Riproponiamo di seguito il testo dell’incontro tenutosi in occasione del Meeting di Rimini il 25 agosto 2003, con la partecipazione di Carlo Rubbia, Premio Nobel per la Fisica 1984 e Presidente E.N.E.A., ed Elio Sindoni, Professore Ordinario di Fisica all’Università degli Studi di Milano Bicocca.
Martedì 25 agosto 2003, ore 19.00, Sala A1
Relatori: Carlo Rubbia, Premio Nobel per la Fisica 1984, Presidente E.N.E.A.;
Elio Sindoni, Professore Ordinario di Fisica all’Università degli Studi di Milano Bicocca;
Moderatore: Marco Bersanelli, Docente di Astrofisica all’Università degli Studi di Milano.
Marco Bersanelli: Carlo Rubbia, Premio Nobel per la Fisica, uno dei più grandi e famosi scienziati a livello mondiale. Ha studiato alla Normale di Pisa, ha condotto le prime ricerche sulle particelle elementari alla Columbia University, poi nel ’70 ha incominciato ad insegnare ad Harvard, e successivamente è stato direttore generale del CERN a Ginevra. Nell’83 la sua grande scoperta dei bosoni W e Z, che sono i quanti dell’interazione debole delle particelle; per questa scoperta nell’84 ha ricevuto il Premio Nobel per la Fisica. Le sue ricerche hanno anche contribuito in modo decisivo alla identificazione del quark top, e attualmente Carlo Rubbia è presidente dell’E.N.E.A.. Specialmente in questi ultimi anni si è dedicato con grande efficacia e con grande entusiasmo ai problemi cruciali della tecnologia, soprattutto legata alle fonti di energia, e al loro impatto per l’ambiente e per la società.
Vorrei dire, presentando questo incontro, che Carlo Rubbia è già stato ospite del Meeting di Rimini nell’87, e vorrei introdurre ricordando un passaggio di quel suo intervento, da cui si capisce che lui, oltre che essere grande scienziato, è anche un uomo che sa esprimere quella commozione di fronte alla realtà che è alla radice di ogni vera grande impresa umana, e quindi anche della ricerca scientifica. In quell’occasione Rubbia diceva: “Quando noi guardiamo un fenomeno fisico particolare, ad esempio una notte piena di stelle, ci sentiamo profondamente commossi, sentiamo un messaggio che ci viene dalla natura, che ci trascende e ci domina; questa stessa sensazione di stupore, di meraviglia, di rispetto che ciascuno di noi prova di fronte ad una manifestazione naturale, lo scienziato, il ricercatore, che vede dall’interno le cose, la sente più forte, più intensa; la bellezza della natura vista dall’interno e nei suoi termini più essenziali è ancora più perfetta di quanto appaia esternamente; quindi, diceva, io non sento né sgomento né paura, sento la curiosità e mi sento onorato di poter vedere queste cose, fortunato perché la natura è effettivamente uno spettacolo che non si esaurisce mai”. Ecco: la creazione come spettacolo che non si esaurisce mai.
Noi abbiamo chiesto al professor Rubbia questa sera di intervenire prendendo spunto dalla mostra scientifica che abbiamo preparato quest’anno al Meeting con l’associazione Euresis, una mostra che conduce ai bordi della realtà fisica, proprio per farci rendere conto che il creato è uno spettacolo che non si esaurisce mai. Al termine il professor Sindoni darà qualche ulteriore spunto a riguardo di questa mostra.
La ricerca scientifica quindi (sia come originale impeto di conoscenza e sia come possibilità di uso della realtà, con tutte le sfide, le nuove sfide che l’uso della realtà, reso possibile dalla scienza, introduce), la ricerca esprime in modo originale e potente la tensione dell’uomo ad un significato. Esprime ultimamente un desiderio di felicità come ci ricorda il tema del Meeting di quest’anno: “C’è un uomo che vuole la vita e desidera giorni felici”. Spesso si sente dire che le grandi domande come quelle che riguardano la felicità e il senso delle cose siano estranee al movente dello scienziato e del ricercatore, ma questi sono luoghi comuni che sono portati avanti e sostenuti soprattutto da chi sta al di fuori di un certo impegno con la realtà che è proprio dello scienziato, specialmente dei grandi protagonisti.
Carlo Rubbia, e con queste parole concludo, in un’intervista che ha rilasciato poco dopo aver ricevuto il premio Nobel, si è espresso in questi termini: “La più grande forma di libertà è quella di potersi domandare da dove veniamo e dove andiamo; il problema è scritto nel nostro bagaglio intellettuale, che lo vogliamo o no; non esiste forma di vita umana che non si sia posta questa domanda e il mancare a questo appuntamento è una perdita, una disumanizzazione, un meccanismo interno di autopunizione”. Lascio la parola al professor Rubbia e lo ringrazio per essere con noi oggi.
Carlo Rubbia: Grazie. Innanzitutto vorrei ringraziare per l’occasione che mi è offerta di potermi esprimere qui, in questo meraviglioso quadro. L’altra volta quando venni per me fu un’esperienza memorabile e sono felice di poterla ripetere con voi, in particolare vedendo anche la nuova magnifica sede, che nonostante sia enorme sembra già troppo piccola per quanto riguarda il Meeting.
Oggi vorrei parlarvi un po’ di scienza, vorrei parlarvi delle problematiche che uno scienziato si pone non in quanto i problemi specifici della scienza, ma in quanto uomo, in quanto individuo, e come questo scienziato sia poi in grado di inserirsi con le sue attività nel quadro più vasto della società di oggi. Il desiderio di ricercare, cioè conoscere, è l’espressione concreta di uno degli istinti più profondi dell’essere umano che lo caratterizza in quanto tale: la curiosità; possiamo dire qui che è un dono della provvidenza. È la curiosità che ha guidato tutto il processo di evoluzione, che ha portato l’uomo a uscire dalle caverne e a conquistare la luna. Il bambino è l’espressione più immediata di questa curiosità; un giocattolo è per lui interessante stimolo perché solletica la sua curiosità, a volte al punto di indurlo a romperlo per comprendere come funziona; comprendere come esso è fatto è spesso più importante della possibilità di giocarci; è questa la forma più pura di curiosità: accettare di rischiare di perdere qualcosa che gli appartiene, spinto da un bisogno istintivo di comprendere. Per l’homo sapiens il bisogno di comprendere è quindi irrinunciabile; ogni forma di civilizzazione umana ha avuto la sua scienza, sia la medicina, o l’astronomia, o altro. La natura è stata generosa con noi e ci ha permesso di scoprire molte cose; stiamo vivendo il periodo più ricco nella storia delle scoperte scientifiche. Non andrebbe dimenticato quanto siamo fortunati a vivere in un’epoca in cui gli strumenti necessari per dischiudere i segreti più disparati della natura arrivano alla portata della nostra tecnologia, ma l’uomo è anche faber, cioè vuole inventare e costruire per sé e per gli altri; è quella che si chiama oggi tecnologia. Ma per costruire bisogna conoscere e prevedere. E da qui l’essenziale e universale legame tra la scienza e la tecnologia, tra la conoscenza e l’invenzione. Queste considerazione sull’immutabilità dello spirito umano che anima l’uomo e quindi la società, vanno oggi proiettate nel quadro emergente della civilizzazione planetaria. Non c’è dubbio che la componente più nuova e determinante della civiltà moderna sia la sua integrazione a livello planetario: il trasporto rapido ed economico dei prodotti e delle persone, lo sviluppo dei satelliti e le fibre ottiche, parallelamente al rapido progresso della tecnologia informatica, stanno trasformando il nostro mondo. Il commercio e le comunicazioni su scala planetaria hanno cancellato le distanze. Il progresso scientifico in quanto tale è indissolubilmente connesso a due elementi fondamentali: il primo elemento è quello che definirei il fattore umano. Il progresso nella ricerca è fondamentale ed è generalmente generato da fluttuazioni, ossia da cambiamenti improvvisi dovuti a progressi concettuali. Senza un tale catalizzatore anche i più massicci investimenti in termini di risorse forse non sarebbero in grado di produrre effetti confrontabili. Nella scienza si progredisce più grazie ad una singola idea innovativa che attraverso gli sforzi continuati e pianificati di centinaia di ricercatori con un approccio più convenzionale, lavoro che si rende peraltro necessario, quantunque non sufficiente, per il rapido progresso. Come nell’arte, dietro le personalità di grande successo troviamo il talento. La natura genera questi talenti con lentezza, con parsimonia, e a ritmo costante, e si originano soprattutto da doti naturali affiancate da una solida ed approfondita formazione accademica. Il loro numero non si può ammontare a comando: crescono spontaneamente laddove le conoscenze di una comunità sono adeguate a fornire quella formazione di base di cui questi talenti hanno bisogno. Questo terreno di coltura è oggi presente in molte nazioni, compresi molti dei Paesi in via di sviluppo. Lo scienziato deve quindi promuovere un atteggiamento scientifico pragmatico, basato su fatti, sulla ricerca coraggiosa di concetti fondamentalmente nuovi. Faraday ci illustra come l’elettricità non fu scoperta migliorando le candele; la biologia molecolare non è stata scoperta migliorando la botanica. Ciò illustra lo spirito dell’atteggiamento scientifico, da cui la società potrebbe trarre grande beneficio.
Il secondo elemento di cui vorrei parlare è quello che chiamerei l’”effetto connettivo”: il progresso scientifico approfitta grandemente delle interfacce tra discipline; ad esempio, un’idea chimica applicata alla biologia, un concetto matematico applicato alla fisica, la comprensione di funzioni di base e così via. In altre parole, un centinaio di scienziati in discipline non troppo differenti, che operano per così dire sotto lo stesso tetto, effettueranno progressi di gran lunga maggiori rispetto allo stesso centinaio di persone che lavorano separatamente, isolate le une dalle altre. Questa è una caratteristica fondamentale del pensiero scientifico innovativo; ad esempio, una delle maggiori ragioni per cui durante gli ultimi dieci secoli il progresso scientifico si è associato principalmente alle università, cioè a comunità in cui studiosi di discipline diverse si trovavano riuniti. Ai giorni nostri esso è percepito anche dal mondo dell’industria, soprattutto quella multinazionale, come un esempio essenziale allo svolgimento delle proprie attività di ricerca e di sviluppo. Ciò è reso ancora più essenziale dall’accelerazione dei processi evolutivi. Ad esempio, Cesare Marchetti ha mostrato come l’innovazione fondata su idee nuove e sugli sviluppi tecnologici ad esse collegati, si amplia seguendo delle regole molto semplici: comperare un prodotto è in sostanza accettare un’idea e le idee si diffondono nel sistema sociale attraverso un processo simile, dal punto di vista formale matematico, a quello di un’epidemia, come ad esempio nel caso dell’influenza per la quale il numero di nuovi casi nell’unità tempo è proporzionale al numero di persone portatrici del virus in un dato momento moltiplicato per le persone sane, quelle cioè che potenzialmente possono essere contaminate. Ciò genera una particolare curva ad S, che dopo una partenza lenta cresce rapidamente e poi si appiattisce ad un valore di saturazione. La precisione con cui lo sviluppo di una nuova tecnologia, e di conseguenza di un nuovo mercato, obbedisce a tale legge sul periodo di diversi decenni è notevole e provata da moltissimi esempi pratici. In tempi recenti sono esempi lo sviluppo dei PC, personal computer, e di internet; in futuro potrà essere la pila a combustibile all’idrogeno e l’automobile ad emissione zero. Esiste una relazione tra questi processi evolutivi e le equazioni della dinamica biologica. Essa permette di conseguenza di identificare un’analogia interessante che vale la pena di essere citata. Una nicchia di mercato corrisponde ad una nicchia biologica e una mutazione genetica corrisponde ad una nuova tecnologia competitiva che progressivamente scalza quella precedente dal suo posto. Un nuovo sviluppo generato dall’innovazione sostituisce il vecchio metodo in perfetta analogia con l’evoluzione biologica, nella quale un nuovo mutamento rimpiazza la specie già esistente. L’evoluzione tecnologica della società moderna è il corrispondente dell’evoluzione biologica a cui sono serviti quattro miliardi di anni per arrivare all’uomo, partendo da una semplice cellula. Ed esattamente come nel caso della biologia, la velocità e l’ampiezza del fenomeno di specializzazione e di complessità si accelerano rapidamente con l’evoluzione progressiva. L’homo sapiens, l’ultimo più sofisticato risultato dell’evoluzione biologica, è stato presente sulla terra solo per qualche centinaio di migliaia di anni, un fugace istante rispetto ai circa quattro miliardi di anni di vita del nostro pianeta. Una rapida evoluzione delle tecnologie è certamente la caratteristica più significativa degli anni a venire, alimentata e accelerata dall’arrivo della struttura del cosiddetto “villaggio globale”. Un vecchio adagio dice: “tutte le civiltà sono mortali”. Potremmo parafrasarlo dicendo: “tutte le tecnologie sono mortali”. È per questo che tutti gli aspetti delle attività umane che ne sono correlate, dall’educazione alla produzione industriale, devono prepararsi ad un’evoluzione ancora più rapida e al cambiamento. Copiare il passato non è più possibile; dobbiamo inventare per tener testa alla competizione. Il parallelo darwiniano può essere portato oltre. Come nei sistemi neuronali e più in generale nei sistemi biologici, l’inventività evolutiva è intrinsecamente associata all’interconnessione. Ad esempio, se limitassimo il raggio di interazione degli individui ad alcuni chilometri, come era il caso della società rurale della fine dell’800, ritorneremmo ad una produttività comparabile con quella di allora. L’interconnessione a tutti i livelli e in tutte le direzioni, il melting pot, è quindi un elemento essenziale nella catalisi della produttività. Nella storia dell’umanità non c’è dubbio che il fatto storico più saliente degli ultimi secoli sarà ricordato come quello dell’avvento della scienza come “filosofia naturale” e del suo immenso impatto sul genere umano e sul pianeta. Nel breve tempo che mi è concesso, allo scopo di spezzare una lancia in favore della ricerca scientifica, vorrei cercare di quantizzare alcuni casi specifici. Anzitutto è certo che l’effetto più evidente dell’impatto della ricerca scientifica, sulla società degli ultimi tempi, anche se spesso non interamente attrezzato (ma vorrei dire è una giusta risposta allo slogan che voi avete scritto – c’è un uomo che vuole la vita e desidera giorni felici –) è l’aumento spettacolare delle aspettative di vita per ciascuno di noi. Grazie alla scienza, a partire dai sedici anni medi dell’età della pietra, e a circa trent’anni dell’impero romano, oggi essa è salita a tempi lunghi, e ciò in tempi così rapidi da mettere in profonda crisi perfino il sistema della previdenza sociale. Oggi il numero di persone con più di 85 anni di età raddoppierà entro il 2010; oggi mondialmente vivono ben 170.000 persone con un’età superiore a 100 anni; incidentalmente il 90% di esse sono di sesso femminile. E assieme alla lunghezza è anche grandemente migliorata la qualità della vita; a ciò hanno contribuito in diversa misura molte delle grandi scoperte scientifiche e le loro ricadute pratiche in molti campi; la medicina, la chimica, la fisica, la biologia, la matematica, ecc. Nell’altro campo, cioè il campo dell’industria, la scoperta del motore ha permesso di moltiplicare la forza muscolare degli uomini e degli animali, premessa necessaria della rivoluzione industriale. A sua volta la disponibilità di nuovi potenti mezzi produttivi ha permesso la creazione di un numero immenso di posti di lavoro, ma per di più connessi alla necessaria azione di controllo delle macchine del ciclo produttivo, il vecchio modello Ford dell’inizio del secolo in cui le qualità dell’essere umano erano lontane dall’essere appieno utilizzate, come così ben ricordato da Charlie Chaplin nel film Tempi moderni con le chiavi inglesi. Si pensi ad esempio, che l’agricoltura in Europa, da mestiere dominante che era all’inizio del ‘900, impiega solo alcuni % della popolazione, pur assicurando ampiamente tutto il nutrimento di cui abbiamo bisogno.
Ciononostante, la necessità di grandi e insostituibili risorse umane ha permesso negli ultimi secoli, attraverso un vasto movimento di affermazione dei diritti dei lavoratori, il miglioramento delle condizioni sociali delle classi meno abbienti, e la speranza purtroppo utopistica di una società di pieno impiego. Il miglioramento tecnologico e soprattutto l’invenzione del computer ha cambiato tutto ciò, con la sua capacità di mettere a sua disposizione non solo il muscolo ma anche il cervello; ad esempio attraverso la robotica essa ha certamente liberato l’uomo dalla succitata schiavitù dal sistema produttivo, ma ha fatto sì che la produttività richiesta dalla società possa essere soddisfatta da un numero ben più limitato di individui ai quali però si richiede quello che il robot non può dare e per cui l’uomo è ancora unico: l’immaginazione. Infatti il robot offre produttività ed efficienza, non va in vacanza, non fa sciopero e non scende in piazza, ma sta all’uomo valorizzare un’altra dimensione altrettanto importante, vale a dire l’estetica e la qualità del prodotto, quell’impercettibile alchimia fatta di originalità e fantasia. Produrre di più e a prezzi più bassi, d’accordo, ma a quale fine? A quale scopo? I prodotti correnti parlano alla nostra mente come hanno saputo fare i capolavori dei nostri antenati? È mia opinione che il futuro apparterrà a coloro che sapranno cogliere quel confine misterioso, ma difficilmente qualificabile, che separa il brutto dal bello, e questa è una filosofia che ha permeato la maggior parte delle grandi civiltà del passato nelle epoche preindustriali, e questo è un elemento fondamentale che caratterizza il modo di percepire il mondo circostante, almeno per noi occidentali. Non va dimenticato ad esempio che questo concetto affonda profondamente le sue radici nella storia e nella cultura italiana, che rappresenta uno dei più preziosi patrimoni che abbiamo ereditato dal nostro passato, ed è il motivo principale per cui siamo apprezzati nel mondo, e sto parlando della cultura e della capacità di fare il bello. È quindi evidente che la scienza e il suo ruolo oggi non possono evitare problemi e considerazioni che escono dal puro circolo della comunità scientifica, ma riguardano l’insieme della società. In particolare oggi le frontiere ultime della scienza si trovano racchiuse tra due elementi importanti: da una parte la libertà di ricercare e dall’altra la responsabilità del ricercatore. Nell’ultimo mezzo secolo, dopo la seconda guerra mondiale, ci fu un implicito contratto sociale tra la società e la scienza: la scienza allora godeva di un rispetto quasi unanime. Negli anni successivi all’ultimo conflitto mondiale questo rispetto era inteso come convinzione dell’abilità della scienza di risolvere, o perlomeno di contribuire in maniera significativa alla soluzione dei più grandi problemi del tempo. La scienza appariva allora meritevole di questa fiducia; la ricchezza delle nazioni progredì; la ricerca medica migliorò la salute; gli scienziati erano essenziali nel realizzare un sistema di sicurezza importante durante il periodo della guerra fredda; ma il miglioramento economico, la salute e la sicurezza avevano un prezzo: il vasto contributo dei governi a favore dei programmi di ricerca, un vero e proprio, anche se implicito, contratto sociale con la scienza, con un generoso supporto economico e a lungo termine per la ricerca di base. I principi generali della dichiarazione dei diritti umani delle Nazioni Unite e anche della Costituzione italiana sembrano assicurare la libertà della scienza; ricordiamo, ad esempio, la splendida dichiarazione del presidente Roosevelt, che nel 1945 disse e scrisse: “Il progresso scientifico è nella più larga misura il risultato del libero gioco di intelletti liberi che lavorano su soggetti di loro scelta nei modi dettati dalla loro curiosità”. Ma una cosa sono le splendide dichiarazioni e un’altra cosa sono le loro realizzazioni. Nel vasto contratto di allora tra società e scienza vi fu veramente una reale libertà nella conduzione della ricerca? Pensiamo, ad esempio, allo stuolo di scienziati, i 2/3 della comunità scientifica di allora, impegnato in ricerche segrete di carattere militare. La libertà di pensiero e di ricerca non fu acquisita facilmente, ma la scienza del futuro non sarà quella del passato. La percezione ottimistica del pubblico, che la conoscenza scientifica e il conseguente progresso tecnologico saranno capaci di assicurare il miglior futuro possibile ha sofferto negli ultimi tempi una severa caduta. Alcuni dei cosiddetti benefici del progresso scientifico, come l’atomo, i nuovi materiali, la biotecnologia, gli alimenti prodotti con modifiche genetiche oggi creano incertezze, persino paure, su che cosa il futuro tenga in serbo per l’uomo e per la natura.
Al fine di comprendere quale sarà la scienza del futuro vanno analizzate le cause per le quali un tale potenzialmente drammatico cambiamento ha preso piede. Il periodo del dopoguerra fu un ottimo momento per la tecnologia pilotata dalla scienza moderna. Esso ha giocato un ruolo decisivo nella fine della guerra ed è stato fondamentale per la ricostruzione, promuovendo un migliore benessere sociale, una migliore salute, una maggiore sicurezza. Lo scienziato allora godeva della fiducia incondizionata del pubblico.
La fine della guerra fredda e una maggiore coscienza dei problemi ambientali hanno cambiato tutto ciò. Nel quadro del precedente contratto la salute rimane ancora oggi un problema aperto, il cancro non è stato ancora debellato e molte delle malattie ereditarie non sono ancora evitabili. L’acquisizione di un nuovo benessere frutto del progresso tecnologico si è separata in due omponenti contrastanti: da una parte la creazione della massima ricchezza e dall’altro la creazione del massimo impiego, il pieno impiego. Il concetto di sicurezza e con esso il concetto di rischio sembra aver acquisito un significato radicalmente diverso ed è oggi percepito nel senso di una migliore protezione dell’ambiente, condizioni di vita più sicure e un futuro sostenibile per tutti. Nel periodo del dopoguerra pochi si sentivano preoccupati se talvolta scienziati o ingegneri avevano mostrato poca considerazione per la preservazione della natura; dopo tutto lo scopo della tecnologia era sempre stato quello di trasformare la natura per il beneficio dell’umanità. Non c’era il sentimento che ci potessero essere dei limiti a ciò che la natura avrebbe potuto tollerare. All’inizio degli anni ’90 incominciò a crescere la preoccupazione per i problemi ambientali che il progresso portava nella sua onda: i combustibili fossili usati per lo sviluppo industriale stavano aumentando in modo significativo il contenuto di anidride carbonica nell’atmosfera minacciando l’effetto serra, l’urbanizzazione stava divorando i terreni agricoli e quelli boschivi, l’espansione industriale stava causando un aumento dell’inquinamento e una perdita dell’acqua potabile, più oltre aleggiava lo spettro della perdita della bio-diversità. Vale la pena di ricordare un rapporto dell’American Association for the Advancement of Sciences, in cui si diceva: “Pur avendo la scienza portato con sé enormi progressi, e meritato libertà e fiducia, essa cominciava a dare l’impressione che i crescenti problemi reali immediati non fossero né completamente evidenziati né compresi dalla comunità scientifica, la cui responsabilità era, e lo sarà sempre più nel futuro, quella di farvi fronte”. Quindi oggi è più che mai necessario ridefinire i termini di un nuovo contratto sociale tra la scienza e la società, che tenga conto della transizione da una libertà e una fiducia incondizionata verso l’introduzione dei concetti di responsabilità e di “rendicontabilità”. Ciò implica una rinnovata enfasi sull’etica della scienza e della tecnologia. Il recente e rinnovato interesse della società nel suo insieme verso l’etica ha una origine ben più vasta; esistono tanti fattori che giustificano tale rinnovato interesse, come ad esempio il rapido cambiamento sociale, l’aumentato contatto tra culture diverse, i nuovi sviluppi nella scienza e nella tecnologia, specialmente nel campo biomedico, e il relativo indebolimento dei soggetti portanti delle tradizioni etiche, soprattutto nei riguardi delle più recenti generazioni. Tutto ciò ha causato nel cittadino una relativa perdita di certezze e quindi della capacità di formulare raccomandazioni. Queste nuove sfide e questa nuova situazione ha generato molte reazioni; un rinnovato concetto di etica per la scienza ha moltecomponenti, alcune interne alla comunità scientifica, altre legate ai rapporti con il grande pubblico. La prima componente, cioè quella dell’etica, è in gran parte un problema di responsabilizzazione e di codice di comportamento. Ci dobbiamo porre la domanda di che cosa dobbiamo e di che cosa non dobbiamo fare e del suo perché, restituendo un ruolo centrale alle conseguenze di ogni azione, alle conseguenze di un’azione, anche se altri fattori, come il dovere e le intenzioni, sono importanti. Ad esempio nel UN World Summit on Sustainable Development organizzato dalle Nazioni Unite a Johannesburg nel 2002 fu lungamente dibattuto il problema etico della sostenibilità; in particolare come procedere in condizioni ambientali complesse. Comincia ad emergere anche la necessità di principi precauzionali, anche se l’applicazione di tali principi, specie nel caso ambientale, è oggi soggetto di vaste controversie con punti di vista diametralmente diversi dalle varie parti del mondo, ad esempio tra l’Europa e l’America. Ad esempio anche se il riscaldamento globale è oggi non scientificamente prevedibile nei minimi dettagli, considerazioni di carattere prudenziale ci suggeriscono di prendere misure correttive verso un effetto che non sarà reversibile per molti secoli a venire. Egualmente nel campo dei rifiuti nucleari, con milioni di anni di vita non possiamo proporre soluzioni incerte e non dimostrabilmente sicure partendo dal principio che non saremo li quel giorno per risponderne. Ma ciononostante possibili regole e linee guida sono soltanto misure che vengono in larga parte imposte all’esterno della comunità. Io ho i più grandi e profondi dubbi che si possa regolamentare dall’esterno la complessità dei problemi della scienza di oggi, quindi, soltanto con leggi e decreti imposti esternamente agli scienziati. Ciò di cui abbiamo oggi il più grande bisogno è un rinnovato senso della responsabilità che venga dall’interno, dal profondo dell’animo di ciascuno. La responsabilità etica della comunità scientifica è in essenza originata e sostenuta dal singolo scienziato. È lui o lei che decide come e se perseguire una data linea di ricerca, che cosa fare dell’informazione ottenuta e così via. La coscienza etica individuale è di importanza fondamentale, essenziale e insostituibile, non solo per lo scienziato, ma per chiunque operi nelle scelte che influiscono sulla società. La ricerca scientifica è un’attività indispensabile di immenso significato per il genere umano per la nostra descrizione e comprensione del mondo, le nostre condizioni materiali, la vita sociale e il benessere. La ricerca può contribuire a risolvere gli immensi problemi che oggi si presentano all’uomo come le minacce di guerre, i danni all’ambiente, la distribuzione diseguale delle risorse del pianeta. Ciononostante, una ricerca senza freni potrebbe sia direttamente che indirettamente persino aggravare i problemi dell’umanità. Un profondo codice etico per gli scienziati dovrà essere il garante, la risposta alle preoccupazioni del cittadino sulle applicazioni e le conseguenze della ricerca scientifica. L’etica e le responsabilità della scienza deve essere inculcata in particolare alle nuove generazioni di scienziati, introducendo un’attitudine di allerta e di comprensione dei dilemmi etici che essi potrebbero incontrare nel corso della loro vita professionale. Dobbiamo ricostruire la fiducia nella scienza. C’è la necessità urgente di ristabilire un’apertura e un dialogo aperto a tutti sugli argomenti urgenti che la scienza, e quindi la società, hanno oggi davanti a loro. La libertà è un immenso valore, condiviso da tutti, ma la libertà ha come controparte il dovere, il che significa l’accettazione della responsabilità individuale. Ciascuno di noi, scienziato o meno ha il dovere di proiettare la sua attività in questo più vasto contesto sociale.
Grazie.
Bersanelli: Io ringrazio, il professor Rubbia per questo intervento. Adesso il professor Sindoni per 10 minuti, molto sinteticamente, forse anche meno, ci illustrerà un po’ più nel dettaglio la mostra che Euresis sta esponendo quest’anno al Meeting.
Elio Sindoni: Come il professor Rubbia ha sottolineato all’inizio del suo intervento, è importante affrontare i problemi scientifici in modo multidisciplinare. È questo uno dei tratti fondamentali dell’associazione Euresis, l’associazione per la promozione e lo sviluppo della cultura e del lavoro scientifico che quest’anno propone la mostra Alle colonne d’Ercole: navigando ai confini dell’impresa scientifica.
La scienza, a partire già dalla Grecia antica ha esteso la nostra capacità di conoscere la natura; e gli sviluppi degli ultimi due secoli ci hanno poi permesso di conoscere la realtà fisica fino a situazioni estremamente lontane da quelle della nostra normale esperienza. In queste condizioni, le capacità razionali e quelle della tecnologia sono spinte all’estremo facendo apparire con particolare chiarezza la natura della conoscenza scientifica. Conoscenza e limite, conoscenza e mistero: due poli sempre presenti insieme e simultaneamente. È questo che costituisce il fascino della ricerca. Scrutando la realtà ai confini più lontani raggiunti dalla conoscenza dell’uomo, appare evidente il carattere affascinante e irriducibile del reale, un carattere che riguarda tutta la realtà, un mistero che non è solo ciò che sta al di là del limite, ma è nella profondità di quello che appare sotto i nostri occhi. La mostra conduce all’estremità del mondo fisico conosciuto secondo le tre coordinate: dal piccolo al grande, dal freddo al caldo, dal vuoto al denso. Siamo ora in grado, grazie ai grandi acceleratori di indagare con estremo dettaglio ciò che accade nel profondo della materia, giungendo perfino a comprendere la struttura delle singole particelle all’interno dei nuclei atomici, con strumenti di grande precisione riusciamo a vedere e a spostare gli atomi, creando incredibili strutture. Dal lato opposto i telescopi di ultima generazione ci rimandano la immagini di galassie e quasars distanti quasi dieci miliardi di anni luce. Siamo anche in grado di sondare l’infanzia dell’universo, grazie alla luce fossile del cosmo. La corsa al freddo, iniziata già verso la metà dell’800, è giunta a temperature distanti miliardesimi di grado dallo zero assoluto, temperature estremamente inferiori a quelle raggiunte in ogni angolo dell’universo. A tali temperature è apparso chiaro, anche a livello macroscopico, l’intrinseco carattere quantistico della materia. La fisica è poi in grado di descrivere fenomeni che accadono a temperature ed energie estremamente elevate, e di cercare di riprodurle in laboratorio per trarre nuove fonti di energia. A questo scopo una parte della mostra è proprio dedicata alla fusione nucleare. In laboratorio riusciamo a produrre il vuoto più estremo che troviamo in natura e realizzare esperimenti che ci aprono una nuova visione, assolutamente inaspettata in passato sulla natura del vuoto; all’opposto riusciamo a familiarizzare con situazioni fisiche di estrema densità, fino a giungere ai buchi neri, dove la struttura microscopica della materia si semplifica fino a scomparire. Tutto questo è illustrato nella mostra con una serie di pannelli arricchita da alcuni modelli, e come vi ho detto, da una mostra dedicata alla fusione.
Cosa possiamo concludere, come osservò Albert Einstein: “La cosa più incomprensibile dell’universo è il fatto che esso sia comprensibile”. Dopo oltre 13 miliardi di anni dalla sua nascita, nell’universo è comparso un osservatore intelligente, dotato della capacità di comprendere in profondo la struttura del mondo a livello sia microscopico che macroscopico. E guardando il cielo in una notte stellata ci chiediamo ancora come il pastore errante dell’Asia di Leopardi: “a che tante facelle? Ed io che sono?”. Grazie
Bersanelli: Allora, nel salutarvi volevo solo richiamare alla mente una battuta che il professor Rubbia ha fatto prima: il futuro – diceva – è di coloro che sapranno distinguere il brutto dal bello. E il futuro – diceva alla fine – è di coloro che sapranno assumersi una responsabilità perché non è soltanto con delle regole poste dall’esterno che si può affrontare lo spessore e la vastità dei problemi che la società attuale, basata sulla scienza e sulla tecnologia, ci sta ponendo. Per questo è necessaria un’educazione che ci sappia educare lo sguardo a ciò che è bello e ci sappia rendere forti, cioè certi per assumerci la responsabilità che la vita ci chiede. Per questo noi siamo qui al meeting di Rimini, per questo siamo lieti e grati di poter incontrare grandi persone. A presto, arrivederci.
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