Mario Gargantini : Buonasera e benvenuti a questo incontro. Provate a pensare a quante volte nella nostra esperienza quotidiana ricorriamo al verbo vedere e non solo riferendoci agli aspetti ottici e sensoriali del termine: pensiamo a espressioni come “voglio vederci chiaro”, “vedi di arrivare in tempo”, e così via. Le molte valenze del termine vedere corrispondono al fatto che, in effetti, l’esperienza della visione ha un’ampiezza enorme, ben al di là delle sensazioni immediate. Bisogna però ammettere che l’uomo contemporaneo, cioè noi, ha smarrito questo senso ampio del vedere, fa fatica ad allargare e ad affinare lo sguardo. Si può dire che l’uomo della civiltà dell’immagine, bombardato continuamente di immagini, paradossalmente guarda molto ma vede poco. Vede poco la realtà. Viviamo quindi una riduzione dell’esperienza del vedere almeno a due livelli. La riduciamo quando esasperiamo solo alcune sue componenti (la componente fisica, quella neurologica, quella psicologica); la riduciamo quando le togliamo il suo vero obiettivo, lo scopo, cioè la tensione alla verità, a riconoscere la verità. Questo vale un po’ per tutte le percezioni, ma in modo particolare per la visione.
È interessante notare, come ha fatto il grande teologo Von Balthasar, che in tedesco la parola percezione, warnemung, significa proprio capacità di cogliere il vero. Tutt’altro quindi che qualcosa di epidermico o di meccanico o di soltanto emotivo. La mostra che presentiamo è un tentativo di superare queste riduzioni.
La mostra è curata dall’associazione Euresis, associazione per la promozione e sviluppo della cultura e del lavoro scientifico, che ormai da una decina d’anni propone al Meeting, e poi in giro per l’Italia e oltre, mostre che intendono raccontare l’avventura scientifica in tutto il suo spessore e in tutta la sua bellezza di esperienza umana e umanizzante. La mostra si prefigge, a partire dai dati della realtà e dalle più avanzate indagini scientifiche e multidisciplinari, di riconsegnarci l’ampiezza di un’esperienza che tutti facciamo continuamente e gli interventi di questa sera ci introducono in questa prospettiva. Al termine dei due interventi vi proporrò una breve visita guidata virtuale con qualche slide della mostra. La parola ora ai nostri ospiti che sono: il professor Tommaso Bellini, Docente di Fisica Applicata all’Università degli Studi di Milano, e il professor Carlo Soave, Docente di Fisiologia Vegetale all’Università degli Studi di Milano. Professor Bellini.
I sensi sono infatti il nostro punto di contatto con la realtà che ci circonda. I sensi sono la via obbligata per conoscere la consistenza fisica di quello che ci circonda, per capirne le relazioni, per investigarne il significato.
Con i nostri sensi compiamo delle continue analisi fisiche e chimiche dalla realtà. Pensate ad esempio come ci è facile percepire una sottile corrente d’aria in una giornata afosa, o in un ambiente chiuso. Basta un leggerissimo soffio e ci giriamo per capire da dove viene. Sono i termometri che abbiamo sottopelle, e i rivelatori di pressione attaccati al bulbo dei nostri peli. Provate ad alitarvi sul dorso della mano, e vedrete che non c’è soffio, per quanto debole, che la vostra pelle non registri. Con i sensi noi percepiamo e interpretiamo. La variazione di temperatura, la leggera pressione, ed ecco che subito concludiamo che ci debba essere dell’aria in movimento. Con i sensi percepiamo e investighiamo. Percepiamo e diamo un nome.
Con i sensi analizziamo ciò che si trova a contatto con noi: con il tatto misuriamo temperatura e pressione, con l’olfatto e il gusto facciamo analisi chimiche di aria e cibi, con l’udito misuriamo le vibrazioni dell’aria a contatto con i nostri timpani, che sono i suoni. Analizziamo ciò che è a contatto con noi per investigare l’ambiente in cui siamo anche lontano da noi. I suoni sono percepiti perché arrivano a noi, ma sono poi interpretati nell’intento di identificare la loro direzione di arrivo. La medesima cosa è vera per gli odori e per gli spostamenti d’aria. E un po’ così è anche la vista.
Con gli occhi noi catturiamo una piccola parte della luce che si propaga nell’ambiente in cui ci troviamo. Con gli occhi esaminiamo la luce che entra nella nostra pupilla e che è diretta verso il fondo del nostro occhio. Questa luce viene talvolta direttamente dalla sorgente che la produce, come quando guardiamo il fuoco, o le braci, o quando guardiamo il sole al tramonto, o quando guardiamo una lampada, ma normalmente la luce che vediamo è luce riflessa o luce diffusa. Così io vedo le persone della prima fila perché la luce delle lampade vengono riflesse o diffuse dalla loro pelle, dai loro capelli, dai loro vestiti.
Ma cos’è la luce? È un’onda elettromagnetica. Cioè un’onda che si propaga – come le onde del mare – in cui quello che oscilla non è un innalzamento della superficie del mare, ma una grandezza che si chiama campo elettrico. Il campo elettrico è una grandezza con la quale non abbiamo famigliarità, non essendo essa di per sé oggetto della nostra percezione sensoriale. Un campo elettrico che oscilla mette in oscillazione le cariche elettriche, e di cariche elettriche è fatta tutta la materia. Così materia e onda elettromagnetica, o più propriamente radiazione elettromagnetica, sono sempre intimamente legate. La radiazione elettromagnetica è inevitabilmente implicata in ogni trasformazione che coinvolge la materia, ed è quindi una componente fondamentale di ciò che esiste. La luce è una piccolissima frazione della radiazione elettromagnetica che pervade lo spazio. Le onde elettromagnetiche infatti possono avere lunghezza d’onda, ovvero distanza tra un massimo di campo elettrico e quello successivo, molto diverse tra loro, e la luce corrisponde solo a poche tra queste lunghezze possibili. Si va infatti da lunghezze d’onda grandi, come nelle onde lunghe delle onde radio, che sono lunghe fino a chilometri, a onde più corte come le onde radio per la modulazione di frequenza, lunghe metri, o le onde dei telefonini e della televisione, lunghe millimetri, e così via fino a lunghezze molto brevi, come quelle dei raggi X, la cui lunghezza d’onda è di frazioni di milionesimi di millimetro. Tra tutte queste possibili lunghezze d’onda c’è anche la luce, che corrisponde a lunghezze che vanno da 1/3 di millesimo di millimetro a 2/3 di millesimo di millimetro, le più corte essendo quelle che percepiamo come blu e le più lunghe quelle che percepiamo come rosse. A lunghezze d’onda più brevi rispetto alla luce troviamo i raggi ultravioletti, a lunghezze d’onde più grandi troviamo i raggi infrarossi. Ma noi non vediamo né gli ultravioletti, né gli infrarossi. Noi vediamo solo la radiazione che chiamiamo luce, che ha onde di lunghezza compresa tra 1/3 di millesimo di millimetro a 2/3 di millesimo di millimetro. Però, anche se non la vediamo, tutta questa radiazione elettromagnetica esiste qui, ora, in questa stanza. Potremmo immaginare di dotare alcune file di radio, sintonizzate tutte su stazioni diverse, a diversa frequenza, a partire dalle più lunghe (con qualche radio di vecchio modello), fino alle FM, e poi televisioni (su canali diversi), telefonini, radio di servizio (polizia, guardia costiera), e poi visori infrarossi, e poi anche contatori Geiger per i raggi X e gamma. E poi al via si potrebbe tutti accendere gli apparecchi, e tutti funzionerebbero, cioè riceverebbero un segnale alle varie lunghezze d’onda, perché infatti tutte queste radiazioni a tutte queste diverse lunghezze d’onda sono qui presenti. Solo che noi vediamo solo la luce e non le altre radiazione elettromagnetiche.
Perché siamo sensibili proprio alle lunghezze d’onda della luce? Per una fortunata combinazione di fattori. Innanzitutto gran parte della radiazione solare è luce, quindi c’è una gran disponibilità di radiazione visibile. Ci sono anche altre ragioni fondamentali legate ai materiali di cui siamo fatti. Noi infatti siamo fatti di acqua e molecole basate sul carbonio. E con questi materiali è possibile vedere solo la luce. Mentre risulterebbe molto difficile, con gli stessi materiali, fare un occhio per gli ultravioletti, oppure per gli infrarossi. Infatti, per fare un occhio (e in natura ci sono tanti tipi di occhio), è sempre necessario combinare da una parte materiali densi e trasparenti, per fare la lente (nel nostro caso il cristallino e la cornea) e dall’altra materiali che invece assorbono la luce, ed assorbendola si modificano, in modo da poter comunicare un segnale. Ma le molecole di cui siamo fatti non sono per niente trasparenti agli ultravioletti, e neanche agli infrarossi. Anzi, come è noto le nostre molecole, assorbendo gli ultravioletti, ne sono danneggiate. Per queste e anche per altre ragioni, pare impossibile realizzare, con le molecole di cui siamo fatti, un occhio che veda radiazioni con lunghezze d’onda diverse da quelle della luce.
Quindi noi catturiamo questo piccolo frammento di luce, e lo analizziamo per capire da dove questa luce sia venuta e così ricostruire oggetti vicini e lontani, piccoli o giganteschi. Qui vorrei però fare un salto, e non parlare dell’occhio e delle immagini che forma, né della retina, cioè quella pellicina sensibile alla luce che sta sul fondo del nostro occhio e che trasforma, con un complicato ma meraviglioso meccanismo la luce in un segnale elettrico (ma nella nostra mostra queste cose sono ben descritte). Vorrei invece concentrarmi brevemente su quello che c’è dopo la retina. Perché la luce è quello che rileviamo, l’occhio è lo strumento con cui lo facciamo, ma dopo cosa c’è? È una cosa abbastanza impressionante. Dopo l’occhio c’è il nervo ottico. E il nervo ottico è formato da circa un milione di fibre, che sono le fibre di un milione di neuroni della retina che propagano le loro informazioni al cervello. Ma cosa vuol dire “propagare le immagini al cervello”? In realtà quello che viene trasmesso dal nervo ottico non è più un’immagine. È un flusso di impulsi elettrici. Ogni neurone può trasmettere fino a 1000 impulsi elettrici al minuto. In media, sul nervo ottico passano qualcosa come 100 milioni di impulsi al secondo. Non c’è più la radiazione elettromagnetica, non c’è più l’immagine, c’è un segnale in codice, una specie di segnale digitale, elettronico. E dentro questo fascio di un milione di fibre, alcune mandano impulsi quando c’e’ luce in una data posizione della retina, altre quando c’è in un certo punto un certo colore, altre quando ci sono dei contrasti (un passaggio scuro-chiaro oppure un passaggio di colore), altre ancora quando ci sono dei movimenti. Insomma, è proprio un codice. La retina prende l’immagine e la trasforma in un codice. E il nostro cervello interpreta questo codice. Questo fatto è molto importante. Due commenti:
1) Può certamente fare un po’ impressione, che l’immagine raccolta dai nostri occhi si perda, sostituita da un flusso di impulsi elettrici, perché questo fatto pare allontanarci dalla realtà: quello che noi vediamo è una interpretazione di segnali elettrici generati da una pellicina sensibile alla luce (la retina). Questa codifica vuol dire che ci perdiamo qualcosa della realtà? Beh, certamente sì, tant’è che è abbastanza semplice imbrogliare i nostri sensi, come si vede dalle illusioni ottiche, sulle quali c’è una sezione della mostra. Ma la ragione per cui questo accade è che non siamo fatti per fotocopiare la realtà, ma per capirla. Per entrare in contatto con la realtà, non serve fotocopiarla acriticamente, farle delle fotografie ad altissima risoluzione, ma capirla. La nostra retina estrae informazioni preziose dall’immagine, ad esempio evidenziando i contrasti, evidenziano di colori, evidenziando ciò che si muove rispetto a ciò che è fermo, e questo lo fa non per mettere qualcosa di arbitrario tra noi e la realtà, ma al contrario per permetterci di comprendere ciò che vediamo, per esempio distinguendo chiaramente un oggetto da un altro. Questa è la ragione per cui possiamo capire i fumetti. Avete in mente i Peanuts di Schultz, per esempio? Fumetti fatti di pochissimi tratti di penna, eppure capiamo perfettamente le scene senza alcuna fatica. Proprio perché questo è quello che facciamo sempre. Analizziamo e interpretiamo il dato visivo. Comprendere e interpretare vanno necessariamente insieme. Voglio dire che il vedere è intrinsecamente, a partire da come siamo fatti, una investigazione della realtà per capirne il senso. Non c’è prima un fotocopiare e poi un interpretare, ma il nostro vedere è intrinsecamente un interpretare. Ciò parte dalla struttura biologica della nostro senso della vista e si irradia ad ogni livello del nostro essere: il vedere è l’incontro di un oggetto con un soggetto.
2) In questa interpretazione della realtà a partire dal dato visivo c’è anche un mistero più grande. In corrispondenza alle varie lunghezze d’onda della luce noi vediamo colori diversi. Ma i colori che cosa sono? Una cosa sono le lunghezze d’onda, ovvero la distanza tra un massimo e un altro nell’oscillazione del campo elettrico, e un’altra sono i colori. Il colore non è una lunghezza d’onda, è qualcosa di diverso: è la nostra interpretazione della lunghezza d’onda, è la nostra ricostruzione della lunghezza d’onda. Ma che cos’è? Immaginiamo di costruire una macchina che sia capace di riconoscere i colori, di distinguerli e di dirne il nome. Che sappia riconoscere un arancione da un color pesca, da un ocra, da un color rosa salmone. Come facciamo noi. Non è neanche tanto difficile costruire una macchina fatta così. Ma questa macchina vede i colori? No, fa solo un’analisi della composizione in lunghezze d’onda della luce che cade sul suo rivelatore. Ma anche noi, con i nostri occhi, facciamo in un certo senso una analisi delle lunghezze d’onda della luce. Solo che ci vediamo. Come dice il premio nobel Francis Crick, famoso per la scoperta insieme a Watson della struttura del DNA, nessuno ha ancora fornito una spiegazione plausibile di come la percezione del rosso possa nascere dall’azione del cervello. Il meccanismo della visione dei colori è fatto da un gran numero di funzioni complesse, svolte dal nostro cervello. E in effetti se guardiamo a come è fatto il cervello, troviamo una specie di macchina, fatta di scariche elettriche, di connessioni tra i neuroni, di ioni che attraversano delle membrane, di molecole che si attaccano e si staccano tra loro. Insomma una sofisticatissima macchina, ma una macchina. Non importa quanto complicata essa sia, essa è fatta di molecole e di campi elettrici, cioè fatta di cose inanimate. Di funzioni. Ma da quando in qua le funzioni di una macchina producono un’esperienza, un mondo percettivo, una soggettività? È pieno di macchine che svolgono funzioni, ad ogni livello di complessità: questo microfono svolge una funzione. Ma non ha alcuna percezione del suono che trasmettono. Il nostro cervello è complessissimo, più di quanto riusciamo per il momento a capire. Ma se lo guardiamo troviamo un insieme di funzioni. E queste funzioni, potrebbero benissimo sussistere senza esperienza soggettiva, senza interiorità, senza quello che tutti noi conosciamo come vita. Abbiamo intervistato, per realizzare il filmato associato alla mostra che stiamo presentando, il professor David Chalmers, un filosofo australiano che da tempo si occupa delle questioni relative alla coscienza. E lui dice chiaramente proprio questo fatto. Lui dice: perché ad un insieme di funzioni e meccanismi, ovvero i circuiti del nostro cervello, perché ad essi debba corrispondere una esperienza del vedere, ma anche del sentire, degli odori, di tutte le percezioni, questo è il mistero centrale della coscienza.
Spero con questo breve racconto di aver comunicato almeno in piccola parte l’estensione dei temi affascinanti in cui noi di Euresis ci siamo imbattuti studiando questa cosa così normale ma anche così speciale che è il nostro senso della vista.
Carlo Soave: Come biologo vi parlerò un po’ di evoluzione biologica della vista. Questo è sempre stato un problema piuttosto dibattuto nell’ambito dell’evoluzione biologica, a partire già da questa frase di Darwin del 1859 tratta dal suo libro L’origine delle specie per mezzo della selezione naturale: “Supporre che l’occhio, con tutti i suoi inimitabili congegni, per l’aggiustamento del fuoco a differenti distanze, per il passaggio di diverse quantità di luce e per la correzione dell’aberrazione sferica e cromatica, possa essersi formato per selezione naturale sembra, lo ammetto francamente, del tutto assurdo” (C. Darwin, 1859. On the origin of species by means of natural selection. London, J. Murray Ed.). Qual era il problema di Darwin? Il problema di Darwin, che lo portava a dire questa frase, era che nella sua teoria i passaggi evolutivi dovevano essere molto piccoli e il cambiamento doveva essere quasi impercettibile lungo la scala evolutiva, mentre invece, da quello che si poteva osservare contemplando l’evoluzione biologica di vari organismi, si vedevano già organi molto sviluppati, molto complessi come l’occhio.
Preparando questa mostra non mi ha colpito tanto il problema di Darwin, problema che fa parte delle teorie evoluzionistiche (non è lo scopo di questa mostra discutere le teorie evoluzionistiche), ma piuttosto questa frase: cosa ci fa capire l’evoluzione della visione, se noi la confrontiamo in tutti gli organismi viventi che conosciamo? Cioè che messaggio porta l’evoluzione biologica della vista, che cosa ci fa capire? Questa mi sembra una domanda interessante, forse più dei vari meccanismi delle teorie e su questo ho cominciato a riflettere andando a guardare come è la funzione della vista in vari organismi biologici. Adesso ve ne farò vedere alcuni. Qui ci sono tanti occhi: alcuni li riconoscerete subito.
Questo è l’occhio di una medusa, o meglio, quelle macchie rosse sui tentacoli sono delle cellule che contengono un pigmento fotosensibile e sono gli occhi della medusa. Questa in basso a destra è una stella marina: anche la stella marina ha degli occhi, li ha sulla punta delle braccia. E quell’altra figura che vedevate prima, verde con la puntina rossa, è una cellula vegetale, è un’alga monocellulare che fotosintetizza e anche lei ha un occhio, ha questo piccolo materiale accumulato che è un materiale fotosensibile che funziona da occhio.
Quindi cosa ci dice questa cosa? Che la capacità di percepire la luce è molto antica. È presente nelle meduse, e, ancora prima, nelle alghe monocellulari. Questi sono tra i primi organismi che si sono evoluti e sono dei vegetali. Allora la domanda è: ma anche le piante ci vedono? Questa è una domanda a cui si può rispondere. Credo che tutti voi avrete fatto questa semplicissima osservazione: se si mette una pianta davanti a una finestra cosa succede? Piega verso la luce. E qui non c’entra la fotosintesi: è proprio perché vede la luce, basta la luce delle stelle, ne basta pochissima di luce. La pianta vede questa luce perché? Perché contiene in tutte le sue cellule delle foglie una molecola che, colpita dalla luce, cambia forma. È questo il punto di partenza del segnale, è come la pellicola che vede la luce che arriva e subisce una trasformazione. Questa molecola assorbe la luce nel rosso o nel rosso scuro. È come un occhio che della luce solare vede solo il rosso e il rosso scuro. Non è molto diverso – a questo livello di analisi del meccanismo della visione – da quello che abbiamo noi nella nostra retina. Abbiamo anche noi una molecola nell’occhio, diversa però da quella delle piante la quale, quando viene colpita dalla luce cambia forma e questo è il segnale di partenza. Noi, fra l’altro, di queste molecole ne abbiamo tre varianti un po’ diverse che assorbono la luce nel blu, nel giallo e un po’ nell’arancione. Poi abbiamo anche i bastoncelli che vedono il bianco e il nero. A questo livello piante e animali si assomigliano abbastanza nel meccanismo base perché poi, in fondo, questo è determinato dalla fisica. Quindi, per esempio, noi possiamo vedere questi tre colori e nelle mostra vedrete come, combinando questi tre colori, possiamo vedere tutta la gamma. Però un cane per esempio non ha tre varianti, ne ha solo due: lui vede solo nel blu e nel giallo. Guardate che cosa succede.
L’immagine a sinistra è quello che vede un cane: vede nel blu e nel giallo. Quindi, una figura come questa (un signore con una camicia rossa) il cane la vede così. La macchina che è un po’ rosina: il cane la vede gialla. I cani sono dicromatici, mentre noi siamo tricromatici. Però il meccanismo è molto simile. Torniamo un momento alla pianta, perché questo già ci dà la prima indicazione importante. La domanda che uno si può fare è: che cosa se ne fa la pianta della vista? A cosa le serve? E questa è una domanda che ci porta sulla questione dell’evoluzione: perché si è evoluta questa funzione? Provate a immaginare una piantina piccolina che nasce nel sottobosco e sopra ha tutte piante grandi con grandi foglie. Una piantina là sotto che luce vede? Se ci mettessimo noi, sotto, sdraiati nel bosco con tutte le fronde sopra cosa vedremmo? Vedremmo del verde, perché la luce del sole arriva dall’alto, il blu e il rosso sono assorbiti dalla clorofilla mentre il verde passa sotto. Noi siamo sensibili al verde e vediamo il verde. Ma la pianta non è sensibile al verde: lei ha solo un sensore che vede nel rosso e nel rosso scuro. Il rosso scuro è presente nello spettro del sole e passa sotto anche lui e così la pianta vede il rosso scuro. E cosa se ne fa? Prendiamo per esempio delle piante di pomodori che sono state allevate fornendo luce sempre più rosso scura. Come reagiscono: reagiscono crescendo sempre più alte. Perché? Perché così sfuggono dall’ombra. Il problema di queste piante è quello di crescere alte in modo da sfuggire all’ombra, trovare la luce del sole e poter fare la fotosintesi. A questo serve l’occhio delle piante. Questo è già un primo punto importante: questo modo di vedere la luce serve alla pianta, come anche alle alghe e alla medusa, per capire qualcosa di quello che c’è intorno (per la pianta che è nel sottobosco e quindi deve muoversi per andare a cercare la luce). Serve per avere informazione sull’ambiente; certo una informazione molto generica: se c’è luce o non c’è luce e che colore c’è di luce, non di più. Non c’è immagine perché non c’è un occhio che può formare un’immagine. Si comincia a trovare un occhio che forma una immagine salendo un po’ nella scala evolutiva.
In questa immagine c’è qualche esempio preso dai molluschi. Da sinistra a destra potete vedere una patella, una conchiglia giapponese che assomiglia ad un conus, un nautilus, un paguro e un polpo. Anche la patella ci vede: queste sono le cellule epiteliali di questa patellina e queste piccole cellule contengono un pigmento fotosensibile. Quindi si comporta un po’ come la medusa: vede la luce. Nella conchiglia simile al conus, già comincia a formarsi una prima infossatura, con delle cellule fotosensibili cioè una struttura che potrebbe assomigliare ad un occhio o per lo meno al fondo di una retina. Nel nautilus “l’occhio” è già molto più infossato, l’epitelio comincia a richiudersi e quindi solo un raggio di luce può penetrare e sensibilizzare la retina. Nel paguro addirittura si forma la lente rifrattiva, l’epitelio, la retina: effettivamente questo sembra molto di più un occhio. Arrivando al polpo vediamo quanto il suo occhio assomiglia al nostro. Ma se io avessi un occhio come quello del nautilus, come vedrei una figura, una lettera A maiuscola?
La vedrei malissimo (come a sinistra nell’immagine sopra); però non è più una questione solo di luce e buio, si incomincia già a intravedere una sagoma. È una A molto confusa, ma se avessimo l’occhio del paguro la A la vedremmo bene (immagine sopra a destra). Pensate allora al polpo che ha l’iride, la cornea, il cristallino, l’umor vitreo: questo vedrebbe bene le immagini! Vedete che, in fondo, a questo livello siamo molto simili: abbiamo la cornea, la pupilla con l’iride, il cristallino, l’umor vitreo, la retina e poi il nervo ottico. Dentro alla retina abbiamo tutte queste cellule fotosensibili, quelle che contengono i pigmenti, i coni e i bastoncelli. Il segnale viene inviato poi al nervo ottico.
L’immagine che si forma sulla retina – che è una immagine analogica, come la camera fotografica -viene trasformata in un impulso di tipo digitale. Se io illumino la retina con un punto luminoso, al centro, parte una sequenza di impulsi, un treno di impulsi con una certa forma. Se io illumino la retina in un altro punto più periferico, non più al centro, ma di lato, parte un’altra sequenza di impulsi: la sequenza cambia a seconda che io illumini una parte o l’altra o l’altra ancora della retina. I diversi treni di impulsi sono veicolati dal nervo ottico al cervello e qui ci differenziamo molto dal polpo ed anche da animali più evoluti!
Questo nella figura sopra è il nostro occhio. La via del nervo ottico si dirama in due principali vie: una via che va dalla retina al tetto ottico e un’altra via che va al talamo e poi alla corteccia. È evidente che quello che ci differenzia evolutivamente è lo sviluppo della corteccia. La via più bassa, quella che va al tetto ottico, è quella filogeneticamente più antica, più arcaica. Man mano che si avanza nell’evoluzione quello che cresce enormemente è la via che va alla corteccia, anche perché c’è un grande sviluppo della corteccia.
Qui sopra potete vedere il cervello di un ratto, quello di un gatto e un cervello umano! Vedete l’enorme sviluppo della corteccia che noi abbiamo rispetto a un animale come il gatto e il ratto. Tuttavia le due vie coesistono, ma cambia moltissimo lo sviluppo della via che va alla corteccia (pensate che solo nella corteccia cerebrale noi abbiamo circa 30 aree cerebrali che sono coinvolte nella esperienza visiva).
Ora quello che noi potremmo chiederci è: un ratto, che ha prevalentemente solo la via più antica, quella che va al tetto ottico, cosa vede? Certo è difficile chiedere a un ratto: “Raccontami cosa stai vedendo!”. Però si può avere un’indicazione di quello che “vede” questa via più antica, interrogando pazienti umani, che hanno avuto una lesione, a causa di traumi o altro, nella via più recente. Per esempio, ci sono dei casi ben descritti di pazienti, che hanno avuto una lesione nella via corticale dell’emisfero destro e quindi non vedono, con la via talamo-corticale, il campo visivo sinistro; tuttavia la via antica è intatta. Per esempio c’è un caso tipico in cui il medico presenta a uno di questi pazienti un oggetto puntiforme luminoso posto nell’emisfero visivo sinistro (quindi in quella parte del campo visivo “non vista” dalla via talamo-corticale destra lesionata). Il medico chiede al paziente: “Cosa vedi?”. E lui risponde: “Non vedo nulla”. Allora il medico dice: “Cerca di prendere quello che ti sto facendo vedere”. E il paziente risponde: “Come faccio a prenderlo se non lo vedo?”. E il medico gli dice: “Ma prova lo stesso!”. Il paziente allora allunga la mano e nel 99% dei casi afferra l’oggetto puntiforme. Quindi che cosa vuol dire? Vuol dire che con la via antica si “vede”, ma cosa manca? Manca la consapevolezza di vedere. È una visione cieca! Si vede, ma non si ha la consapevolezza di quello che si vede. Tutti i paragoni sono sempre un po’ imprecisi, però è come quando noi guidiamo in macchina: noi guidiamo in modo automatico, parliamo con il vicino in maniera molto serrata e intanto facciamo la curva, oppure se viene il semaforo rosso ci fermiamo, cioè andiamo assolutamente in modo automatico. Vediamo in un modo un po’ cieco, senza averne una piena consapevolezza. Certo che se passa un bambino davanti, subito innestiamo la visione cosciente e freniamo. Oppure si può fare l’esempio opposto: ma cosa si vede con la visione corticale, quella in noi così sviluppata? Provate a immaginare: con la visione corticale possiamo vedere a occhi chiusi, con gli occhi della mente; possiamo immaginare i luoghi dove eravamo stamattina, possiamo vedere con gli occhi della mente cioè senza usare l’occhio organico. Questa è una nuova acquisizione: cioè man mano che l’evoluzione aumenta si passa da una visione di luce-buio, poi si comincia a formare un’immagine, poi c’è un’immagine che si precisa e che permette di reagire (la via antica permette di vedere con la visione cieca), e poi infine c’è la visione consapevole, quella corticale; e quella corticale è la visione che ci interroga, ci chiede: “Che cosa sto vedendo?”. Non solo ci dà informazioni sul mondo esterno, ma ci chiede anche: “Che cosa sto vedendo? Che senso ha quello che vedo, che senso ha quella realtà?”. Questo mi sembra il messaggio che alla fine viene fuori guardando a grandissime linee l’evoluzione della vista: da una cosa molto semplice (luce-buio), alla consapevolezza, alla coscienza di ciò che c’è intorno e del significato e del senso delle cose.
Questo è il messaggio che io ho tirato fuori riflettendo su questi aspetti in occasione di questa mostra. L’evoluzione in fondo è un percorso, è una strada e quindi come tutte le strade, come tutti i percorsi, la domanda vera di un percorso è: dove va a finire? Qual è il punto di arrivo? Tutti noi quando partiamo per un viaggio ci chiediamo dove andremo a finire. Ecco questa è la cosa su cui riflettere. Qual è il messaggio che ci porta questa evoluzione? Qual è il punto di arrivo di questa strada, almeno per il momento? Il punto è la coscienza di quello che c’è intorno a noi e la domanda di significato di quello che c’è intorno a noi. Noi abbiamo l’esigenza di comprendere quello che c’è intorno a noi. Da questo punto di vista è indubbio che nulla ci può essere nell’intelletto se non c’è la sensazione del vedere (questa è una frase di San Tommaso che troverete nella mostra). È altrettanto vero però che per avere una percezione autentica del reale, di quello che è, ci vuole una consapevolezza, una coscienza.
È strutturata secondo otto spazi espositivi, che qui sintetizzo. Il primo parla proprio della stupefacente natura della luce cui prima accennava il professor Bellini, delle possibili sorgenti naturali e artificiali, della sua natura corpuscolare ondulatoria, intrigante per certi aspetti ma comunque preziosa, come tutti gli aspetti della natura che via via indaghiamo; preziosa, proprio anche per la nostra stessa esperienza del vedere. Grazie a questa natura noi possiamo vedere lo spettacolo dei colori, con la loro straordinaria gamma prima indicata; e possiamo avere la possibilità di rivelarli anche con semplici esperimenti. Nella mostra avrete la possibilità, quest’anno più ancora di quanto si è fatto negli anni precedenti, di avere realizzazioni interattive, exibit, simulazioni dove fare direttamente esperienza, non soltanto leggere o sentire delle descrizioni, ma iniziare a rendersi conto del tipo di possibilità che la natura straordinaria della luce ci mette a disposizione. Quindi la prima parte è il livello propriamente fisico di tutto il fenomeno.
Si arriva poi alla descrizione della architettura dell’occhio: un capolavoro della “tecnologia dell’evoluzione”. L’occhio umano, con tutti gli optional di serie già a posto, già pronti, forniti alla consegna: molto più di una semplice fotocamera o videocamera, come a volte si dice cercando un facile paragone. Si tratta di un organismo che già al suo primo livello descrittivo rivela tutta l’ampiezza di possibilità cui poi si arriverà procedendo nell’indagine.
La terza stanza è relativa alla retina, quindi all’attività hi-tech di questo sofisticato sensore digitale, che ha una sua struttura che è stata rivelata non tanto tempo fa. Da un secolo si conosce la forma dei neuroni principali, ma tutti i meccanismi complessi che lì si originano e che poi accompagnano il percorso dei segnali sono ancora oggetto di studio. È interessante questo aspetto della retina: che si presenta come avamposto del cervello (come forse ha involontariamente intuito, come sempre, Leonardo nei suoi disegni facendo vedere la fronte del feto molto sporgente); un cervello che vuole affacciarsi sul mondo come se – uso questa analogia – il desiderio di incontrare la realtà, il desiderio di conoscenza, il desiderio di vedere, di entrare in rapporto con la realtà spingesse anche il livello fisico della nostra evoluzione. È nella retina che già inizia quella elaborazione, quel lavoro di codifica e decodifica di cui si diceva. Anche questo è interessante: non è soltanto un punto di passaggio dove viene raccolta una rappresentazione della realtà che poi passa agli stadi superiori per l’elaborazione; inizia già qui l’elaborazione, inizia l’attività, non è un componente passivo. Fin dai primi momenti, dalle prime fasi dell’esperienza del processo della visione c’è un’attività, c’è un io in azione.
L’altra stanza, la successiva, è dedicata allo spettacolo dei colori, quindi alla percezione dei colori, al risultato della combinazione degli impulsi raccolti da tre tipi di recettori sensibili ai tre colori primari con le due forme della sintesi additiva e sottrattiva. Aiuta alla comprensione di questi due tipi di sintesi il riferimento all’arte: nel primo caso i mosaici e nell’altro le splendide vetrate, come quelle delle cattedrali gotiche. In questa stanza ci sarà la possibilità, offerta da alcuni nostri amici che lavorano direttamente nel settore, di avere delle rappresentazioni dal vivo molto efficaci.
Lo spazio successivo è quello che è stato indicato come “il cervello interprete”. Questo meccanismo complesso e raffinato, con un percorso che sembra dispersivo e che prende inizialmente strade molto differenziate che però, come si è scoperto da una trentina d’anni, poi si ricongiungono in quella esperienza unitaria della visione che effettivamente noi facciamo. C’è quindi una continua interpretazione tesa alla verità e al senso di ciò che si vede, un lavoro dove si gioca tutta la persona, dove la persona gioca tutta la sua identità, la sua storia, la sua esperienza rischiando, appunto, di farsi illudere, come abbiamo visto. Le illusioni ottiche hanno un preciso valore a questo punto: non sono da intendersi come limitative o riduttive delle nostre possibilità, ma come un modo per cogliere meglio alcuni aspetti, cogliere meglio aspetti dove, senza di esse, non si capirebbe cosa è la realtà.
La stanza degli effetti speciali mostra alcune caratteristiche specifiche dell’occhio, sempre in questa linea degli aspetti originali e sorprendenti. Sono fenomeni spiegabili in modo spesso molto diversa dalla nostra prima interpretazione immediata: come il fatto che la nostra non sia una visione puntuale attenta a percepire i particolari non isolati ma nel loro contesto; è quindi una visione che ha sempre presente cosa c’è intorno, ha presente lo sfondo, vede ogni cosa all’interno del tutto. O ancora quel fatto sorprendente che, ogni quattro secondi chiudiamo l’occhio, e quindi non vediamo; come mai non vediamo a intermittenza? Come mai non vediamo il buio ogni quattro secondi? Anche qui c’è tutto un meccanismo, illustrato nella mostra, che spiega come il cervello si sconnetta per un istante e quindi impedisce che noi registriamo quello che fisicamente registreremmo, cioè il buio; tenendo però l’immagine in una riserva di memoria per poter avere una continuità.
Una parte della mostra non è una stanza ma è e percorre alcune delle stanze ed è dedicata all’incontro con altre dimensioni della conoscenza, perché è tipico anche dell’esperienza delle nostre mostre soprattutto negli ultimi anni, questo allargamento della nostra conoscenza scientifica a dialogare, a interfacciarsi con altri livelli di rapporto con la realtà. Allora è inevitabile, parlando del vedere, parlando della visione, pensare all’arte. L’artista, come lo scienziato, è colui che fa un uso massiccio del vedere, che deve sforzare l’occhio per cogliere meglio la realtà, per rappresentarla, per darci una rappresentazione della sua visione. Allora l’abbiamo letto così: l’occhio dell’artista ci aiuta a vedere. L’artista utilizza colori, forme, dimensioni in modi diversi a seconda dell’epoca, a seconda dei contesti, a seconda del clima culturale per legare l’immagine percepita alla storia e all’identità del soggetto che guarda. Abbiamo così varie fasi (non necessariamente cronologiche però in parte anche cronologiche) con sottolineature diverse che in momenti diversi l’occhio dell’artista, l’occhio del pittore o la creatività dell’architetto hanno messo in evidenza e hanno aiutato tutti a vedere, a cogliere la realtà. Pensate alla prospettiva, alla differenza tra la visione prospettica e la visione piatta che c’era in precedenza; o all’uso della luce in architettura, a volte anche addirittura esasperato come nell’epoca moderna col “tutto trasparente”, come se la trasparenza fosse l’ideale massimo.
Questo allora è un contrappunto che nella mostra c’è per allargare ulteriormente la nostra capacità di comprendere un’esperienza come la visione che in sé, abbiamo visto fin dall’inizio, ha questa dilatazione, ha questo continuo richiamo al soggetto, all’io, alla persona che vede in un tutt’uno, in un’esperienza unica e che in questo vedere è mossa continuamente, fin dall’inizio dal desiderio di incontrare la realtà nella sua verità e nella sua bellezza.
Così ci ricolleghiamo al tema generale del Meeting. Ci è sembrato significativo e sintetico di questa posizione un brano di Romano Guardini, che adesso leggiamo insieme a mo’ di conclusione. Guardini dice: “Vedere è incontrare la realtà. L’occhio è semplicemente l’uomo nella misura in cui egli può essere toccato dalla realtà – quindi un contatto, un rapporto – nelle forme di questa ordinate alla luce. Nel suo vedere l’uomo vive, altrettanto come nel suo ascoltare, parlare, agire e tutti i problemi della sua vita ritornano nuovamente nel suo vedere – è una continua interazione, è un’unità che si esprime – non si può costruire alcuna del vedere senza prendere in considerazione l’esistenza – l’esistenza viva – dell’uomo. Le radici dell’occhio giacciono nel cuore – in quello che è l’identità, il nucleo centrale del soggetto – ultimamente l’occhio vede a partire dal cuore”.
Questo ci è sembrato significativo a suggello del cammino proposto nella mostra.
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