Origine ed evoluzione della vita sulla Terra

Benedetta CappelliniArticoli

Riproponiamo il testo dell’incontro proposto in occasione del Meeting di Rimini il 21 agosto 2001 che ha come tema il Pianeta Terra. Intervengono Marco Bersanelli, Elio Sindoni, Fiorenzo Facchini.

Martedì 21 agosto 2001, ore 11.30, Auditorium

Relatori: Marco Bersanelli, Docente di Astrofisica all’Università degli Studi di Milano;
Elio Sindoni, Professore Ordinario di Fisica all’Università degli Studi di Milano Bicocca;
Fiorenzo Facchini, Ordinario di Antropologia nella Università di Bologna

Marco Bersanelli: Come ogni anno, al Meeting di Rimini affrontiamo una tematica scientifica di grande interesse e di attualità, sia attraverso l’incontro con personalità di primo piano a livello internazionale del mondo scientifico, sia attraverso altre iniziative, come le mostre che proponiamo. Col passare degli anni le proposte che presentiamo sono sempre meno iniziative estemporanee, e sempre più il punto di arrivo di un lavoro che continua durante l’anno. Colgo subito l’occasione per invitare tutti coloro che a diverso titolo fossero interessati a partecipare a questo lavoro a prenderne parte, o anche semplicemente a esserne informati, a contattare lo stand di Euresis.
Il tema scientifico di quest’anno è centrato sul pianeta Terra, la natura del nostro pianeta e quanto di straordinario è avvenuto sulla Terra, diciamo almeno negli ultimi 4 miliardi di anni.
L’ospite di eccezione di oggi è il professor Fiorenzo Facchini, che tra poco ci parlerà di quello che possiamo definire il momento culminante di questa grande storia che è avvenuta sul nostro pianeta, è cioè l’emergere dell’essere umano.
La mostra che proponiamo quest’anno, e che vorrei presentare adesso insieme al professor Sindoni, è intitolata «Una Terra per l’uomo. I tratti eccezionali del nostro piccolo pianeta». L’idea di questa mostra è di mettere a fuoco i fattori principali, almeno quelli che comprendiamo, che rendono il nostro pianeta il luogo straordinario che è. Il metodo naturalmente implicato in questo lavoro è il metodo scientifico, un’osservazione attenta e appassionata della realtà. Questa mostra ha avuto il merito, per noi che l’abbiamo preparata, docenti, ricercatori, studenti, di farci accorgere con maggiore profondità, con rinnovato stupore, di aspetti della realtà che normalmente diamo per scontati. Ci sembra ovvio, per esempio, che esistano oggetti come le montagne, i fiumi, i continenti, il mare; che il cielo sia coperto di nuvole, che ogni tanto ci faccia cadere addosso un po’ di pioggia o di neve; non ci stupisce, forse non ci rendiamo neanche più molto conto, che da un anno all’altro si ripetono le stagioni, pur in un clima che rimane stabile per enormi periodi di tempo, per miliardi di anni. A volte il nostro sguardo rimane attratto da qualche scena particolarmente bella, o insolita: il tramonto sul mare, oppure il profilo della Luna contro il cielo nero; poi torniamo alle nostre faccende, senza riconoscere un nesso, senza percepire la speranza di un nesso tra noi e tutto questo. Eppure ciascuna di queste realtà rappresenta qualcosa di assolutamente straordinario, descrive una circostanza rarissima dell’universo intero. Pressoché ogni cosa che vediamo sul nostro pianeta è qualcosa di straordinario su scala cosmica. Non solo; ciascuno di questi fattori, direttamente o indirettamente, contribuisce in modo decisivo alla nostra stessa esistenza.
Noi siamo abituati a pensare alla Terra come a qualcosa di insignificante, un puntino banale nella vastità dell’universo. E da quando Copernico ha sradicato la Terra dalla sua posizione centrale nell’Universo, il nostro pianeta è apparso sempre più piccolo e sperduto nella crescente vastità dell’Universo conosciuto. Così, estrapolando forse un po’ frettolosamente questa situazione, si è giunti a quello che viene chiamato il «principio di mediocrità terrestre», secondo il quale la Terra sarebbe un pianeta comunissimo, e non costituirebbe in nessun modo, un punto notevole o privilegiato dell’Universo. Così si è diffusa anche l’idea che il fenomeno della vita, fino alle sue forme più alte, debba necessariamente essere qualcosa di normale.
Oggi non sappiamo se esistano, e quanto diffuse possano essere, forme di vita al di fuori della Terra. È una questione aperta, di grande importanza e di grande fascino. Ci sono diverse missioni spaziali che sia l’agenzia spaziale europea, sia quella americana hanno in programma, mirate a scovare eventuali tracce di vita oltre la Terra. Ma il fatto notevole è che, proprio nel tentativo di mettere in evidenza le condizioni generali indispensabili all’emergere della vita altrove, soprattutto le condizioni necessarie per accompagnare un’evoluzione dalle forme più elementari alle forme più evolute di vita, gli scienziati, forse inaspettatamente, si stanno rendendo conto in un modo nuovo e più profondo delle qualità sopraffine del nostro pianeta.
Che cos’ha la Terra di speciale? Come fa a essere tanto generosa nei confronti della vita?
Innanzitutto il nostro pianeta gode di condizioni astronomiche particolarissime: la distanza ottimale dal Sole, la bassa eccentricità dell’orbita, le particolari caratteristiche della nostra stella, il Sole; tutto ciò mantiene la Terra in modo permanente in quella che gli astrobiologi chiamano la cosiddetta «zona di abitabilità» intorno al Sole. Inoltre il Sole si trova a una buona distanza di sicurezza dal centro della Galassia, dove si affollano la maggior parte delle stelle, dove vengono prodotte grandi dosi di radiazioni ionizzanti che sono letali per l’evoluzione della vita.
Anche la Luna contribuisce in modo sorprendente alla abitabilità del nostro pianeta. Grazie alla presenza della Luna l’inclinazione dell’asse terrestre, al quale si deve l’avvicendarsi delle stagioni, è rimasta pressoché costante per miliardi di anni, assicurando la necessaria stabilità di temperatura che è richiesta dall’evoluzione della vita. Se qualcuno non avesse “inventato” la Luna, noi non saremmo qui oggi.
Noi dobbiamo molto anche ad altri pianeti del Sistema solare: per esempio Giove e Saturno, che con il loro intenso campo gravitazionale, collocato alla giusta distanza dalla Terra e dal Sole, ci fanno da guardiani contro gli asteroidi, che altrimenti, con una frequenza gravemente maggiore, ci colpirebbero, devastando la Terra in modo insostenibile. Il mese scorso, guardando verso est dopo il tramonto, si potevano vedere sia la Luna sia Giove con un solo colpo d’occhio. E non sono soltanto belli a vedersi: oggi sappiamo anche riconoscere il loro provvidenziale contributo alla nostra esistenza. Forse nessuna mitologia antica si era spinta tanto avanti nel tentativo di esprimere questo nesso tra la nostra vita e quella dell’Universo, quanto sta facendo la scienza moderna.
Non solo la posizione e il moto della Terra nell’Universo, ma anche la particolarità della sua struttura interna, la composizione chimica, l’atmosfera, e la struttura geologica, giocano un ruolo essenziale, insostituibile, per l’emergere della vita. Come ha dimostrato Peter Ward, che abbiamo incontrato nel lavoro di preparazione di questa mostra, la tettonica a zolle attua una specie di termostato senza il quale grandi quantità di acqua non potrebbero mantenersi allo stato liquido per miliardi di anni. Inoltre la tettonica a zolle è indispensabile per l’emergere dei continenti e delle catene montuose che sono essenziali per far procedere la vita verso i livelli più alti di evoluzione; diversamente la vita sarebbe rimasta confinata negli oceani, a un livello relativamente basso di complessità.
La Terra è quello che è anche grazie ad una catena di eventi imprevedibili, storici, e drammatici, che l’hanno segnata. Recentemente, per esempio, i geologi si sono resi conto che per due volte nel passato – due miliardi e mezzo di anni fa, e settecento milioni di anni fa – la Terra ha attraversato dei periodi di glaciazione globale, la cosiddetta «Snowball Earth», e per ragioni ancora da decifrare, fu ricoperta di ghiaccio dai Poli all’Equatore. Probabilmente la vita fu sul punto di essere sradicata: si salvò rifugiandosi nella profondità degli Oceani. Ma diversi studiosi sono convinti che proprio queste crisi drammatiche nella storia della Terra abbiano dato il via a dei processi, a dei “salti” evolutivi fondamentali. Inoltre, è ormai ben nota e scientificamente consolidata l’ipotesi che nel Cretaceo, circa sessantacinque milioni di anni fa, la Terra fu sconvolta da un asteroide, che causò l’estinzione dei dinosauri e difficilmente, senza questo evento imprevedibile, ci sarebbe stata un’epoca per i mammiferi, fino a quel momento rimasti un po’ nell’angolo della scena; un evento quindi che ha aperto la strada alla comparsa dell’uomo.
Una certa divulgazione un po’ superficiale ci ha abituati a pensare alla Terra come a qualcosa di banale, di insignificante nell’Universo. Ma un’osservazione attenta ci mostra come sia invece un luogo di inaudita ricchezza e complessità, costruito attraverso una successione di avvenimenti delicati e mantenuto grazie al concorso di circostanze diverse: le montagne, il mare, la Luna; realtà che siamo abituati a considerare ordinarie, sono invece il frutto di una combinazione finissima e provvidenziale di circostanze. Un San Francesco del Terzo Millennio avrebbe avuto molti più motivi per lodare Dio. Il suo Cantico delle Creature avrebbe dovuto includere molte strofe in più! Invece l’uomo moderno vive una brutta estraneità, una profonda indifferenza verso il contesto naturale che lo circonda: sia verso l’ambiente immediato della Terra, sia verso l’ambiente globale che è l’Universo. Un’estraneità che lo ha portato a una colpevole noncuranza, di cui già viviamo le conseguenze, per l’ambiente. Questa indifferenza, d’altra parte, non è scalfita affatto da una certa ideologia ambientalista, che tende a vedere l’essere umano quasi come un estraneo nella natura, come l’inquilino indesiderato di un mondo altrimenti puro, anziché come il suo vertice. È un’estraneità profonda, che deriva, a mio parere, dal rifiuto dell’idea che il mondo, il cielo e la Terra sono per l’uomo. Così l’uomo moderno vive con questo lo imbarazzo di non sentirsi a casa propria, e quindi di non saper amministrare le proprie risorse. Invece, se il mondo è fatto per noi, allora finalmente è possibile trattare le cose con rispetto autentico e con libertà autentica. Il mondo ci è stato dato e ci è dato in ogni momento: è da qui che nasce la meraviglia, la contemplazione e, al tempo stesso, la cura per la realtà e la possibilità di manipolarla secondo lo scopo per cui esiste.
La comparsa della vita e la sua evoluzione in esseri sempre più complessi – eventi che in sé sono già qualcosa di straordinario – non sono che il preludio all’evento più sconcertante e straordinario: l’emergere dell’essere autocosciente. È il tema in cui ci introdurrà fra poco il professor Facchini. Possiamo dire che l’intera evoluzione della materia, fin dai primi attimi della storia dell’Universo, approda alla comparsa del livello biologico e così, analogamente, il livello biologico si presenta come il terreno su cui a un certo momento, misteriosamente, emerge un nuovo e irriducibile livello della natura, che è l’essere umano. L’emergere dell’umano è il fenomeno per cui la realtà giunge a prendere coscienza di se stessa, a percepire e affermare il rapporto con ciò che la fa essere. Nell’uomo la natura diventa cosciente di non farsi da sé.
Concludo con queste parole di Sua Ecc. il cardinale Ratzinger, che a questo proposito ha scritto: «Lo spirito non si aggiunge alla materia come qualcosa di estraneo. L’apparire dello spirito significa piuttosto che un movimento che fa da battistrada arriva al traguardo a lui assegnato. L’argilla si era trasformata nell’uomo nell’istante in cui un essere, per la prima volta, anche se non in questa forma, riuscì a formare il pensiero di Dio. Il primo “Tu”, come sempre balbettante, che venne rivolto a Dio da bocca umana, indica il momento in cui lo Spirito era entrato nel mondo».

Elio Sindoni: Marco Bersanelli vi ha dato una chiave di lettura della mostra. Mi, limiterò in pochi minuti, a fornirvi qualche indicazione su come è organizzata.
La Terra occupa una posizione nell’Universo che, come vi è stato detto, non è qualsiasi. L’inizio della mostra permette di dare uno sguardo a ciò che irconda la Terra, all’Universo, per rendersi conto dell’armonia dei moti celesti. Vi sono, infatti, due planetari: uno, un bellissimo armillare, fatto costruire nel 1840 da Mastai Ferretti, poi papa Pio IX, quando, prima di salire al soglio pontificio, era vescovo di Imola; l’altro è un planetario moderno, che vi permetterà di ammirare un cielo stellato in miniatura, con il moto apparente diurno e annuale dei principali pianeti, costellazioni, galassie e buchi neri. All’uscita vi attende l’immagine del nostro pianeta, ripresa da un satellite.
Iniziano poi le cinque sezioni della mostra: le prime quattro sono dedicate rispettivamente all’astrofisica, alla geologia, alla chimica, alla biologia, e illustrano quelle circostanze straordinarie cui Bersanelli ha accennato. La quinta sezione è dedicata all’energia: la Terra racchiude in sé un grande tesoro, quegli elementi che, grazie a un processo molto complesso e unico nel Sistema solare, si sono accumulati nei milioni di anni, mettendo in essere fonti di energia, dal fuoco al petrolio, all’energia nucleare, che hanno permesso all’umanità di raggiungere l’attuale livello tecnologico. Infine una sintesi cronologica permetterà di collegare i vari fatti esposti nelle sezioni.
La mostra ha anche una “sezione” in piazza Fellini, dove abbiamo montato un telescopio “vero”, che ci permetterà di osservare direttamente quelle poche stelle del cielo d’agosto di Rimini.
Adesso ho il grande piacere di presentare Monsignor Facchini. Fiorenzo Facchini è Professore Ordinario di Antropologia alla Facoltà di Scienze Matematiche e Fisiche e Naturali dell’Università di Bologna; Docente di Antropologia culturale alla Facoltà di Scienza Politiche e responsabile del Museo di Antropologia; coordinatore dei corsi di Dottorato in Scienze Antropologiche dell’Università di Bologna; è membro di varie società scientifiche nazionali e internazionali, del consiglio direttivo dell’Istituto Italiano di Antropologia, socio effettivo dell’Accademia delle Scienze di Bologna; membro effettivo dell’Accademia delle Scienze naturali del Kazakhistan. Nelle sue ricerche si è occupato di auxologia, di polimorfismi genetici, di popolazioni antiche e attuali italiane e di Paesi extraeuropei; ha partecipato a varie missioni scientifiche in Italia e all’estero, organizzando anche due spedizioni nell’Asia centrale, in Kazakhistan e nel Kirghizistan, per lo studio dell’adattamento umano alle alte quote. In campo paleoantropologico ha messo in evidenza caratteristiche, comportamenti e rapporti tra popolazioni preistoriche – particolarmente nel Neolitico e nell’età dei metalli – e ha approfondito gli aspetti culturali legati alla progettualità e alla simbolizzazione nel corso dell’evoluzione umana, proponendo di individuare nella cultura la nicchia ecologica dell’uomo. È autore di oltre 250 pubblicazioni scientifiche, tra cui i volumi Il cammino dell’evoluzione umana (Jaca Book); L’uomo: le origini (Jaca Book, pubblicato anche in francese, spagnolo, tedesco, giapponese); Paleoantropologia culturale (Jaca Book), Paleontropologia e preistoria: dizionario enciclopedico; Miti e riti della preistoria (Jaca Book); Scienza e conoscenza: verso un nuovo umanesimo.
Fiorenzo Facchini: Ringrazio gli organizzatori del Meeting, e in particolare i colleghi Sindoni e Bersanelli, dell’invito che mi hanno rivolto.
Sul tema che mi è stato assegnato, “L’emergere dell’uomo nella storia della vita”, vorrei innanzitutto fare qualche considerazione di ordine generale e metodologico. Possiamo chiederci: l’uomo è un evento fortuito? È un caso che sia comparso sulla Terra, oppure risponde ad un disegno? Se vogliamo anche esprimerci in altro modo: l’uomo si esaurisce in quello che lo caratterizza sul piano biologico, oppure c’è altro?
Sono molte le domande che si pongono sulle origini dell’uomo. Possono riguardare come si è formato l’uomo, quando è comparso, perché è comparso, cioè il suo significato. Chi pretendesse di rispondere a tutte queste domande soltanto con la scienza o soltanto con la filosofia o con la religione, finirebbe per assumere un atteggiamento totalizzante, di tipo fondamentalista, quindi farebbe dell’ideologia. Così è avvenuto nel campo della scienza, quando vi sono stati, o vi sono, scienziati che escludono altre forme di conoscenza, che non siano quelle del metodo sperimentale, fondate sull’osservazione empirica. Ma anche nel campo filosofico e in quello religioso vi sono state e vi sono persone che pretendono di ricavare dalla Bibbia delle informazioni su fenomeni di ordine scientifico (per esempio circa il moto degli astri, oppure l’origine delle specie sulla Terra). Non si può fare alla Bibbia quello che essa non vuole dire, perché il suo messaggio è essenzialmente religioso e non scientifico. Nello stesso tempo non si può pretendere dalla scienza quello che essa non può dire (per esempio, non può dimostrare o negare l’immortalità dell’anima o l’esistenza di Dio).
Diventa importante affrontare questi problemi in un approccio che potremmo dire globale, che include appunto diverse metodologie di indagine.
L’evoluzione della vita c’è stata, anche se non la si può dimostrare riproducendola in laboratorio. Credo che nessuno possa avere questa pretesa. Sono molti gli argomenti che si possono portare a sostegno dell’evoluzione della vita. L’evoluzione biologica rappresenta la spiegazione più plausibile dei fossili che conosciamo ed è coerente con le conoscenze che abbiamo in campo zoologico, biochimico, genetico. Anche Giovanni Paolo II, nel 1996, in un messaggio all’Accademia Pontificia delle Scienze, riconosceva che l’evoluzione non è più soltanto un’ipotesi, ma ha il valore di una teoria scientifica.
Ma a un certo momento è venuto l’uomo. È l’argomento che dovrò affrontare e lo farò sul piano paleoantropologico, anche se non potrò non accennare a domande che si affacciano su altri orizzonti, come quello filosofico e religioso. Prima ancora, un’osservazione preliminare.
L’uomo: qual è l’identità dell’uomo? C’è un’identità biologica che lo caratterizza e lo distingue dalle altre specie viventi del mondo animale. Per esempio, la stazione eretta è una caratteristica, anche se non esclusiva dell’uomo, perché ci sono state nel passato forme non umane che hanno praticato il bipedismo. C’è una cerebralizzazione molto marcata rispetto alle altre specie. Attualmente la capacità cranica dell’uomo vivente può variare da 1250cc a 1550cc. Nel corso dell’evoluzione ai livelli di Homo habilis, Homo erectus, Homo sapiens, la capacità cranica aveva valori alquanto diversi da quelli attuali: Homo habilis intorno ai 700-800cc; Homo erectus, 1000-1200cc; Homo sapiens, 1200-1500cc.
La capacità cranica può essere un parametro per identificare l’uomo? In certa misura sì, e viene anche utilizzato in campo paleoantropologico (alcuni parlano di “Rubicone cerebrale”, di soglia cerebrale, individuabile tra 700 e 800cc, oltre la quale si può considerare che ci sia una presenza di uomo). Però, al di là degli aspetti dimensionali, quello che importa nell’encefalo umano, più ancora che le dimensioni, sono l’organizzazione nervosa, la differenziazione dei vari centri, soprattutto nell’area prefrontale, in relazione anche al linguaggio articolato. Piveteau rilevava che il criterio anatomico, e quindi la quantità dell’encefalo, è fonte di indecisione. Un criterio più importante è quello culturale, cioè la presenza di segni che rivelano il comportamento tipico dell’uomo rappresentato dalla cultura, si tratti dell’uomo preistorico o dell’uomo attuale.
Ma quando possiamo dire che ci troviamo di fronte a manifestazioni culturali? Sono fondamentalmente due le caratteristiche della cultura: la progettualità e la simbolizzazione.
Per progettualità intendiamo l’attitudine di porre intenzionalmente determinate azioni in ordine ad un certo fine. Nella progettualità c’è la previsione delle conseguenze di determinati atti, c’è l’intendimento di raggiungere un determinato obiettivo. Questa progettualità può esprimersi nella tecnologia strumentale (si tratti di un bifacciale o di un computer), nella organizzazione del territorio (può essere una capanna, un riparo o un grattacielo) e nella preparazione del cibo.
L’altro elemento che caratterizza la cultura è la simbolizzazione e con questo termine intendiamo la capacità di attribuire ad un segno, ad un suono, ad un gesto, un significato per cui quel gesto, quel suono, quell’attività viene ad assumere anche un valore simbolico. Possiamo riconoscere facilmente questa capacità simbolica nelle rappresentazioni artistiche, nelle sepolture, nel linguaggio umano. Possiamo riconoscere un valore di simbolo anche ai prodotti della tecnologia dell’uomo, perché ciò che l’uomo produce – anche uno strumento di selce – rimanda ad una funzione e assume un significato nel contesto di vita, nell’immaginario dell’uomo, per cui allora possiamo parlare di simbolismo spirituale, nel caso della religiosità o dell’arte, di simbolismo sociale per il linguaggio e la comunicazione sociale, di un simbolismo funzionale per i prodotti della tecnologia dell’uomo.
Questi aspetti della cultura, la progettualità e la simbolizzazione, non appartengono alla sfera biologica: sono qualche cosa di extrabiologico o metabiologico; la loro natura non potrà essere identificata con un approccio empirico, ma eventualmente con altri approcci, come quello filosofico e religioso. La cultura costituisce la carta di identità dell’uomo.
Ciò premesso, quando possamo ritenere di trovarci di fronte all’uomo? A grandi linee l’evoluzione umana presenta diverse tappe. Mi limito a ricordarle.
C’è la fase degli Australopiteci. La famosa Lucy è un’australopitecina di tre milioni e mezzo di anni fa, trovata in Etiopia. Forme simili sono state ritrovate anche in altre parti nell’Africa orientale e australe. Oltre a questa forma arcaica se ne conoscono molte altre, più antiche e più recenti; vi sono anche forme assai robuste. Gli Australopiteci non rappresentano un raggruppamento omogeneo, ma piuttosto eterogeneo e complesso che ha preceduto la comparsa dell’uomo, nell’ambito del quale si ritiene che vi sia una linea evolutiva che ha portato poi all’Homo habilis, mentre le altre non hanno un rapporto di ascendenza rispetto all’uomo. Anche l’australopitecina Lucy molto probabilmente non è da considerarsi antenata dell’uomo.
Tra gli Ominidi del Terziario vi è stata dunque una linea (Australopiteco anamense di 3,9 milioni di ani fa?) che ha portato a Homo habilis di 2,5-2 milioni di anni fa. La denominazione di questo ominide si lega oltre che alle maggiori dimensioni dell’encefalo, alla sua capacità di fabbricare strumenti, di produrre l’industria su ciottolo. Non tutti però lo riferiscono al livello umano.
La fase successiva viene identificata in Homo erectus: i reperti più antichi risalgono a 1,6 milioni di anni fa e si trovano nell’Africa. Hanno una maggiore capacità cranica, una certa robustezza e sono accompagnati da industria su ciottolo e da bifacciali. La fase africana più antica viene denominata da alcuni Autori Homo ergaster. Dall’Africa Homo erectus si è portato presto in Asia e in Europa. Ricordiamo i Pitecantropi di Giava e le recenti scoperte a Dmanisi, in Georgia, di reperti che risalgono a 1,6 milioni di anni fa. Essi attesterebbero una migrazione dall’Africa (di Homo ergaster?) in epoca assai antica. Altri reperti molto antichi sono stati trovati in Europa a Atapuerca (Spagna), a Ceprano (Lazio), a Heidelberg (Germania), a Tautavel (Francia). La fase di Homo erectus si prolunga fino 150-100.000 anni fa per dare luogo alla fase di Homo sapiens, sia nelle sua forma arcaica, a cui possiamo riferire anche i Neandertaliani dell’Europa e del Vicino Oriente tra 100.000 e 37.000 anni fa, sia nella forma ormai moderna (Homo sapiens sapiens) che intorno a 40-37.000 anni fa è presente nei vari continenti.
Queste fasi, più che indicare delle specie, sono da intendersi come stadi morfologici che hanno portato alla forma moderna.
Ci si può allora porre la domanda: quando noi ritroviamo documenti che attestano una capacità progettuale e simbolica, caratteristica dell’uomo? È facile riconoscere negli artisti delle grotte di Altamira, Lascaux e Niaux (circa 18-15.000 anni fa) uomini come noi, capaci di simbolizzazione. Altrettanto possiamo dire di fronte alle statuette femminili (le c.d. Veneri) del periodo aurignaziano (circa 30.000 anni fa). Anche le sepolture (le più antiche che conosciamo risalgono a 90.000 anni fa e sono state scoperte a Qafzeh e a Skhul in Palestina), attestano chiaramente un pensiero simbolico. Significativa una sepoltura a Qafzeh in cui si trova una giovane donna con gli arti rattratti, un infante ai suoi piedi ed è accompagnata da corredo. Ma possiamo andare ancora più indietro nel tempo e trovare segni intenzionali lasciati dall’uomo su ossa, difficilmente decifrabili, come in una tibia di elefante trovata nel giacimento di Bilzinsgleben in Germania e risalente a circa 400.000 anni fa. Il loro significato ci sfugge, ma dovevano avere un valore simbolico.
Un senso estetico, oltre al concetto di simmetria, si può cogliere anche in molti bifacciali del Paleolitico inferiore. Voglio segnalare quelli trovati a Norfolk e a Swanscombe, in Inghilterra, che conservano al centro un fossile. Chi ha realizzato quegli strumenti, oltre alla capacità tecnologica, espressa nella lavorazione su entrambe le facce, aveva anche un interesse alla conservazione di un elemento decorativo, e quindi un senso estetico. Del resto anche la lavorazione bifacciale (scheggiatura, ritocchi) esprime il concetto di simmetria, che non è richiesto di per sé dalla funzionalità dello strumento.
Andiamo ancora più indietro. L’industria su ciottolo, la cultura olduvaiana, è stata trovata sia con Homo erectus che con Homo habilis. Siamo a 2.000.000 di anni fa o anche più. Essa viene interpretata già come espressione umana, perché c’è una progettualità, gli strumenti assumono un significato e vengono conservati. Ne hanno trovati, insieme con ossa di animali, all’interno di cerchi che probabilmente erano basi di capanne. L’organizzazione del territorio è un altro elemento molto importante che denota una tecnologia.
Vorrei anche segnalare per Homo habilis un certo sviluppo delle aree cerebrali relative al linguaggio articolato: sono l’area di Broca, area motoria, e quella di Wernicke, per la comprensione del linguaggio. Secondo le ricerche di Tobias e di Falk sono individuabili nell’endocranio di Homo habilis. La loro presenza indicherebbe uno sviluppo neurologico connesso con il linguaggio che non si trova negli Australopiteci.
L’emergere dell’uomo, ricordava prima Bersanelli, si ha quando l’ominide ha cominciato a porsi delle domande su di sé, quindi è stato capace di autocoscienza. L’uomo è incominciato quando è stato capace di progetto e di simbolo, cioè di cultura. Ciò sta a indicare che nell’Ominide si è accesa, per così dire, la scintilla dell’intelligenza.
Se consideriamo soltanto le manifestazioni di simbolismo spirituale dobbiamo dire che non si va più indietro di 100.000 anni, ma se consideriamo, con valore simbolico, anche le manifestazioni della tecnologia, possiamo andare più indietro, all’Homo erectus, che elaborava bifacciali, organizzava il territorio e la caccia; e molto probabilmente anche all’Homo habilis. È questo il modo di vedere di molti paleantropologi e anche di chi vi parla. Del resto, per identificare l’aspetto culturale che caratterizza l’uomo, non si deve guardare al grado di sviluppo delle manifestazioni culturali, ma all’attitudine che esprimono le manifestazioni culturali. Noi possiamo riconoscere questa attitudine già nelle fasi più antiche dell’umanità, anche se i segni lasciatici possono apparire piuttosto semplici o rozzi. Come amava dire Teilhard de Chardin, l’uomo fa il suo ingresso sulla terra, in punta di piedi, senza rumore. Quando noi lo vediamo è già una folla.
Il segno che rappresenta la vera discontinuità rispetto all’essere animale è la cultura. Invero, anche sul piano biologico si riconosce una certa discontinuità nell’aumento dell’encefalo. Rispetto agli Australopiteci quello di Homo habilis è maggiore di circa il 40%, secondo Tobias. Tuttavia si potrebbe osservare che potrebbero esserci state forme intermedie che non conosciamo. Per quanto invece si riferisce alle manifestazioni culturali, questo distacco sembra più evidente. Alcuni segnalano che pietre scheggiate sono state trovate anche in strati di Australopiteci. Probabilmente l’Australopiteco non solo utilizzava pietre, ma era capace di qualche scheggiatura; però se questo avveniva, non aveva le caratteristiche che noi ritroviamo successivamente con Homo habilis; il manufatto doveva rappresentare un fatto episodico. Coppens parla di modo “aneddotico” con cui potevano essere prodotti eventualmente i manufatti dall’Australopiteco. Nel caso dell’uomo c’è una sistematicità, una progressione, ci sono delle innovazioni. Le industrie di Homo habilis e Homo erectus sono conservate in un contesto di vita per cui assumono un significato, facendo parte del mondo simbolico dell’uomo. Forse è proprio perché non era ancora cultura quella che gli Australopiteci realizzavano che essi si sono estinti nella competizione con l’ambiente, a differenza dell’uomo.
La cultura rappresenta una grande novità della storia evolutiva. Di questa novità io vorrei mettere in evidenza due aspetti.
1. La cultura rappresenta la grande mediazione della specie umana con l’ambiente. Essa assume quindi un valore adattativo. Per la specie umana l’adattamento all’ambiente non si realizza solo come nelle altre specie, attraverso le varianti genetiche che vengono tratte fuori dalle risorse del genoma. L’uomo si adatta all’ambiente, cambiando l’ambiente. Certamente continua l’influsso dell’ambiente, che seleziona nel lungo periodo le varianti genetiche favorevoli. Pensiamo alla diversa pigmentazione delle popolazioni umane; quindi continua l’adattamento genetico. Ma la grande novità è che nel rapporto con l’ambiente l’uomo ha la capacità di modificare l’ambiente e di modificare il proprio comportamento per renderlo adatto all’ambiente, creando così ambienti artificiali, su misura dell’uomo stesso. Si potrebbe anche dire che la cultura rappresenta in qualche modo l’ambiente stesso dell’uomo. Nelle specie animali la nicchia ecologica è data dall’habitat e dal rapporto funzionale che la specie stabilisce con l’habitat. Nel caso dell’uomo questo continua, però il rapporto funzionale con l’habitat è in qualche modo inglobato dai fattori culturali che intervengono nell’adattamento anche biologico o nell’adattamento dell’ambiente all’uomo, per cui si può parlare in modo emblematico di cultura come “nicchia ecologica” dell’uomo.
Vorrei fare un’altra considerazione: mediante la cultura, l’uomo si libera da quelli che sono rigidi determinismi di ordine genetico o ambientale e, in qualche misura, è in grado di contrastare anche la selezione naturale (ad esempio, può resistere a determinate malattie che invece lo eliminerebbero, può far fronte ad ambienti ostili che gli impedirebbero di vivere). Questo è un fatto singolare nella storia dei viventi. Dunque la selezione naturale avrebbe prodotto un essere capace di contrastarla. Èsingolare, per non dire che è un’anomalia. C’è da chiedersi se sia stata soltanto la selezione naturale a produrre un essere simile.
2. L’altra novità della cultura è data dal trascendimento che esprime l’uomo nel suo comportamento rispetto a quello che è la sfera biologica, dato da quegli aspetti di progettualità e di simbolizzazione su cui mi sono particolarmente soffermato. Emerge l’uomo, ma emerge ciò che trascende; emerge perché il suo comportamento lo fa trascendere. Dobzhansky parla di due trascendimenti nella storia della vita: il primo si è avuto nella formazione dei primi esseri viventi. L’evoluzione cosmica ha trasceso se stessa generando la vita: non vengono annullate le leggi della fisica e della chimica, ma c’è un nuovo livello organizzativo. Un secondo trascendimento si è avuto con la comparsa dell’uomo. L’evoluzione biologica trascende se stessa, dando origine all’uomo con ciò che lo caratterizza sul piano della cultura. È quello che ho chiamato extrabiologico o metabiologico nel comportamento dell’uomo.
A questo punto restano due problemi che si legano alle prime domande che ci siamo fatti: l’uomo è un evento fortuito? Che cosa rappresenta l’elemento extrabiologico e metabiologico che caratterizza la cultura? Cercherò di abbozzare qualche risposta, rimanendo soltanto alle soglie di un problema che può essere meglio affrontato con altri approcci, come quello filosofico e religioso.
L’uomo, un evento fortuito: ma allora tutta l’evoluzione della vita si può considerare all’insegna del caso, o di combinazioni favorevoli, oppure c’è un disegno sotto a questi eventi che caratterizzano la storia della vita sulla terra? È il problema del finalismo. La mostra “Una terra per l’uomo” lascia intendere una finalizzazione.
Piveteau un grande paleontologo francese, rilevava che tutto si svolge nella evoluzione della vita come se l’uomo rappresenti veramente il punto di arrivo di un processo. Teilhard de Chardin parla dell’uomo come freccia dell’evoluzione, una direzione privilegiata. Ma come può essersi realizzato un disegno in una storia così complessa che ha visto sconvolgimenti tellurici, la formazione di nuovi scenari terrestri, estinzioni di specie? Può essersi realizzato per interventi continui, per così dire, di un essere superiore, che ha incanalato e ha dato una direzione ai vari eventi, oppure può essersi realizzato per una combinazione di elementi casuali o comunque non predeterminati nei vari processi che li hanno realizzati? Teilhard de Chardin parla di un’evoluzione che è venuta avanti e si è realizzata attraverso il gioco dei grandi numeri e della casualità. Certamente nella visione darwinista pura un disegno è escluso, le variazioni genetiche sono all’insegna del caso e, quindi, è casuale anche la comparsa dell’uomo. Ayala parla di “un disegno senza disegnatore”. Forse vuole alludere a un disegno di insieme che lascia posto anche a strutture o elementi che non sono perfetti e sono da connettere ad eventi selettivi. Personalmente preferisco dire che il disegnatore c’è, ma è nascosto dietro le leggi della fisica, della chimica, della biologia e dei grandi numeri. Èun disegnatore che si serve delle cause seconde, quindi, di eventi “non riusciti oppure direzioni evolutive che poi si sono estinte, che non hanno o sembrano non avere una giustificazione.
Ma a proposito del finalismo in senso globale vorrei osservare che è un problema propriamente filosofico, più che scientifico, per cui il discorso non può essere affrontato esclusivamente su base scientifica. Un progetto può realizzarsi anche per eventi che apparentemente possono sembrare casuali, come se ci fosse una sorta di gravità evolutiva verso le forme e strutture via via più complesse, come avviene per esempio per l’acqua che scende a valle e può perdersi oppure può invece concentrarsi in rivoli o addirittura formare fiumi.
Certamente la presenza dell’uomo fa riflettere con più forza sul del finalismo. L’uomo può dirsi prodotto esclusivamente del caso?
La seconda domanda: l’uomo in quello che presenta di extra biologico, che trascende la sfera della biologia, come può essere spiegato? La spiegazione credo si debba andare a cercare nella filosofia o nella religione. La spiegazione della natura di questo elemento che ho chiamato extrabiologico dobbiamo andarla a cercare fuori del terreno della scienza empirica. Tra uomo e animale c’è una discontinuità ontologica (ci stiamo muovendo su un piano filosofico). Un segno di questa discontinuità lo troviamo nel comportamento, nella cultura. Viene allora da chiedersi: è lo spirito che esprime questa discontinuità? Credo di sì: lo spirito in quanto tale non può derivare dal mondo animale. Lo spirito richiede un intervento superiore da identificare in un intervento divino, per cui l’uomo c’è stato quando c’è stata una struttura capace di accogliere anche questo “alito divino” che è lo spirito. L’ominizzazione, sul piano filosofico e teologico, comporta un intervento particolare di Dio o comunque una volontà di Dio creatore perché ci sia l’uomo con queste sue capacità e con uno spirito che non può derivare dal mondo animale (a questo proposito faccio notare che anche il nostro spirito non deriva dai cromosomi dei genitori. Anche in questo caso c’è una volontà di Dio creatore per lo spirito, perché ci sia l’uomo nella sua pienezza).
Siamo così arrivati alle soglie di problemi che non sono più della paleoantropologia, ma di ordine filosofico e religioso e che non possiamo ignorare. Se non li posso affrontare con la metodologia della paleoantropologia, devo cercare qualche risposta dove è possibile trovarla.
Nella luce della fede penso che la visione di un mondo in evoluzione renda più evidente e più luminoso il progetto di Dio sulla creazione e sull’uomo, un progetto che non è già prestabilito, ma un progetto che si fa nel tempo attraverso quelle che vengono chiamate cause seconde. «Dio non fa le cose. Egli fa in modo che le cose si facciano», ha osservato Teilhard de Chardin. E per chiudere vorrei citare Giovanni Paolo II: «Una fede rettamente intesa nella creazione e un insegnamento rettamente inteso sull’evoluzione non creano ostacoli. L’evoluzione presuppone la creazione e la creazione nella luce dell’evoluzione può essere vista come il prolungamento dell’azione stessa creatrice di Dio. Diventa cioè una creazione che si estende nel tempo come appunto una creazione continua, che rende visibile agli occhi del credente il Dio che è creatore del cielo e della terra».

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