questo lavoro di avvicinamento al nocciolo della realtà, ogni passaggio di un momento cruciale della ricerca rivela nuovi aspetti, spalanca quindi nuovi orizzonti, fa intuire qualcosa d’altro, stimola a continuare un ulteriore cammino; lo si vede molto bene anche nelle sue intuizioni, alcune folgoranti: l’intuizione di un certo tipo di rapporto tre spazio e tempo, il ruolo decisivo, cruciale della luce di cui poi il Professor Arecchi parlerà più a fondo; e nello stesso tempo, quindi, questo aspetto di spinte in avanti, di ampliamento, di allargamento, di rinnovamento, alcuni anche hanno usato il termine  rivoluzione, lui l’ha usato poco, solo nella lettera che pubblichiamo all’inizio della mostra, in riferimento non tanto alla relatività, ma proprio in riferimento all’effetto fotoelettrico, la scoperta per la quale ha poi avuto il Premio Nobel. Ma se da un lato c’è questo aspetto di rinnovamento, da avanzamento, dall’altra parte c’è un aspetto di aggancio con l’origine, di aggancio con la tradizione, di aggancio con la realtà che viene prima, quindi ogni passo avanti spalanca nuovi orizzonti, ma nello stesso tempo consolida il territorio della conoscenza acquisita. Einstein non ha sconfessato Newton, ha approfondito le intuizioni di Newton ed ha ovviamente allargato il campo di applicazione inglobando nuovi aspetti, nuovi effetti, nuove dimensioni, quindi in lui convivono, come in tutti i grandi innovatori, questi aspetti di proiezione verso il nuovo, verso il futuro e di consolidamento, di aggancio con l’origine e con la tradizione.
Ci è sembrato di poter cogliere i caratteri fondamentali della sua visione, perché per capire Einstein bisogna capirlo tutto intero, non si può spezzare, non si può guardare soltanto l’aspetto specifico tecnico del singolo passaggio, del singolo teorema: per lui l’esperienza scientifica, come per altri grandi, era un’esperienza unitaria, era tutta la persona coinvolta nel lavoro della ricerca. E allora ci è parso di cogliere alcuni caratteri di questa sua visione che sono quelli che hanno guidato anche concretamente il suo lavoro, la sua riflessione, che lui stesso poi ha esplicitato in questi termini: la ricerca della semplicità, della massima semplicità possibile nel caos apparente dei fenomeni naturali, la ricerca di una chiarezza e di un rigore logico nell’arrivare alle teorie e il tentativo, in parte anche drammatico e disperato, negli ultimi anni, di arrivare ad una visione sempre più unitaria. Ma lo si vede nelle prime ricerche, come quella, per esempio, sul moto browniano e sull’effetto fotoelettrico che poi sono le due parti preponderanti della mostra, perché sono le ricerche di quell’ anno; ma poi dopo, negli ultimi anni, quando era alla ricerca di una teoria unitaria dei campi, questa sua visione, questa sua convinzione di una possibile unità, anche se a volte è difficile da rilevare nella natura, l’ha guidato nelle sue scoperte, nelle sue teorie. Ma già in una lettera all’amico Grossmann nel 1901, quindi era ancora giovanissimo, ancora si nota questa  caratteristica come un’impronta del suo modo di fare ricerca. Scrive a Grossmann: “È una sensazione straordinaria riconoscere l’unità di un complesso di fenomeni che all’osservazione diretta sembrano cose del tutto distinte”. Quindi è evidente l’effetto, l’importanza di queste grandi linee di visione della realtà per guidare lo specifico della ricerca. Ancora, l’importanza, naturalmente, del linguaggio matematico, quello che a volte anche allontana dallo studio, dall’approfondimento delle sue teorie; soprattutto nel caso della relatività generale, che qui non trattiamo perché è posteriore al 1905, ma è certamente tutta determinata dall’utilizzo a fondo del rigore del linguaggio matematico perché è la possibilità che la natura diventi leggibile. L’avvenimento della conoscenza scientifica non è quindi l’esito di una procedura automatica, meccanica, ma è un atto creativo – lui l’ha più volte evidenziato, e nel suo caso questo è evidente – tuttavia quando parliamo di creatività, anche nella scienza, questa non si esprime come pura costruzione fantastica, così totalmente immaginaria, senza regole, senza nessun criterio, senza limiti, ma è una modulazione particolare di un rigoroso linguaggio matematico in tutte le sue infinite tonalità e articolazioni.
Qui è interessante perché pone proprio il problema della possibilità di avere un fondamento sicuro nella ricerca – anche qui la certezza dei punti solidi su cui poggiare per affrontare il nuovo, per il progresso, per il progresso anche nella conoscenza – dice: “Se è vero che il fondamento della fisica teorica non discende direttamente dall’esperienza e deve essere al contrario creato liberamente, sussiste la speranza di trovare la strada giusta? O, a più forte ragione, questa giusta strada esiste soltanto nella nostra immaginazione? E soprattutto possiamo sperare di trovare nell’esperienza una guida sicura se vi sono teorie (come la meccanica classica) che danno largamente ragione all’esperienza senza afferrare il fondo della questione? A questo rispondo con sicurezza che a mio avviso la via giusta esiste e che possiamo trovarla. Secondo la nostra esperienza fino ad oggi abbiamo diritto di essere convinti che la natura è la realizzazione di tutto ciò che si può immaginare di più matematicamente semplice”. E’ proprio questa la ricerca; lui è arrivato a questo punto proprio seguendo un filo di discorso che tende alla ricerca di ciò che di più matematicamente semplice è possibile.
Ancora, sempre per stare ai criteri che hanno guidato ed orientato il suo lavoro: certamente non era un relativismo quello che l’ha guidato, come banalmente viene ancora a volte purtroppo indicato; si può volgere al contrario l’affermazione: la sua teoria non porta a dire “tutto è relativo” ma casomai porta al contrario a dire “alcune cose sono invarianti”: l’accento della teoria della relatività non è la relatività, ma è ciò che non è relativo, ciò che è assoluto. Addirittura M. Planck è proprio quello a cui si deve purtroppo il nome relatività, è stato quello che più volte in seguito ha affermato il carattere della relatività come teoria dell’assoluto, di qualcosa che non varia, di alcune relazioni matematiche fondamentali che restano invarianti all’interno delle varie conoscenze della natura. Lo storico della scienza G. Holton sottolinea questo punto, dice: “Teoria della relatività è una denominazione data da altri; l’epistolario di Einstein prova che egli avrebbe preferito l’espressione direttamente opposta, ma molto più precisa, l’avrebbe dovuta chiamare Teoria dell’Invarianza, perché egli si interessava prima di tutto alle costanze al di là del cambiamento”. E’ chiaro che la natura ci si presenta come caos, come cambiamento, come mutazione, come disordine, ma lo scienziato punta a rintracciare ordine, continuità, costanza al di là del cambiamento. Lui stesso dice: “L’essenza della teoria della relatività dice soltanto che le leggi generali sono di natura tale che la loro forma non dipende, (quindi è indipendente ed invariante) dalla alla scelta del sistema di coordinate.”
Il metodo del suo modo di accostare la natura poggia su due piloni principali, su due linee principali: l’esperienza, il rapporto con l’esperienza. Ad un certo punto dice: “Nel considerare la natura specifica della teoria della relatività tengo a mettere in evidenza che questa teoria non è di origine speculativa, ma che la sua scoperta è dovuta completamente ed unicamente al desiderio di adattare quanto meglio è possibile la teoria fisica ai fatti osservati. Non si tratta di un atto rivoluzionario, ma dell’evoluzione naturale di una linea seguita da secoli. Non è a cuor leggero che si sono abbandonate certe idee considerate fino ad allora come fondamentali, sullo spazio, il tempo e il movimento; il che è stato imposto unicamente dall’osservazione di alcuni fatti”. Il primo punto è dunque il radicamento nel contatto con la realtà, con l’esperienza.
Secondo pilone della sua costruzione è l’intuizione, la libera creazione, come anche alcune intuizioni folgoranti come nel caso della teoria della relatività, alcune volte addirittura arrivate quasi inaspettate: “Dopo sette anni di vane riflessioni – la lotta di cui parlavo prima – la soluzione mi venne all’improvviso con il pensiero che i nostri concetti e le nostre leggi di spazio e tempo possono reclamare la loro validità soltanto finché si mantengono in una chiara relazione con la nostra esperienza; e l’esperienza poteva benissimo portare alla alterazione di tali leggi e concetti. Grazie ad una alterazione del concetto di simultaneità – che nella mostra potete vedere anche simulato in un esperimento che traduce in pratica gli esperimenti ideali che lui amava fare -, in forma più malleabile, giunsi dunque alla teoria della relatività ristretta”.
Esperienza e intuizione, quindi, sono le corsie preferenziali per la conoscenza scientifica, ma non possono operare secondo regole e schemi automatici, meccanici, meccanicamente riproducibili. Ci vuole un certo tipo di contatto e di rapporto con la realtà. Einstein stesso dice: “Non vi è alcuna via logica – logica nel senso di meccanica, automatica, nessuna ricetta e nessuna procedura – che porti a queste leggi elementari; solo l’intuizione sostenuta dal fatto di essere in contatto simpatetico con l’esperienza”. Quindi questo tipo di rapporto di amore, di amicizia, di relazione simpatetico con l’esperienza è quello che facilita, che permette il libero gioco creativo dell’intuizione. G. Holton ha anche tentato di formalizzare il procedimento della ricerca: abbiamo ritrovato un suo appunto con un disegno su come lui rappresentava il procedimento della conoscenza scientifica, indicandolo come “Niente più che un perfezionamento del pensiero quotidiano”. Questo è interessante perché vuol dire che all’interno di questo ci sono spunti che possono interessare a tutti. Può essere interessante anche per coloro che non sono scienziati o coinvolti nel lavoro scientifico, perché tutte le forme di conoscenza si aiutano e si sostengono vicendevolmente.
Allora ho ricostruito, come avrebbe fatto lui se avesse avuto il powerpoint, lo schema mostra, il ciclo della ricerca scientifica. Secondo Einstein c’è il campo delle esperienze con i singoli fenomeni; ci sono dall’altra parte una serie di assiomi, di principi che vengono fissati, che in qualche modo sono collegati con l’esperienza. Ma c’è un salto logico nel senso che non derivano dall’esperienza: sono certamente collegati, perché tutto quello che facciamo e pensiamo in qualche modo deriva dall’esperienza vissuta, ma c’è un salto non automatico che porta a  stabilire degli assiomi di partenza dai quali si deducono logicamente diverse possibili conseguenze, che sono candidate ad essere spiegazione dei fenomeni, risoluzione dei problemi. A questo punto queste deduzioni vengono rimesse in contatto con la realtà, quindi con i fatti, con i fenomeni, trovando un maggiore o minore accordo, una maggiore o minore adeguatezza della deduzione cui si arrivati col fatto in sé. E questo ciclo riprende, continua, con un sempre maggiore adattamento. È interessante questo, mette in evidenza questo fatto del salto dell’intuizione. Il salto alla sommità dello schema rappresenta il momento prezioso di grande vigore della risposta alla motivazione della ricerca, che è la meraviglia e la passione della comprensione che scaturisce dall’incontro con le caotiche esperienze.
Infine, per concludere, tutto è possibile se c’è un forte movente che permette di continuare e di far procedere la ricerca. Il movente lo possiamo individuare in almeno due punti principali: il desiderio di svelare i segreti della realtà – la ricerca non potrebbe agire senza essere sostenuta dal desiderio di cogliere quella che è chiamata “la trama armoniosa e ordinata della realtà”. Durante la commemorazione di Max Planck– parla di Planck ma parla anche di come lui vive la ricerca – lui stesso dice: “Il desiderio ardente di una visione di questa armonia prestabilita è la fonte della perseveranza e della pazienza inesauribile con la quale vediamo Planck dedicarsi ai problemi più generali della nostra scienza. Ho sovente inteso dire che alcuni colleghi attribuivano questo modo di agire ad una energia e a una disciplina straordinarie: credo che abbiano del tutto torto. Lo stato sentimentale che rende idoneo a simili azioni rassomiglia a quello dei religiosi o degli amanti: lo sforzo giornaliero non deriva da un calcolo o da un programma, ma da un bisogno immediato”. Da un bisogno immediato di rapporto con la realtà. Einstein stesso altre volte dice “A me basta la meraviglia di questi segreti e tentare umilmente di cogliere con la mia mente una semplice immagine della sublime struttura di tutto ciò che è lì presente”, quindi una presenza che avverte e della quale tenta giorno dopo giorno di cogliere qualcosa.
E per finire, l’aspetto della positività per la possibilità della ricerca. La faticosa speranza che questo fine ultimo possa essere raggiunto è la fonte principale di quella dedizione appassionata che ha sempre animato la ricerca.
Commenta Torrance, parlando della figura di Einstein e commentando la sua celebre espressione “Dio non si diverte a imbrogliarci”. La radice, il fondamento di questa positività, di questa possibilità del cammino del progresso, della ricerca è il fatto che Dio non si diverte a imbrogliarci, cioè: “c’è un ordine immanente dell’universo della cui inviolabilità restiamo totalmente convinti; perché senza di esso l’universo non sarebbe accessibile in alcun luogo all’indagine razionale e noi non saremmo in alcun modo capaci di pensiero o di comportamento razionale. Così, mentre in senso logico un tale ordine dell’universo non può essere né verificato né dimostrato falso, esso resta la più persistente di tutte le nostre convinzioni scientifiche, giacché senza di esso non potrebbe esserci alcuna scienza; pertanto non crediamo che ci sia o ci possa essere qualcosa che in ultima analisi possa valere contro di esso”. È quello che, con una frase di quelle secche e efficaci, Einstein ha indicato così: “Dio è sottile ma non maligno”. Quindi la possibilità di continuare verso la meta della ricerca c’è, è fondata su questa sottigliezza della natura che richiede tutto un lavoro, come avremo modo di vedere nella relazione del professore Arecchi, ma nello stesso tempo è animata continuamente dalla convinzione ferma che Dio non ci imbroglia e quindi questo cammino è possibile. Grazie.
Do adesso la parola al professore Arecchi, che è professore ordinario di fisica superiore all’Università di Firenze, responsabile scientifico dell’Istituto Nazionale di Ottica, che ha diretto dal ’75 e del quale ha impostato le linee scientifiche. Da allora ha lavorato in diversi campi: si è occupato di statistica dei fotoni, di dinamica non lineare del laser, di caos deterministico. Ci darà questo contributo su Einstein senza la relatività .

Fortunato Tito Arecchi: In che clima culturale cominciava ad operare Einstein? Nel 1905, cento anni fa: l’anno in cui cominciava a produrre cose scientifiche di molto peso. C’era un dualismo tra le scienze fisiche e le cosiddette scienze dello spirito o scienze umane. Questo dualismo non è ancora superato. Quando io cominciavo la mia carriera scientifica era di moda un libro scritto da un giornalista e divulgatore inglese che era il gap fra le due culture. Questo gap fra le due culture ancora regna, vediamo in cosa consiste. Nelle scienze fisiche ogni modello di cui parliamo è rappresentato da una pallina, il che vuol dire che noi, in maniera univoca, riusciamo a esprimere delle proprietà di un pezzo di natura. Siccome riusciamo a coglierle in maniera compatta, come si vede da questa pallina, se io devo andare da un certo oggetto fisico e da questo dedurne un altro, un’altra proprietà fisica, lo posso fare in maniera privilegiata con una procedura univoca, come un treno diretto, come una ferrovia da qui a qui. Questo sembra l’archetipo del ragionamento del fisico: è molto schematico e di solito è disgustoso per i cosiddetti umanisti. D’altronde, essendo molto efficace, è stato preso come modello per sviluppare la matematica formale da David Hilbert, che aveva enunciato una possibilità di organizzare tutta la matematica sotto questa struttura proprio nel 1900, in questi anni. Qui ho messo i nomi di due fisici viennesi che bisticciavano moltissimo fra di loro: entrambi hanno influenzato per vie diverse Einstein e avevano in comune la fede nella struttura ordinata e univoca di una procedura scientifica che era di questo tipo. Notate bene che una matematica che presumesse di essere altrettanto precisa e certa, incontestabile, deve rispondere a una certa serie di quesiti che sono i famosi problemi di Hilbert, che hanno rappresentato dei grattacapi per decenni finché un altro viennese, -fra le altre cose- ha fatto vedere come la matematica di questo tipo è una specie di mito mentale che noi ci costruiamo e non esiste, perché prima o dopo incappiamo in delle bucce di banana su cui noi scivoliamo. Posto che le nostre procedure mentali siano di questo tipo. Pochi anni dopo un genio matematico inglese fece vedere come questo che può sembrare una caricatura del modo di procedere della nostra mente, è in effetti il modo di procedere di un computer. E il computer, vedi caso, si blocca su limitazioni di questo tipo. Per esempio, se noi lanciamo un programma al computer, il computer in genere non sa quando fermarsi. È una impossibilità legata al fatto che non è vero che l’universo del computer possa essere fatto in maniera limpida con collegamenti di questo tipo.
Vediamo che cosa succedeva nell’altro campo, come una partita di calcio, perché la partita di calcio è ancora accesa: le cosiddette scienze umane. Negli stessi anni un tedesco, in opposizione alla famosa critica della ragion pura di Kant, scritta verso la fine del settecento, scriveva una critica della ragione storica. Il succo, se volete, è questo: supponiamo di connettere nel linguaggio una parola A a una parola B. Ogni parola è come un sacchetto del supermercato dove ci sono tanti possibili significati, cioè ogni parola è polisemica. Il che vuol dire che quando noi connettiamo, nel linguaggio di tutti i giorni – vedete, questa è una procedura che non è necessariamente limitata alla fisica, è quello che facciamo tutti i giorni quando connettiamo una parola A a una parola B – lo possiamo fare in molti modi. E questa possibilità dei molti modi è molto conosciuta soprattutto ai politici, agli avvocati, ai rappresentanti di commercio che devono cercare di convincervi che della parola A dovete prendere questo significato e approdare necessariamente alla parola B con questo significato. Questa pluralità di significati, che tecnicamente viene chiamata polisemia, è la cosa contro cui hanno urtato la testa già nel settecento o, prima ancora, tutti quelli che erano dibattiti su come leggere e interpretare i testi biblici. La chiesa cattolica e le chiese protestanti avevano sviluppato una ermeneutica che è diventata scienza formalizzata: conoscete il nome di Heidegger e chi legge i giornali – soprattutto i giornaletti pettegoli – sa che esiste un certo Gianni Vattimo che è una specie di cultore di neosofismo. In definitiva, questo fatto che io possa ingannare il prossimo scegliendo in maniera artefatta un significato della parola A e appiccicandolo al significato della parola B, era quello che disturbava talmente Socrate, perché era la procedura retorica dei sofisti. La forza dell’argomentazione è un prevaricare, perché non siamo più di fronte a dei contenuti di realtà, tutte queste sono possibili realtà. Tutte queste realtà potenziali si possono collegare a un’altra potenziale realtà. Ma che cosa dobbiamo prendere per A e che cosa dobbiamo prendere per B? Questa era la struttura delle scienze umane, per cui i cultori delle scienze umane – in Italia avevamo, fra l’altro, un certo Benedetto Croce in quegli anni, che cercava di mettere i bastoni fra le ruote a chiunque osasse prospettare una procedura razionale di questo tipo. Allora c’era un povero matematico e filosofo della scienza, che si chiamava Enriques, di Bologna la cui vita era diventata infelice perché questo Benedetto Croce – ora forse i più giovani non ne hanno sentito parlare, ma era una persona effettivamente prepotente che riusciva a dominare, diremmo oggi, i media e a distruggere una reputazione – impediva che in Italia ci fosse un discorso o un approfondimento su discorsi di questo tipo. Perciò l’Italia per decenni è stata sottratta da un contributo creativo a questo tipo di problematica che invece veniva sviluppato dai tedeschi e poi dagli inglesi.
Vedete cosa succede? Una macchina, se della parola A preleva un significato, in maniera incontrovertibile la connette, con questa freccia qui sotto, a un altro possibile significato della parola B. Sia per A sia per B vi sto rappresentando due significati privilegiati, non vi ho messo tutto il sacchetto del supermercato con tante palline. Viceversa, se noi partiamo da questo significato per B dobbiamo riapprodare a questo significato su A. Questa procedura è stata chiamata “circolo ermeneutico”: il cuore del problema ermeneutico, se volete del problema interpretativo, è come fare le giuste connessioni fra un significato di A e un significato di B. Questo è il cuore del problema, appoggiandoci a tutto quello che è la tradizione culturale dentro cui noi siamo inseriti. Una analisi della situazione storica, dei testi critici, di tutto quello che volete, ci deve portare a chiudere questo circolo ermeneutico. Questa situazione non richiede assolutamente un essere umano con tutta la sua libertà e con tutta la sua capricciosità e la sua possibilità di sbagliare: va molto meglio una macchina. Quando parlo di macchina intendo un computer, al limite come questo: è il computer ideale. Noi procediamo in una maniera più libera, possiamo partire da questo significato per la parola A, approdare a questo significato per la parola B e poi, da questo, se noi riflettiamo all’indietro, non necessariamente torniamo a questo significato ma possiamo svilupparci un altro significato e così via. Al concetto di circolo ermeneutico dobbiamo sostituire quello di spirale ermeneutica, che va oltre il computer. Ci sono due cose importanti.
La prima è quello che è il dono ma anche il rischio della libertà, che manca continuamente alla macchina – la macchina è costretta a fare questo giro su se stessa e non ne esce più. Invece noi possiamo sempre uscire, ma possiamo uscire anche in maniera sbagliata perché da B nel tornare ad A possiamo beccare un significato sballato e quindi rischiarci forte.
La seconda cosa è che l’osservatore non è separabile dal mondo. L’osservatore si immerge nel mondo, e allora le parole A e B non stanno catturando soltanto significati di oggetti che noi in maniera contemplativa possiamo vedere staccati da noi, ma noi ci siamo dentro a rimestare le carte e in un certo senso facciamo parte essenziale dello stesso mondo che stiamo raccontando. Vi sto dicendo queste cose perché se noi vediamo questa come una tesi – per usare la triade Hegeliana – e questa come una antitesi, e quindi diciamo che da una parte abbiamo il modo di procedere dei fisici o degli scienziati della natura – mettiamoci dentro anche i biologi – e dall’altra parte abbiamo il modo di procedere degli avvocati, dei filosofi, degli storici o dei critici letterari, questa potrebbe essere una sintesi fra i due approcci. Il resto della mia presentazione vi fa vedere come Einstein offra gli elementi per operare questa sintesi fra i due punti di vista, quello delle scienze fisiche e quello delle scienze umane.
Facciamo un passo indietro: come nascono le parole della scienza? Se noi abbiamo una mela, nel linguaggio ordinario la chiamiamo “mela”. Ma se io dico “mela”, io mi sono fatto l’idea di una mela rossa, un altro     si farà l’idea di una mela verde, un altro si farà l’idea di una mela grossa, io pensavo una mela piccola e così via. Per uscire da queste ambiguità legate ad esperienze soggettive, introduciamo degli apparati di misura. Introduciamo un saporimetro, un colorimetro, un formometro: e allora il sapore diventa un possibile punto su questa retta graduata, i vari gradi di sapore sono listati su questa prima retta, i vari gradi di colore su questa seconda retta, le varie forme qui sopra, i vari pesi qui sopra. Questo era il punto di vista con cui Galileo ha dato inizio alla fisica moderna. Infatti, in una lettera che scriveva ad un suo amico nel 1610, diceva che non bisognava tentare le essenze, cioè la natura delle cose, non bisognava preoccuparsi di che cos’è la mela, ma ci si doveva accontentare delle affezioni quantitative. Perché di una mela possiamo misurare il sapore – allora non c’era un saporimetro ma oggi c’è – il colore, l’odore: tutte queste cose le possiamo misurare. Per eccellenza, dopo Galileo venne Newton che disse che c’è un modo più semplice: la mela è fatta di tanti ingredienti elementari, molecole o atomi che siano. Basta che di ognuno di questi diamo posizione e velocità e possiamo costruire tutta la realtà della mela. Dopo Newton si cerca di descrivere solo con posizione e velocità delle particelle costituenti. Allora nasce un problema: chi ci dice che abbiamo esaurito la realtà della mela quando le abbiamo attribuito un sapore, un colore, una forma, un peso? C’è qualcosa che ci è sfuggito? Per lo meno, questi quattro cinque parametri sono sufficienti a stabilire un codice a barre per classificare i vari tipi di mele in un supermercato, dal punto di vista merceologico vanno bene. Ma dal punto di vista di cogliere la realtà profonda di una mela, come la coglierebbe Morandi o Cezanne, c’è qualcosa che nel codice a barre del supermercato non è stato trasferito, che fa parte della realtà della mela, del nostro privato sulle mele. È completa la nostra  descrizione delle mele in base a queste affezioni quantitative di cui parlava Galileo? Oppure, se invece andiamo a posizione e velocità degli atomi, è completa la descrizione? Vediamo un pochino.
Noi fisici parliamo di modello. Che cosa intendiamo per modello? Abbiamo visto che una mela si è ridotta a una collezione di numeri: un numero per il sapore, un numero per il colore, un numero per la forma e così via. Invece di parlare di mele e cominciare a bisticciare, “la mela può essere rossa o verde”, diamo i numeri e ci intendiamo dando i numeri, come nelle barzellette sui matti. In questo dare i numeri, se noi vediamo una corrispondenza fra colore e odore, fra il numero che individua il colore e il numero che individua l’odore, allora la legge corrispondente  la chiamiamo induzione, la relazione corrispondente la chiamiamo induzione. Invece, se noi vediamo una relazione fra il colore oggi e il colore fra una settimana – oggi la mela è rossa, fra una settimana sarà color marcio – allora diciamo che M, il colore della mela, al tempo t è rosso, al tempo t1 sarà colore bruno, allora possiamo fare una predizione, questa predizione la può fare chiunque, anche se l’ha messa in frigorifero, dopo una settimana, quindici giorni la mela è marcia.
L’induzione rappresenta una serie di elementi, che noi chiamiamo algoritmi o metodi, per collegare i concetti che sono questi numeri che noi abbiamo estratto, queste affezioni quantitative per usare il termine di Galileo. Orbene, è questa la cosa importante. L’Einstein della relatività speciale e generale, quello per cui è più famoso, è a tutti gli effetti un fisico ortodosso post-newtoniano. Questo programma è nato con Galileo, perfezionato da Newton, è portato alla perfezione da Einstein. Con Einstein c’è un coronamento di trecento anni di fisica. Ma l’altro Einstein, di cui vi voglio parlare, è quello che apre due rivoluzioni nuove: una che chiamerò Q, dove Q vuol dire rivoluzione quantistica; l’altra che chiamerò CLR dove con CLR intendo correlazioni a lungo raggio. Per far questo io prendo in considerazione sette lavori di Einstein scritti fra il 1905 e il 1924: alcuni di questi danno luogo alla rivoluzione quantistica, altri alle correlazioni a lungo raggio. Vediamo che cosa vuol dire questo.
Quella pallina univoca che vi avevo detto si sparpaglia nella specie di sacchetto della spesa: la rivoluzione quantistica introduce una incertezza per cui unisce quelli che sembravano due discorsi scorrelati, il gap fra le due culture non esiste più attraverso questa incertezza che proviene dal formalismo quantistico. Questi lavori sono tipici del formalismo quantistico, ora li analizzeremo. Nelle correlazioni a lungo raggio, invece, i vari significati che abbiamo visto come staccati uno dall’altro hanno un modo sottile, profondo di correlarsi. Allora a un certo punto scoppia l’illuminazione: tutto questo qui, su cui un venditore di prodotti punterebbe l’attenzione, un avvocato punterebbe l’attenzione, un politico punterebbe l’attenzione, un polemista punterebbe l’attenzione…, in tutto questo esiste un significato principale e si illumina il tutto come un sole: questo è il significato di correlazione a lungo raggio. Questo fa vedere che non è vero che il discorso della fisica è univoco, non è vero che i vari significati sono scorrelati come ritenevano i sofisti, ma hanno un modo segreto di essere unificati fra di loro per cui quella verità che Socrate e Platone cercavano al di là della retorica dei sofisti esiste e si può cogliere, e Einstein in un certo senso fornisce gli strumenti concettuali per questo.
Io devo rapidissimamente passare in rassegna i sette lavori. Cominciamo dal primo sull’effetto fotoelettrico. Consiste in questo: se noi prendiamo una piastrina di metallo e la illuminiamo con della luce, da questa piastrina  – come vedrete nella mostra – escono degli elettroni che vengono raccolti fra questo elettrodo e la piastrina, e si vede circolare una corrente se qui abbiamo applicato una pila. Cos’è che succede? Facciamo variare il colore di questa luce. Se noi stiamo dando una luce gialla, allora quello che fa vedere Einstein è che ogni corpo tende a mantenere i propri elettroni, gli elettroni trovano una specie di barriera per scappare, non è che possono scappare così facilmente. Noi siamo pieni di elettroni, se scappassero dopo un poco ci troveremmo senza elettroni, sarebbe un assoluto disastro. Quindi il metallo tiene gli elettroni confinati da questa specie di scalino. Se noi mandiamo la luce gialla, un granello di luce gialla permette a un elettrone di superare questa barriera, e allora viene fuori questa luce. Se io ora mando un granello di luce blu, questo granello è un pochino più grosso e allora l’elettrone esce con una velocità maggiore e quindi la corrente è maggiore. Se ora invece mando una luce infrarossa i granelli di questa luce sono così piccini che nessuno di questi permette all’elettrone di fare il salto e uscire e quindi non c’è nessuna corrente. La luce non è più un fluido continuo, ma finisce per avere una struttura granulare, è fatta come tante zollette – quelle che poi verranno chiamate  fotoni –; e ogni fotone, la cui energia è proporzionale al colore, o non ce la fa o ce la fa per conto suo, è inutile che io continui ad accumulare fotoni nell’infrarosso, se uno non ce la fa non ce la faranno neanche cento né mille. Questa è la base dell’effetto fotoelettrico, che è descritto da questa formula: E sta per energia, la lettera greca n sta per la frequenza, per il colore della luce, e h è una costante moltiplicativa che viene chiamata in gergo “costante di Plance”. C’è una proporzionalità fra l’energia, cioè fra l’altezza di queste barrette, e il colore della luce. L’infrarosso è un brutto colore e non permette agli elettroni di fuoriuscire; il giallo permette appena di fuoriuscire; il blu fa fuoriuscire alla grande.
L’altro lavoro importante, sempre del 1905, riguarda il cosiddetto moto browniano. Robert Brown era un naturalista scozzese che all’inizio dell’Ottocento, osservando al microscopio dei granelli di polvere messi su un bicchiere d’acqua osservò che questi si agitavano con continuità. Allora disse: “Sarà la spinta iniziale, dopo un po’ si fermeranno”. E invece, dopo giorni questi continuavano ad agitarsi. La spiegazione che  viene da Einstein è la seguente: ogni granello di polline – questa pallina blu  -richiede le spinte dalle molecole dell’acqua – le palline rosse. Questo dà luogo ad una fluttuazione, una agitazione della pallina blu perché tanti urti ci sono sul davanti, tanti urti ci sono sul di dietro. In genere gli urti che riceve sono scorrelati, non hanno alcun tipo di collegamento tra di loro. Se questa pallina l’abbiamo buttata in acqua con una velocità iniziale, che è questa freccetta – è una esperienza comune a chiunque di voi vada a giocare al biliardino -, a parità di velocità delle bigliette, l’urto è tanto più importante se ricevuto sul davanti che sul di dietro rispetto al moto relativo di questa biglietta. Nasce una dissipazione, cioè un frenamento. La cosa importante – che si chiama “teorema di fluttuazione e dissipazione” – è che il rapporto fra fluttuazione e dissipazione è proporzionale alla temperatura. L’unico modo per bloccare il legame rigido tra fluttuazione e dissipazione è bloccare completamente la temperatura.
Nel 1909 Einstein estese e risolse il problema del calore specifico. Cos’è il calore specifico? Quando abbiamo un pentolino e ci dobbiamo fare il caffè o la pastasciutta, l’acqua dentro il pentolino cattura energia dalla fiamma. Si chiama calore specifico l’energia che ogni molecola del pentolino d’acqua sta catturando. Se il catturare è una proprietà delle molecole, questa deve essere indifferente se le molecole sono calde o sono fredde. Se invece di prendere delle molecole ad alta temperatura io avessi preso delle molecole a temperatura bassissima, il calore specifico dovrebbe rimanere costante, la quantità di calore che devo fornire per innalzare la temperatura del pentolino dovrebbe essere la stessa. Invece, sperimentalmente quello che si vede è che andando a bassissime temperature il calore specifico si abbassa. La spiegazione fornita da Einstein è la seguente. Se noi prendiamo un solido, il calore specifico non è preso dalle molecole del solido, ma è accumulato nei  legami elastici che ci sono fra le molecole del solido. Queste onde elastiche si comportano come le onde luminose, sono fatte di granelli che poi sono stati chiamati fononi, di conseguenza l’energia di questi granelli va a salti come andava l’energia dei fotoni quando passavano dall’infrarosso al giallo al blu. Abbiamo una specie di scalinata dell’energia. Se il nostro sistema è ad alta temperatura, la probabilità in funzione dell’energia è una curva che fa così. Ha una media che grossomodo è dove c’è questa stelletta, e si trova nel mezzo di questa scalinata di energia. Che questi livelli siano radi o siano densi, non fa molta differenza ed è per questo che ad alte temperature non c’è nessuna differenza fra risultati sperimentali e questa legge teorica. A bassissima temperatura la curva di probabilità va subito a zero, allora l’energia media sente in pieno questa struttura discreta, che avevamo chiamato fononi, e allora il calore specifico è basso.
Questo lavoro del 1910 è importantissimo perché fa vedere che le fluttuazioni della luce che io sto indicando con questa lettera greca d ed m2 sono fatte di due pezzi: un pezzo che viene chiamato contributo di particella e uno che viene chiamato contributo d’onda. Notate bene che se la luce fosse stata fatta soltanto di onde avremmo avuto soltanto questo pezzo. Infatti questo secondo pezzo era stato già trovato qualche anno prima, nel 1904-1905. Einstein fece vedere che se c’era una struttura granulare, ci doveva essere anche un contributo di particelle e che questo contributo di particelle era di questo tipo. Scusate se sono vanitoso – la prima misura a riguardo l’ho fatta io molti anni dopo, nel ’65, quando molti di voi non erano nati e io ero molto più giovane di ora. Si vide che effettivamente le fluttuazioni della luce sono fatte di questo contributo e di quest’altro contributo. Chi di voi ha familiarità con la fisica sa che un altro grande fisico, Neils Bohr, aveva enunciato un principio di complementarietà, che consiste in questo: quando noi facciamo un esperimento, o isoliamo l’aspetto d’onda o isoliamo l’aspetto di particella. Con una eccezione che era già stata fatta vedere da Einstein. Nel caso, che noi stiamo studiando, delle fluttuazioni sia d’onda sia di particella, si trovano entrambe presenti e non sono separate o separabili.
Nel 1910 scrisse un lavoro sulla opalescenza critica; vediamo in cosa consiste perché questo è ciò che introduce alle correlazioni a lungo raggio. Se noi abbiamo una celletta, come questa scatola rettangolare, piena di molecoline, queste fanno un gas. Se noi la illuminiamo con un fascio di luce, la luce passa in maniera trasparente perché le molecole sono così piccine che praticamente non vengono a contatto con la luce. Però le molecole non sono separate l’una dall’altra, non interagenti come era stato detto per il moto browniano. Hanno una forza di legame una con l’altra che è debolissima, di solito non si vede. Se noi abbassiamo la temperatura questa mutua interazione prevale; allora ogni molecola ha una correlazione a lungo raggio che è rappresentata da questo cerchio. Allora la molecola non è più quel pallino blu ma è tutto questo muro rosso. Come voi vedete, questo pennello di luce viene sparpagliato in questa direzione, poi in quest’altra e così via. Questo andare tutt’intorno rende questa celletta di liquido a bassa temperatura lattiginosa, ed è quella che viene chiamata opalescenza critica: è l’evidenza che le molecole non sono ognuna per conto proprio ma, a bassa temperatura, finiscono col formare una specie di muro che è fatto dalla collezione di tutti questi cerchi rossi. Notate bene che la cosa è estremamente importante perché, per rifarci alla scatola con i vari significati delle parole, finché i vari significati sono scorrelati  ognuno può scegliere una cosa o l’altra – io sono di destra e scelgo questa, io sono di sinistra e scelgo questa, io sono di centro e scelgo questo significato – quando invece sono tutti unificati non ci sono santi che tengano, come si dice a Milano: c’è un unico significato che è stato scelto e che è dato dall’inviluppo di tutti questi cerchi.
Nel 1917 Einstein estese quello che abbiamo appena visto ai fotoni. Un atomo – che qui è rappresentato da una stelletta – di solito può sparare un fotone. Gli atomi di queste lampade che avete intorno, ognuno per conto proprio spara un fotone. Il fotone è rappresentato dalla pallina rossa, e la regione di influenza del fotone è questo cerchietto. I fotoni sono tutti autonomi uno dall’altro, come le molecole del moto browniano. Quello che Einstein fece vedere è che, se ora un fotone si trova vicino a un atomo, può convincere questo atomo a sparare un fotone gemello, e allora questa coppia di fotoni non sono più con cerchietti piccoli tutti intorno, ma sono tutti con cerchi grandi, e in definitiva, avrei dovuto dipingere di rosso tutta questa scatola. Non l’ho fatto perché c’è un altro ingrediente ingegneristico che è stato trovato molti anni dopo. Se noi mettiamo una via di luce o degli specchi la luce ordinata, con un ordine a lungo raggio – CLR vuol dire correlazione a lungo raggio – va esclusivamente in una direzione, come va la luce di quegli indicatori laser con cui solitamente si indica la lavagna.
L’ultimo lavoro, e così finisce la parte tecnica, è quello che io chiamo dualità Giuditta-Perseo. Dovete sapere che a Firenze i cittadini commissionavano a Donatello, nei primi decenni del Quattrocento, una Giuditta che tagliava la testa a Oloferne, e c’è questa statua di bronzo, ce n’è ancora una copia in piazza della Signoria di fronte il Palazzo Vecchio. Anticipando quel clima di correttezza politica che oggi è tanto di moda, a un certo punto i fiorentini dissero: ma come, se c’è una donna che taglia la testa ad un uomo, allora vogliamo un uomo che taglia la testa a una donna. E quindi circa cento anni dopo commissionarono al Cellini un Perseo che tagliava la testa alla Medusa che, naturalmente, era una donna. E quindi avete su due angoli di piazza della Signoria una donna che taglia la testa ad un uomo, e vedete che ha la testa decapitata; e un uomo che taglia la testa a una donna. Alla stessa stregua, se nell’effetto laser ogni fotone ha una certa zona di influenza, per questioni di correttezza politica dobbiamo pensare che anche ogni atomo abbia una certa zona di influenza. Se noi abbassiamo la temperatura, questa zona si può allargare, fino a comprendere nel proprio raggio tanti atomi. A questo punto tutti gli atomi si comportano allo stesso modo come un superatomo, a abbiamo questo oggetto che è il cosiddetto condensato di Bose-Einstein, per chi di voi non lo sapesse uno degli ultimi premi Nobel è stato dato agli scopritori di questa condensazione di Bose-Einstein che Einstein aveva già intravisto nel 1924.
Ho smesso di raccontarvi dei lavori. Questo qui è un momento importante, mi avvio alla conclusione. La ragione per cui questo è estremamente importante è perché questo tocca in pieno il nostro modo di procedere. Ciascuno ha circa 100 miliardi di neuroni, se questi neuroni andassero ognuno per conto proprio come le molecoline del moto browniano, noi avremmo una grande confusione in testa. Ogni volta che noi vediamo delle immagini significative – io sto vedendo voi, voi state vedendo me – che ci servono come guida nella vita, nel muoverci, nel parlare, vuol dire centinaia di milioni di neuroni che si sono accordati a mettersi in ordine attraverso una correlazione a lungo raggio, cioè hanno fatto il trapasso da questa situazione di atomi isolati a questa situazione di un superatomo: è come se avessimo un superneurone.
Prima di arrivare a questo – che è la cosa che mi sta più a cuore, perché è la cosa su cui sto lavorando, dal punto di vista scientifico – vi voglio dire un’altra cosa: perché mai l’introduzione dell’incertezza quantistica, la rivoluzione quantistica, finisce col togliere la certezza di tipo newtoniano che noi abbiamo? La ragione è la seguente. I nostri veicoli di informazione possono essere o molecole, o il contatto o le onde. Mi fermo alle onde perché sono quelle che ci danno una indicazione più rivolta verso l’udito e la vista. Ma prendiamo la vista. Esiste una cosa specifica che è stata scoperta da un gesuita genovese, chiamata diffrazione, nel Seicento e che consiste in questo: se noi abbiamo le onde – qui sto prendendo le onde in uno stagno -, se noi abbiamo dei ciuffetti d’erba che sono piccoli rispetto alla lunghezza d’onda, alle spalle non c’è nessuna ombra; se invece abbiamo un ostacolo un poco più grosso, comincia ad esserci la parvenza di un ombra di questo ostacolo; se abbiamo un ostacolo che è molto grosso rispetto alla lunghezza d’onda, allora abbiamo un’ombra ben fedele. Noi possiamo vedere le cose soltanto quando queste sono grosse rispetto alle lunghezze d’onda che noi riusciamo a vedere.
Noi riusciamo a vedere una piccolissima quantità di lunghezze d’onda che sono comprese fra il rosso e il violetto:  questa qui, che è la zona di sensibilità del nostro occhio – non vediamo niente dell’ultravioletto, non vediamo niente dei raggi x, non vediamo niente nell’infrarosso, non vediamo niente nelle onde radio – corrisponde alla regione di massima intensità della luce del sole. Lasciate stare i numeri, non sto a perder tempo. Quello che vi voglio dire è che in miliardi di anni di evoluzione i nostri occhi, così come gli occhi del gatto di casa, si sono aggiustati in modo da fare un uso ottimale della luce del sole. Le lunghezze d’onda più piccole che noi riusciamo a vedere sono intorno a 10-7 m, al di sotto di questo non riusciamo più a vedere perché diventerebbero come i fuscelli che sono piccoli rispetto alla lunghezza d’onda nello stagno. Noi riusciamo a vedere fino alla dimensione dell’Escherichia Coli, un batterio, cioè 10-6 m, al di sotto noi vediamo indirettamente. Cosa vuol dire vedere direttamente o vedere indirettamente? Vuol dire la seguente cosa: quando vediamo direttamente, supponiamo di dover vedere questo gattino, noi giriamo intorno al gattino, ci facciamo diverse sezioni bidimensionali, ricordiamo che il nostro occhio, così come il dorso di una macchina fotografica digitale, è bidimensionale (larghezza per altezza), quindi quando noi ricostruiamo visioni tridimensionali, vuol dire che noi stiamo facendo una questione di memoria culturale, noi stiamo connettendo insieme, come una macchina tomografica in ospedale, diverse sezioni bidimensionali: questa, questa, questa e diciamo:” Ah! Ah! Questo gattino vive in più dimensioni”. Ma se noi abbiamo un oggetto piccolo che non abbiamo mai visto e non sappiamo che cosa sia non possiamo dire che questa qui è una biglia o una collezione di biglie, noi ci lanciamo dei proiettili-sonda e registriamo i conteggi; quando facciamo questi c’è un’incertezza fondamentale, e questa incertezza fondamentale vuol dire che questo proiettile turba il moto di questo oggetto che vogliamo vedere. Allora, se noi cerchiamo di misurarne la posizione, noi ne alteriamo la velocità, gli stiamo dando una spinta. E’ per questo che i concetti, in meccanica quantistica, sono indefiniti. Fatemi tornare un momentino indietro, quindi, quando noi diciamo che questo è un atomo, perché abbiamo un nucleo e intorno degli elettroni che ci orbitano; questa qui è una nostra visione pittorica, in effetti noi non stiamo vedendo né queste palline che sono gli elettroni, né queste palline, ma stiamo vedendo degli oggetti con un’area di incertezza; lo steso quando parliamo del DNA, noi abbiamo ricostruito così, ma ci sono tanti aspetti che ci stanno sfuggendo.
Vediamo com’è che vediamo; supponiamo che io sottoponga un gattino ad una visione che è fatta da una ragazza e da un gatto. Perché un gattino? Perché nel gattino io posso mettere dei micro-elettrodi, cosa che il Ministero della Sanità impedisce di fare con gli studenti di laboratorio o con esseri umani, e questi micro-elettrodi vedono il singolo neurone. Allora noi abbiamo una collezione, una specie di mosaico di tanti neuroni o di tanti pacchetti di neuroni che vedono la donna e di tanti pacchetti di neuroni che vedono il gatto. Ma se noi andiamo dentro ad una pallina nera o ad una pallina bianca, noi quello che vediamo sono dei ricettori elementari i quali vedono o delle barrette verticali o delle barrette orizzontali; hanno frantumato esattamente come la mela è stata frantumata nelle affezioni quantitative di Galileo, hanno frantumato sia il gatto sia la donna in una serie di barrette con inclinazioni diverse. Queste barrette sono molto importanti, tanto è vero che i neuroscienziati che sono riusciti ad individuare questo meccanismo, ad individuare queste barrette hanno avuto il premio Nobel. Il problema di fondo è questo: posso ricostruire da un lessico fatto di barrette, posso ricostruire la donna e il gatto? Il problema è analogo a quello che ci possiamo porre, una volta che io vi ho dato il vocabolario italiano, che ho 100.000 vocaboli, posso ricostruire, senza mai averne sentito parlare, la “Divina Commedia” o “I Promessi Sposi”? Tutti voi capite che si tratta di un’impresa abbastanza sfiziosa, per non dire impossibile. Ora, analogamente, i neuroni non stanno assolutamente ricostruendo la donna e il gatto a partire da questi elementi di informazione, ma tutti i neuroni, anche a grandissime distanze, a distanze di decine di migliaia di neuroni che sono relativi al gatto (tutti quelli neri) stanno sincronizzando tra di loro i loro impulsi elettrici: vedete che questo segnale elettrico e questo segnale elettrico è lo stesso; e gli altri neuroni che stanno vedendo la donna si stanno sincronizzando tra di loro. È nato un ordine lungo il raggio per cui noi, nel cervello, se prendiamo la corteccia visiva, che è qui nell’occipite, c’è tutta una vasta zona, grande quanto parecchi francobolli che riguarda il gatto, e c’è anche un’altra vastissima zona che contiene centinaia di migliaia o milioni di neuroni che riguarda la donna. Quindi, noi siamo passati dal vedere degli oggetti separati, come queste barrette orizzontali e queste barrette verticali, le abbiamo mandate agli stadi corticali alti, le abbiamo mescolate con altri segnali che vengono dall’alto verso il basso e che chiamiamo top-down e che corrispondono alle memorie passate. Quindi, ogni nostra visione è una visione storicamente caricata da tutto quello che è l’apparato di memoria che noi abbiamo costruito nel corso di tutta la nostra vita. Se noi prendiamo un bambino nelle prime settimane di vita, la sua memoria semantica è vuota, non ha ancora nessun tipo di esperienza, quindi non è in grado di lanciare dei segnali top-down; allora il bambino riceve dei segnali bottom-up ma non è in grado di leggerli, tanto è vero che si dice ingenuamente che i bambini nelle prime settimane di vita sono ciechi, non vedono; non è che non vedono, vedono molto meglio di me che ormai sono vecchio, ma molto meglio anche di voi che siete più giovani; il problema è che non sanno cosa stanno vedendo, e incominciano ad imparare che cosa stanno vedendo quando cominciano a sorridere, dopo pochi mesi perché allora hanno memorizzato la faccia della mamma o la faccia di un giocattolo e quindi, quando la rivedono, vi vedono qualcosa di familiare, possono combinare questi segnali top-down con i segnali bottom-up. Cosa sta succedendo? Combinando questi segnali che vengono dal basso con questi segnali che vengono dall’alto si sta costruendo una correlazione a lungo raggio, cioè i vari neuroni, invece di rimanere staccati ognuno per conto proprio, stanno aumentando il loro dominio, per così dire, di ingerenza nei neuroni vicini fino a diventare tutta una palla rossa, l’illuminazione che è avvenuta.
Che cosa abbiamo imparato dal lavoro di Einstein? Che per far questo occorre ricorrere a due meccanismi: o si abbassa la temperatura, oppure c’è una forte illuminazione dall’esterno, come succede nel caso del laser che deve ricevere una pompa perché si attui il meccanismo laser.
Vediamo che cosa vuol dire questo quando noi riuniamo tutte le nostre risorse intellettuali; invece di avere una collezione staccata di segnali, abbiamo l’illuminazione forte, diciamo: “AH! Io sto vedendo quella cosa importante”, è successa una di queste due cose: o che abbiamo abbassato la temperatura, ma cosa vuol dire abbassare la temperatura? Vuol dire ridurre la quantità di disturbo che viene dal di fuori, non essere sollecitati da una serie di rumori, di distrazioni che vengono. Pascal, nei suoi “Pensieri”, chiamava il divertisement, il divertimento, lo riteneva proprio come una forma brutale di distrazione, lui non poteva parlare dei neuroni che si staccavano uno dall’altro, ma intendeva questo; notate bene che nella vita ascetica quello che viene raccomandato è di fare pulizia da tutte quelle che sono le distrazioni; oppure farsi sollecitare da una illuminazione forte, da un messaggio forte, e quindi, intorno a questo, costruire un significato principale.
Per concludere, tutti voi vedete quella frase che fa da logo al Meeting: siamo sempre a metà del nostro cammino, quindi, avevo cominciato con una parola A che veniva unita ad una parola B, veniva unita in maniera univoca nel discorso scientifico e attraverso tanti canali nel discorso sofistico, nel discorso da pensiero debole. Ora, quello che abbiamo visto è che questa grossa scoperta di Einstein delle correlazioni a lungo raggio riguarda non soltanto i cosiddetti condensati o il cosiddetto laser, ma riguarda anche una condensazione che interviene tra i neuroni del nostro cervello. Quindi, noi procediamo da una cosa che per noi ormai è diventata verità, non è diventata una collezione relativa di opinioni tra cui possiamo scegliere, ma c’è una scelta forte che è stata operata dall’esterno, da questa illuminazione esterna e noi non ci possiamo sottrarre, sarebbe disonesto sottrarci; da questo emerge una sola conseguenza, dobbiamo per forza agire di conseguenza ed arrivare qua. Quindi, tutta la traiettoria della vita di ricerca è proprio riuscire a cogliere i significati, ad unificare i significati ad un certo livello, passare al livello successivo, essere pronti a ricevere l’illuminazione corrispondente, aperti ai segni dei tempi e passare al messaggio successivo e così via e così via. Cosa c’è alla fine di questo percorso? Per i filosofi greci c’era la perfezione dell’agnosi, quella che cercava Platone, o quella che cercavano i Neoplatonici. Per noi sappiamo, l’abbiamo imparato attraverso il messaggio cristiano e poi l’abbiamo trasformato anche in una fortissima meditazione filosofica che è avvenuta attraverso i Padri ed attraverso i cosiddetti filosofi cristiani che ci sono stati nel corso di questi due millenni; perché, quando noi stiamo unificando, non stiamo unificando soltanto i neuroni, stiamo unificando tutte le nostre risorse vitali. Allora, in definitiva, noi non ci limitiamo a registrare in maniera agnostica una conoscenza, la perfezione non è la conoscenza, ma la perfezione è una comunione, una relazione di comunione col mondo con cui noi stiamo venendo a contatto. Quindi, in definitiva, in fondo alla via, quello che ci aspetta è una comunione di amore. Non direi che Einstein fosse arrivato a questo, ma aveva posto tutte le premesse per dare una base scientifica. Grazie.

Gargantini: Ringraziamo il Professor Arecchi, perché ci ha fatto vedere che cosa vuol dire raccogliere l’eredità di Einstein; ci ha fatto vedere all’opera il lavoro della ricerca e ci ha spalancato queste prospettive molto interessanti e molto unitarie; spero che abbiate percepito la portata del tentativo che ci ha proposto, mostrandoci quelle stesse caratteristiche che già nell’iniziale lavoro di Einstein erano presenti, e facendoci vedere come una costruzione scientifica non è uno schema, una gabbia che blocca, ma è una continua apertura; quell’immagine di una spirale aperta che indicava il rilancio continuo del cammino, fino alla possibilità di una visione così compatta, così unitaria e che istintivamente sentiamo vera; anche se forse non  abbiamo percepito tutti i passaggi, però ci sentiamo istintivamente in sintonia con quello che è l’uomo; di fronte ad una prospettiva così, con questa potenza, con questa unitarietà, uno si sente di dire: “Certo, deve essere proprio così” ed era questo il tipo di sensazione, di atteggiamento che ispirava il lavoro di Einstein, che lo ha sempre reso un po’ critico di fronte alle posizioni nichiliste, scettiche, gnostiche. Grazie.

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