Galileo

Benedetta CappelliniSenza categoria

Proponiamo di seguito la presentazione della mostra su Galileo allestita in occasione del Meeting di Rimini nell’estate del 2000. Con la partecipazione di Walter Brandmmüller, Presidente del Pontificio Comitato di Scienze Storiche.

Martedì 22 agosto 2000, ore 15.00, Sala 3

Relatore: Walter Brandmmüller, Presidente del Pontificio Comitato di Scienze Storiche
Moderatore: Mario Gargantini, direttore della rivista Emmeciquadro

Mario Gargantini: Due sono i punti che voglio indicare, le due possibili piste che hanno guidato l’allestimento della mostra: una è quella della esperienza umana di Galileo, l’altra è quella che può andare sotto il titolo “il problema della conoscenza”. Sul primo punto quello che ci interessa è l’esperienza dell’uomo Galileo: questa è anche un’indicazione per come guardare l’esperienza dei ricercatori in genere. Il caso Galileo è infatti emblematico ed è un caso dove l’esperienza umana è in risalto, in modo molto acuto, anche per tutti i contrasti e per tutte le conseguenze e le implicazioni che ha avuto; questo è uno degli elementi che più ci ha aiutato a preparare la mostra che non aveva tanto l’interesse di riabilitare o non riabilitare, dire chi aveva ragione e chi aveva torto, ma proprio di applicare a questo caso storico dei criteri che possono valere in generale per l’incontro con la scienza e con la sua storia. Questo aiuta a guardare l’esperienza dei ricercatori come una esaltante e impegnativa avventura umana che origina dalla passione per la realtà, dal desiderio di indagarla in tutti gli aspetti. Galileo è emblematico in questo, Galileo vive intensamente la realtà del suo presente, e in modo molto deciso, forse impulsivo ed esagerato – questo gli causerà molti problemi –: interessante è l’impatto con la realtà, il desiderio di vivere fino in fondo il suo presente. Per questa passione verso la realtà e per questa disponibilità continua ad imparare abbiamo intitolato la prima sezione della mostra “I maestri di Galileo”, indicando sotto questo titolo genericamente tutte quelle persone, situazioni e esperienze dalle quali Galileo ha imparato. Galileo ha proprio questa caratteristica di imparare un po’ da tutti, anche da quelli che poi diventeranno o saranno considerati, anche con storture storiche, i suoi avversari: l’esempio classico è quello del Collegio romano dei Gesuiti.
Il secondo filone è quello della conoscenza, conoscenza scientifica che è una parte della conoscenza dell’esperienza dell’uomo, conoscenza che è mossa dalla curiosità e dalle domande che l’impatto con la realtà provoca nell’uomo. Abbiamo voluto mettere in evidenza quel racconto di Galileo dal Saggiatore in cui viene descritta molto bene, anche in maniera letterariamente avvincente, la dinamica dell’uomo curioso che cerca in tutti i modi di carpire dalla natura i messaggi che la natura gli manda e scopre che comunque deve sempre andare al di là, che c’è sempre un oltre rispetto a quello che lui riesce a scorgere: continuamente l’incontro con la natura offre indicazioni, suscita domande che innescano ulteriori ricerche in un crescendo senza fine. Conoscenza che si esprime come grandi capacità di osservazione, come desiderio di osservare la natura il meglio possibile, come volontà e capacità di escogitare tutti i modi possibili per leggere il gran libro della natura secondo le sue parole. Così vanno viste anche le attività pratiche, sperimentali, tutti gli accorgimenti cui la mostra accenna, tutti i possibili marchingegni e tutte le possibili idee e intuizioni anche pratiche per poter osservare meglio, per poter raccogliere meglio le informazioni che la natura mette a disposizione. Conoscenza che si esprime ancora in un continuo lavorìo della ragione che cerca risposte più adeguate a quelle domande che l’incontro con la realtà ha messo in moto, risposte sempre più adeguate all’oggetto dell’indagine che determina poi proprio il modo di procedere.
Nella parte centrale della mostra abbiamo voluto evidenziare tutte le componenti dell’attività sperimentale di Galileo ma anche della scienza, con riferimento all’esperienza attuale, l’esperienza della scienza come quell’intreccio di ipotesi teoriche, di formulazioni di leggi, di costruzioni di teorie ma anche di attività sperimentali, attività che sottopongono a controlli e a verifica le stesse ipotesi e le stesse leggi. Questo intreccio di ragioni e di esperienza, di intuizioni e di rigore, di pazienza e di fortuna, sono componenti che in momenti diversi e in ruoli diversi intervengono nell’esperienza della ricerca e formano una completa visione del lavoro dell’uomo ricercatore. Conoscenza consapevole dei limiti del solo approccio scientifico e quindi bisognosa di aprirsi ad altre dimensioni.
La storia della scienza dopo Galileo – l’ultima sezione della mostra è “Il dopo-Galileo” – ha visto l’esplosione grandiosa e positiva dei criteri che Galileo ha offerto alla conoscenza che quindi si è espressa in tutto il cammino che la scienza ha fatto nei secoli successivi. Ha visto anche l’esplosione di alcune contraddizioni, di alcune insidie già insite nel suo approccio, contraddizioni identificabili in quella che può essere indicata come la possibilità di uno sbilanciamento totale di orizzonte verso una scienza assolutizzante. Nel lavoro e nell’esperienza di Galileo ci sono già dei possibili dilemmi, delle possibili alternative che vengono in qualche modo tenute composte e che poi nella storia dei secoli immediatamente successivi esploderanno e diventeranno quelle contraddizioni, quei dualismi che hanno caratterizzato il cammino della scienza fino ad oggi. La scienza infatti ha conosciuto l’euforia della scientismo senza limiti, e oggi oscilla tra due poli: una presunzione di onnipotenza – il dibattito sulla genetica di questi giorni ce ne dà una documentazione – e una delusione nichilista, una rinuncia in fondo a una conoscenza vera.
In Galileo uomo del suo tempo, uomo di un’epoca tormentata, molte di queste tensioni convivono in un equilibrio che lui non sempre è riuscito a mantenere. Ci piace allora pensare al gesto dell’abiura secondo quell’idea che ha suggerito, pur nella finzione teatrale e senza nessuna pretesa di interpretazione storica, l’astrofisico Nicola Dalla Porta nel dramma Galileo Galilei. Dalla Porta vede Galileo che negli ultimi momenti, prima dell’abiura, attraverso un dialogo con un amico ha un presentimento delle conseguenze negative della sua scienza “bella e pura”, così bella e pura che potrebbe arrivare a partorire un mostro, una scienza che svincolata dalla fede inizia una corsa all’impazzata; davanti a questa previsione decide di abiurare. Ci piace vedere, pur in questa finzione, la consapevolezza della importanza di mantenere una chiarezza sui fondamenti dell’esperienza umana completa e di non lasciarsi prendere completamente dalla presunzione e dalla pretesa di quella piccola parte di sapere che personalmente si è conquistato.

Walter Brandmüller: Cosa è un cliché storico? Un cliché è uno schema di un ragionamento o di un discorso che si ripete abitualmente, un’espressione priva di originalità, abusata, fastidiosa; ne è un esempio classico ed emblematico il famoso “caso Galileo”, come viene chiamato di solito. Cerchiamo quindi di smontare questo cliché confrontandolo col la verità storica.
I giudizi su Galileo genio misconosciuto e maltrattato da una Chiesa gelosa del suo potere, sul blocco della ricerca scientifica, sul disprezzo della libertà del pensiero affiorano tuttavia soltanto allorché si disattendono i principi basilari del metodo storico critico. Qui bisogna innanzitutto sottolineare la necessità di comprendere il caso Galileo a partire dai presupposti del suo tempo e non del nostro. Ciò comporta evidentemente un impegno intellettuale che consiste in primo luogo nell’ignorare con piena consapevolezza tutto ciò che è avvenuto a partire dall’anno 1633 in termini di incremento conoscitivo. Colui che si cura di comprendere adeguatamente ciò che è accaduto deve considerare Galileo e i suoi giudici con gli occhi di un contemporaneo, il quale trovandosi egli stesso nell’accadere dell’evento non può essere affatto ancora al corrente di tutto ciò che appare ovvio a quelli che verranno dopo.
La figura del fariseo giudicante in maniera storica il quale, seduto sull’alto trono del suo presente così progredito chiama disinvoltamente in giudizio il passato è una figura che si rende ridicola, e il fariseo dimentica che lui stesso sarà a sua volta oggetto di giudizio critico da parte delle generazioni future.
È consigliabile perciò domandarsi innanzitutto quale fosse la mentalità di Galileo e dei suoi contemporanei e come siano stati valutati i provvedimenti ecclesiastici degli anni 1616 e 1633. Ciò che qui si manifesta è l’orizzonte sorprendentemente vasto che indica come la maggior parte dei dotti di quel tempo possedessero una levatura di stampo universalistico. Uno sguardo al monumentale dizionario biografico degli italiani – che sino alla lettera G comprende oltre 50 volumi – mostra al lettore la straordinaria ampiezza di conoscenze e di interessi della élite intellettuale e sociale dell’Italia nel tempo del Barocco. Tutta una serie di ecclesiastici e di religiosi si occuparono di fisica, di matematica e di astronomia. Il più importante interlocutore di Galileo, il cardinale – santo – Roberto Bellarmino non fu soltanto uno dei teologi più significativi del suo tempo, ma tenne anche dei corsi di astronomia all’università di Lovanio. E il cardinale Barberini che in seguito, divenuto papa con il nome di Urbano VIII, dovette approvare la condanna di Galileo, non era soltanto un ammiratore di Galileo, ma possedeva anche notevoli conoscenze fisiche e astronomiche. Per contro, Galileo era anche dotato di una formazione religioso-teologica molto solida: anche qualora tali conoscenze non si basassero su studi personali, esse sarebbero almeno di seconda mano dal momento che Galileo aveva non pochi preti e teologi come amici e collaboratori e interlocutori.
Queste dunque erano le premesse a partire dalle quali i contemporanei di Galileo valutarono lui e le sue tesi. Rivolgiamoci innanzitutto a Blaise Pascal, famoso scienziato matematico che scrive a proposito di Galileo,: “Tutti i fenomeni del movimento dell’arretramento dei pianeti scaturiscono perfettamente da quelle ipotesi che si possono riscontrare in Tolomeo, Copernico e Ticone, e in molti altri; di tutte queste ipotesi una sola può essere vera. Ma chi potrebbe pronunciare un giudizio così grave e chi potrebbe preferire un’ipotesi a scapito di altre, senza incorrere nel pericolo di errore?” In modo del tutto simile si esprime Cartesio, filosofo di fama mondiale.
Dopo queste premesse non meraviglia affatto che i giudizi di Pascal e quello di Cartesio sullo stato delle cose fossero quasi identici a quelli dell’inquisizione. Ciò deve essere spiegato. Già durante la prima discussione riguardante Copernico nel 1615, il cardinale Bellarmino sostenne la seguente posizione: “Con certezza si potrebbe dire che il problema riguardante la questione Tolomeo e Copernico non era affatto una questione riguardante la fede. Ciò è appropriato in verità all’oggetto scientifico, ma si ha anche a che fare con dei contenuti della Sacra scrittura. Se ci fosse per intanto una vera prova a favore del sistema eliocentrico, si dovrebbe procedere in modo molto cauto nell’interpretazione della Sacra scrittura e piuttosto dire che noi non avremmo compreso il suo modo di esprimersi, che dire che sia falso quello che si dimostra”. Bellarmino si dichiarava così niente affatto persuaso che tale prova esistesse fino a quando non gli venisse fornita. C’è una grande differenza fra il dire che il sistema copernicano corrisponde a tutte le osservazioni astronomiche e le spiega e il ritenerlo come l’unico vero. Quest’ultima possibilità sembrava a Bellarmino molto dubbia, e finché tale dubbio avesse continuato ad esistere non si sarebbe dovuta abbandonare l’interpretazione della Sacra scrittura operata dai padri sino ad allora.
Si può aggiungere una riflessione ulteriore: anche nel caso in cui Copernico riuscisse a spiegare in modo convincente tutte le sue osservazioni astronomiche, con ciò non sarebbe ancora provato che il suo sistema corrisponda alla realtà cosmica, dal momento che potrebbero darsi altri sistemi in grado di fornire le stesse prestazioni. Viene spontaneo un paragone con il modello atomico di Niels Bohr, che per la verità non ha mai ritenuto che nell’atomo le cose accadano e si presentino esattamente così come il suo modello le rappresenta. Questa comprensione teoretica-scientifica espressa o inespressa era determinante per l’argomentazione di coloro che si collocavano in modo più o meno scettico nei confronti dell’opinione di Galileo. Proprio questa argomentazione era familiare agli interlocutori di Galileo; della validità epistemologica di questo argomento, ieri come oggi, non c’è nessun motivo di dubitare. Il fatto che Galileo fosse affascinato dalla sua intuizione al punto da non potersi rendere conto di questa evidenza teoretico-scientifica, gli impedì di cogliere che il Santo Uffizio e la Congregazione dell’indice avevano ragione, allorché non condivisero il suo ottimismo conoscitivo e ammisero i limiti della possibilità della conoscenza scientifica in modo più chiaro di quanto facesse Galileo, affascinato dalla sua visione cosmica. Del resto quelle che Galileo addusse come prove per la sua tesi potevano forse provare l’insostenibilità di Tolomeo, ma in nessun modo la validità di Copernico. Soprattutto Galileo dovette provocare la critica affermando che le maree provassero effettivamente la teoria copernicana.
In breve, il mondo romano degli esperti aveva sì abbandonato Tolomeo, ma non poteva decidersi a giurare su Galileo. Di fronte a tali incertezze e alla circostanza per cui il significato scientifico di Copernico era del tutto riconosciuto, non da ultimo in vista della riforma del calendario, l’opera di Galileo venne soltanto proibita donec corrigantur (in attesa di correzione), il che significa che questo divieto sarebbe stato in vigore solo fino a quando in tutti i passi del testo in questione invece della pura e semplice affermazione della verità cosmica del sistema copernicano venisse ribadito il suo carattere ipotetico. Per esempio bastava correggere il titolo, per esempio “dimostrazione del moto della Terra attorno al Sole”, scrivendo “dimostrazione dell’ipotesi sul movimento” e così via.
In tal modo siamo giunti sicuramente al nocciolo del problema. Non c’è dubbio: né Copernico, né Galileo avevano proposto qualcosa che andasse oltre ai limiti di un’ipotesi; non si poteva parlare di una prova stringente, solo Newton formulando la legge di gravità ha aperto, cinquant’anni dopo, la strada per provare il movimento terrestre.
Dall’altra parte anche il Santo Uffizio sbagliava credendo di riconoscere una contraddizione fra Copernico e la Bibbia, mentre a sua volta lo stesso Galileo aveva saputo molto giustamente distinguere tra l’ignoranza della Sacra scrittura e la capacità di errare dei suoi interpreti. In che modo, questo è il problema al quale dobbiamo ora dare una risposta, si è arrivati a far sì che una questione di scienza naturale riguardante la costituzione astrofisica dell’universo diventasse una questione teologica, e che la Bibbia venisse interrogata in riferimento a questioni scientifiche e che di conseguenza una affermazione astronomica sia potuta diventare oggetto di un procedimento magisteriale della Chiesa? Questo è il problema. Tutto ciò è tuttavia in qualche modo comprensibile a partire dal retroterra storico-culturale del Barocco. È l’opposizione alla nostra concezione di un mondo suddiviso in settori autonomi dotati di leggi proprie nel quale la religione lotta per il suo diritto all’esistenza come un ambito vitale accanto a molti altri. L’uomo dell’epoca di Galileo invece contemplava con uno sguardo affascinato e grandioso cielo e terra, tempo ed eternità, il divino e l’umano, chiesa e mondo, scienza e tecnica e fede come armoniche parti costitutive di un unico grandioso ed onnicomprensivo cosmo dell’essere uscito da Dio e tendente a Dio.
Quando perciò i documenti del Santo Uffizio si rivolgono severamente contro la dottrina secondo la quale il Sole e non la Terra è il centro attorno al quale tutto ruota, ciò deriva molto semplicemente dal fatto che quegli uomini in base a tutto il loro modo di pensare e in base al loro sentimento vitale non erano affatto in grado di pensare non teologicamente e religiosamente. Di conseguenza non li sfiorava neppure il pensiero di distinguere tra storia della salvezza e astronomia. Nel comune modo di vedere teologico esistenziale dei contemporanei di Galileo, la Terra era in primo luogo non un corpo celeste da investigare in base alle sue condizioni fisiche-astronomiche, ma un singolare palcoscenico della divina rivelazione e redenzione.
È difficile sottrarsi in questo contesto al tentativo di rievocare l’esperienza degli astronauti del nostro tempo. Con ogni probabilità essi sono in grado di rallegrarsi del loro successo solo allorché hanno cambiato la sensazione di trovarsi perduti nel cosmo con la sicurezza ritrovata sulla Terra. Per essi, dal punto di vista essenziale, la Terra è certamente molto più centro del cosmo di quanto lo fosse per ogni discepolo di Tolomeo. La visione olistica del Barocco era dunque tale da non mettere in grado gli uomini del tempo di Galileo di separare gli ambiti di natura e di rivelazione, di scienza naturale e di teologia, anche se questa separazione sarebbe stata apportatrice di chiarificazione.
Nel momento storico nel quale Galileo compariva davanti all’inquisizione, la disinvoltura del rinascimento nei confronti della lettera della Bibbia che sino a quel momento aveva caratterizzato le affermazioni di teologi normativi era andata perduta, al punto che pure la apparente contraddizione di Galileo nei confronti della Bibbia provocò uno shock nei confronti delle autorità ecclesiastiche. Motivo di tutto ciò fu il fatto che in Roma l’affare Galileo venne visto in connessione con la situazione religioso-politica dell’Europa, dove il protestantesimo non solo era arrivato al potere da cento anni, ma si diffondeva sempre più con l’aiuto di una politica compiacente. Sarebbe bastato soltanto uno sguardo alla carta geografica religiosa confessionale di quel tempo per gettare nella più grande preoccupazione il Papa e la curia circa la sopravvivenza della vita cattolica in Europa. La prospettiva di cadere in difficoltà all’interno della Chiesa a causa di dispute teologiche che avrebbero aggravato ulteriormente la già pericolosa situazione religioso-politica può aver talmente allarmato Urbano VIII che gli fu impossibile affrontare il caso Galileo con quella calma e superiorità che a noi potrebbero sembrare oggi convenienti.
Bisogna rendersi conto che, almeno agli occhi degli interessati, la posta in gioco era la genuina autorità della Bibbia, che era diventata il punto nevralgico della controversia teologica con la riforma. L’attenersi fermamente alla sua interpretazione verbale e persino letterale fu suggerito alla Chiesa già dal suo istinto teologico-religioso di sopravvivenza. Proprio il protestantesimo aveva costantemente e con forza accentuato l’autorità della Bibbia come unica fonte della fede contro l’insegnamento cattolico delle due fonti di rivelazione, Bibbia e tradizione apostolica. Dal momento che da questa parte veniva di continuo mosso il rimprovero della Chiesa cattolica di essersi allontanata dalla parola di Dio, non si poteva fare a meno, da parte cattolica, di tentare di smorzare questo rimprovero, professando la più alta fedeltà al tenore verbale della Bibbia.
Dunque non si trattava del problema se il Sole o la Terra fossero fermi o si muovessero: in realtà la posta in gioco era la comprensione e l’autorità della Bibbia e la controversia con il protestantesimo. In tal modo abbiamo scoperto la vera e la propria causa per cui un’istanza ecclesiastica giunse ad esprimersi su di un problema di natura puramente scientifica. In non poche pubblicazioni sul caso Galileo, il giudizio pronunciato sulla questione che lo concerneva viene caratterizzato come uno dei molti errori del magistero ecclesiastico con cui la Chiesa avrebbe smentito una volta per sempre la sua pretesa ad autorità infallibile in questioni di fede. Ma le cose non stanno in questi termini. Innanzitutto occorre tener presente che le cosiddette decisioni magisteriali infallibili possono essere emanate solo da un concilio ecumenico e in ogni caso soggiacciono in quanto tali a dei criteri ben precisi. Una decisione del genere non si verificò mai nel caso Galileo. E precisamente già perché sia nel 1616 e nel 1633 erano in azione solo delle istanze che non erano qualificate per l’esercizio del magistero infallibile, e cioè la Congregazione dell’indice e l’inquisizione. Al riguardo, non cambia per nulla la situazione il fatto che il Papa si occupasse personalmente del caso. Per chi conosce le cose della teologia, ciò era chiaro allora come oggi in particolare. Ciò lo sapeva anche Galileo. Per questo, senza cadere in problemi di coscienza, egli poteva emettere l’abiura come un atto di lealtà ecclesiale senza per questo dover rinunciare alle sue convinzioni scientifiche. La qual cosa era per lui sicuramente dolorosa dal momento che doveva rinunciare a sostenerle pubblicamente.
Che cosa dicono i decreti ecclesiastici? Il primo giudizio ufficiale fu quello dei consultori o qualificatori del Santo Uffizio del 23 febbraio 1616, che riguardava espressamente solo Copernico, ma aveva in mira anche Galileo il cui nome però non veniva menzionato. Bisogna anche tener fermo che in questo caso si trattava solo di un parere di consultori e non di un giudizio della Congregazione. In queste celebri proposizioni che oggi sembrano a molti grottesche e ridicole, si trattava di quanto segue: la dottrina dell’immobilità del Sole come quella della mobilità della Terra erano qualificate rispettivamente la prima come filosoficamente assurda e formalmente eretica, la seconda invece come filosoficamente assurda ed erronea rispetto alla fede.
La designazione della dottrina copernicana come filosoficamente assurda non va intesa come se si dichiarasse falsa in base al significato dell’uso attuale del termine filosofia. “Filosofia” qui è sicuramente da intendere nel senso di scienze naturali. Galileo era infatti filosofo e matematico del granduca di Toscana. La fisica era filosofia. È assurdo dal punto di vista scientifico, non matematico. Tenendo conto del supposto movimento della Terra attorno al suo asse e soprattutto attorno al Sole, come poteva essere possibile su di essa l’esistenza della vita umana? L’esperienza quotidiana non poteva essere spiegata diversamente che ricorrendo all’immobilità della Terra e al movimento del Sole. Solo Isaac Newton scoprì la gravità che era in grado di spiegare lo stato delle cose. Lo stesso, e ancor meno, Copernico non aveva mai intrapreso il benché minimo tentativo di spiegazione. Sebbene tutto ciò corrispondesse alla concezione della maggior parte degli interessati al caso, il Santo Uffizio non emanò nessun decreto ufficiale al riguardo. Ciò era riservato alla Congregazione dell’indice. Il decreto del 5 marzo designa la dottrina della mobilità della Terra come quella falsa dottrina pitagorica del tutto contrapposta alla Sacra scrittura. Tutto ciò è molto significativo. Mentre i periti del Santo Uffizio avrebbero parlato in questo caso di eresia, i cardinali non li seguirono affatto. Essi si limitarono a constatare la contraddizione esistente tra la dottrina discussa e la Sacra scrittura. Ciò fa capire che all’interno delle autorità ecclesiastiche dovevano aver corso delle posizioni notevolmente contrapposte nel giudizio su Copernico. Nella formulazione il decreto chiaramente si appoggia sulla concezione sostenuta dal cardinale Bellarmino, e sottolinea dunque anche contenutisticamente il carattere revocabile della decisione. Circa le sentenze dell’anno 1633 vale del resto la stessa cosa. Anche qui il sistema eliocentrico viene designato come contrapposto alle Sacre Scritture ma non tuttavia come eretico.
Stando allo stato delle cose era stata consapevolmente lasciata aperta la strada per la prova del contrario tramite ulteriori ricerche. Le istanze ecclesiastiche pertanto non hanno recitato in maniera ottusamente reazionaria una dottrina scientifica comunemente riconosciuta, hanno unicamente sottolineato che vanno chiamate ipotesi quelle che non sono altro che ipotesi. Una analoga prudente decisione riguardante per esempio l’energia nucleare o l’ingegneria genetica verrebbe oggi compresa, diversamente da quella dell’inquisizione nel caso Galileo.
Le conseguenze del giudizio quali erano? Se interroghiamo la concezione corrente da questo punto di vista ne risulta un quasi unanime giudizio che afferma in sintesi: la sentenza ecclesiastica contro Galileo ha paralizzato per il futuro la ricerca scientifica nell’Europa cattolica e inoltre ha sollevato quel malefico conflitto tra la scienza e la Chiesa nel superamento del quale solo il nostro tempo riconosce un compito urgente. Esempi emblematici significativi a riguardo sono Eugenio Carran e Cesare Rasoli, storici di razza e di grande fama. Essi giungono al giudizio secondo il quale la condanna del dialogo di Galileo sarebbe “un rifiuto totale che ha determinato l’estraneazione completa della religione cattolica post tridentina dal progresso delle scienze e della filosofia, con conseguenze profonde e negative, particolarmente in Italia”. Così si esprime Carran. Rasoli a sua volta ritiene che il processo di Galileo abbia avviato “un lungo irreparabile divorzio tra la cultura ufficiale cattolica e il nuovo costume intellettuale”.
L’autorità scientifica di questi due illustri colleghi non ci dispensa tuttavia dal confrontare il loro giudizio con i fatti, coi brutti fatti. Il risultato di questa verifica dice che non si può parlare di una paralisi della ricerca scientifica nei paesi cattolici in conseguenza del processo di Galileo. La miglior prova è costituita dal fatto che Galileo stesso – e ciò avvenne sotto la sorveglianza dell’inquisizione comunque la si intenda – potè scoprire nel 1637 le oscillazioni della Luna grazie alle ulteriori osservazioni astronomiche. Negli ambienti interessati d’altronde si sapeva valutare correttamente la portata dei decreti romani, ci si serviva del sistema di Copernico come di una, così sarebbe dovuta risultare, fruttuosa ipotesi di lavoro. Potremmo facilmente addurre numerosi nomi e fatti dimostrativi di questa tesi. Tutto ciò era già noto a partire dalla pubblicazione nel 1882 dello studio di Galileo di Giuseppe Grisar, professore alla Gregoriana, e dagli studi del 1909 di Adolf Müller, direttore della Specola vaticana sul processo di Galileo. Ciò che questi autori apportano al nostro problema è comprovato senza ombra di dubbio e resiste ad ogni verifica, che però i risultati di queste ricerche siano rimasti sinora ampiamente ignorati ha come fondamento, non già la scientificità critica, bensì il pregiudizio antiecclesiastico. Chi pertanto parla di una stagnazione della ricerca in questo ambito negli ambienti cattolici, viene a trovarsi in contraddizione coi fatti storici.
La spaccatura tra la scienza e la fede si allargò nell’epoca seguente, nella misura in cui il razionalismo e finalmente il materialismo raggiunsero una egemonia pressoché illimitata nell’ambito delle scienze naturali. In questo contesto Galileo diventò la figura di Gallione di una scienza consapevolmente atea.
Il cambiamento della posizione della Chiesa nei confronti del nostro problema è già emerso dalle precedenti osservazioni sulla prosecuzione delle ricerche nell’ambito delle scienze naturali nell’Europa cattolica dopo Galileo. Erano appena trascorsi quarant’anni dal suo processo allorché Copernico non figurava più nell’Indice dell’anno 1670. Nel 1693 l’allievo di Galileo Viviani poteva discutere in una corrispondenza con il gesuita Baldigiani sulle possibilità per una licenza di stampa del dialogo condannato allora di Galileo.
Già nel 1656 venne pubblicata a Bologna con licenza ecclesiastica una edizione in due volumi delle opere di Galileo, per la verità vi mancava il censurato dialogo, non però la stampa di una lettera piena di ammirazione che Urbano VIII aveva indirizzato a Galileo. Il dialogo stesso apparve a Napoli nel 1710 in una edizione clandestina, con tutta la probabilità d’intesa con l’inquisizione. Nel 1741-42 viene concessa la licenza ecclesiastica per la edizione nuova padovana completa delle opere di Galileo. Il caso Galileo entrò in un nuovo e determinante stadio allorché il professore di astronomia all’università romana della Sapienza Giuseppe Settele pubblicò nel 1819-20 il suo manuale di ottica e di astronomia. Settele nella sua opera presuppose in tutta naturalezza l’immagine copernicana del mondo, la censura non vi trovò nulla di contestabile al riguardo, l’opera era già in corso di stampa, allorché l’autorità alla quale spettava la competenza decisiva per la stampa dei libri da pubblicare a Roma, cioè il maestro del sacro palazzo domenicano, Filippo Anfossi, ne proibì la stampa. Egli insisteva nel sottolineare il carattere ipotetico del sistema copernicano; in seguito a ciò si sviluppò una violenta discussione all’interno della curia in cui Anfossi si poneva contro l’intero Santo Uffizio e contro il Papa, il quale era parimenti dell’idea di concedere la licenza di stampa.
Sull’esito definitivo della controversia non potevano sussistere dubbi: con la concezione della licenza di stampa per Settele nel 1820 venivano parimenti riabilitati Copernico e Galileo e il caso Galileo era chiuso.
Questa soluzione fu il frutto di un notevole sforzo, di una notevole prestazione intellettuale del domenicano Maurizio Benedetto Olivieri, che in quegli anni era commissario del Santo Uffizio: il sistema copernicano, nella forma in cui veniva insegnato allora, non sollevava nessuna obiezione di natura teologica. L’Olivieri evitò da un lato di sconfessare le censure del seicento mettendo dall’altro lato completamente tra parentesi la problematica astrofisica.
La decisione ecclesiastica del 1820 si mosse unicamente sul terreno della dottrina della fede, lasciando libero corso alla scienza della natura.
Con questa ultima decisione è stato, dunque, corretto un errore del magistero ecclesiastico?
Niente affatto, per due ragioni. Innanzitutto bisogna tenere per fermo, con grande vigore, che, nei casi Copernico e Galileo, non entra ufficialmente in azione nessun organo della Chiesa che fosse abilitato ad esercitare il magistero infallibile; in secondo luogo, non si trattò neppure di una verità di fede che unicamente può essere oggetto dei pronunciamenti magisteriali. Nel modo di procedere della curia romana nei confronti di Galileo si espresse, piuttosto, una comprensibile insicurezza di fronte ai nuovi problemi che insorgevano; l’unico atteggiamenti idoneo delle istanze ecclesiastiche può essere solo quello ispirato a prudenza, cautela e riservatezza nei confronti delle nuove possibilità le cui conseguenze non sono ancora per nulla prevedibili.
Ma, ci si potrebbe domandare, il comportamento delle istanze curiali non va a sfociare nella repressione della libertà dello spirito e della ricerca? Non si trattò di una pura e semplice volontà di mantenere il potere?
Per rispondere adeguatamente a simili domande occorre, naturalmente, che si sappia cosa siano la Chiesa e la divina rivelazione. Ai giudici di Galileo e anche a noi è ben noto che la verità rivelata da Dio nel Vangelo era il sommo bene dell’umanità e che era stata affidata alla Chiesa per una trasmissione integra; nel dubbio se la nuova astronomia fosse o meno in contrasto con la parola di Dio, l’incolumità della fede ebbe un peso maggiore che una nuova teoria astronomica non ancora provata.
Questa decisione, ben compresa da Pascal e Cartesio, non dovremmo considerarla dal punto di vista della società secolarizzata e pluralistica e neppure secondo la prospettiva di un professore bloccato, fissato sull’oggetto della sua ricerca, bensì a partire dallo sfondo storico-culturale dell’epoca barocca precedentemente delineato. Anche i giudici di Galileo hanno diritto ad essere giudicati secondo giustizia.

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